Nellie McKay
My Weekly Reader

(429 records)

Tre sorprese in un colpo solo, il mese scorso, tutte collegate al nome di Nellie McKay, musicista dalla spiccata individualità e dall’innegabile spessore che non abbiamo alcuna difficoltà a definire quale una delle figure più interessanti apparse nell’ultimo decennio. La prima sorpresa è stata vedere che un nuovo album – il primo dopo cinque anni di silenzio discografico, e il primo per una nuova etichetta – sarebbe stato pubblicato appena due giorni dopo. La seconda sorpresa è stata accorgersi che l’album – un import statunitense – ci si presentava a un prezzo che non si può non definire esagerato, cosa che per un attimo ci ha indotto a riconsiderare gli argomenti degli "scaricatori illegali" (il nostro giudizio sarà ancora più severo quando il CD sarà finalmente nelle nostre mani: cartoncino che si scolla a guardarlo, niente testi né note di copertina).

La terza sorpresa è apprendere che l’album comprende cover di brani, famosi e no, risalenti agli anni sessanta. E questa sì che è una notizia! Il perché è presto detto: mai, nel corso di una decennale carriera, abbiamo accostato il nome di Nellie McKay agli anni sessanta, e non per motivi anagrafici (la musicista è nata nel 1982), ma perché il suo orizzonte stilistico – dando per scontato l’ammodernamento del linguaggio, che qui accoglie senza difficoltà funky e rap – appare saldamente ancorato a un’estetica innegabilmente apparentata a Broadway, ai musical, alla "canzone nobile di intrattenimento" degli anni quaranta e cinquanta e a figure "non rock" per antonomasia quali Doris Day, cantante e attrice cinematografica statunitense il cui repertorio Nellie McKay ha rivisitato nell’album intitolato Normal As Blueberry Pie – A Tribute To Doris Day (2009), primo capitolo di un nuovo contratto siglato con la Verve giunto a conclusione appena un anno dopo con la pubblicazione di Home Sweet Mobile Home. Impossibile non notare che anche questo nuovo contratto si apre all’insegna di un album di cover.

I primi tre album di Nellie McKay – lo spettacolare esordio Get Away From Me (2004), l’ottimo seguito Pretty Little Head (2006) e l’audace e innovativo Obligatory Villagers (2007) – costituiscono un corpus d’autore che abbiamo offerto ai nostri interlocutori ogniqualvolta ci siamo visti presentare l’argomento "non ci sono più talenti come quelli di una volta": voce originale e versatile, polistrumentista di non comune caratura, stile compositivo ricco, tutte qualità che sull’album di esordio hanno trovato un colossale aiuto nel lavoro di Geoff Emerick, tecnico entrato nella storia del rock innanzitutto per il suo apporto al lavoro discografico dei Beatles (e certo il budget messo a disposizione dalla Sony non guastava).

Per quanto pronunciata con innegabile humour in un contesto scherzoso, "Forse avrei dovuto firmare con la Verve invece che con la Sony" non era frase che diceva di rapporti idilliaci. Seguiva autogestione, e un promettente allargamento di orizzonti che in Obligatory Villagers vedeva archi e fiati – e un suono spettacolare – a testimoniare che la musicista era in grado di padroneggiare anche una tavolozza più ampia.

Approccio "teatrale" che la vede vestire sovente nelle sue canzoni i panni di un "personaggio", Nellie McKay si è trovata naturalmente a calcare le tavole del palcoscenico in ruoli molto apprezzati e in lavori a volte da lei composti che le hanno assicurato il favore della critica, in primis di Stephen Holden, storica firma del New York Times. A fianco, una serie di esibizioni in storici locali newyorkesi in quella cornice stilistica dotata di proprie regole che va sotto il nome di "Cabaret", il più recente esempio essendo l’ingaggio al celebre Café Carlyle per uno spettacolo intitolato Nellie With A "Z", con ovvio riferimento a Liza Minnelli (Liza With A "Z").

A questo punto dovremo essere sinceri: esprimendo un parere personale, sin dal primo album abbiamo sperato che Nellie McKay venisse accolta da un pubblico "rock" in grado di assecondarne il talento e lo spessore e lontano da quello che ci pare essere, per semplificare le cose, il pubblico del Carlyle. Nel film di Woody Allen intitolato Anna e le sue sorelle c’è una scena in cui il personaggio interpretato da Allen porta il personaggio interpretato da Dianne Wiest al Café Carlyle. Qui la Wiest inizia a sniffare cocaina, tra le proteste di Allen, che teme che la cosa venga notata. "Ma tanto qui sono tutti imbalsamati!", è la risposta della Wiest. Una scena alla quale il critico statunitense Francis Davis ha fatto riferimento in un profilo del musicista afro-americano Bobby Short, al tempo attrazione fissa al Café Carlyle.

Quel che cerchiamo di dire, per quanto confusamente, è che la scelta di interpretare personaggi, che per un verso è fonte di libertà, può rivelarsi contraddistinta da costrizioni sue proprie, oltre a incorporare per definizione un "effetto distanza" per certi aspetti liberatorio ma che impedisce un rapporto con il pubblico che non sia mediato da una "maschera".

Tenendo in debito conto l’umana fallibilità ci è parso che l’album Home Sweet Mobile Home vedesse Nellie McKay scissa tra le caratteristiche abituali al suo repertorio – ma stavolta con meno freschezza e minore spirito innovativo – e canzoni che con parola incerta definiremmo maggiormente "personali": The Portal, Absolute Elsewhere, e l’iniziale Bruise On The Sky. Certo era sconcertante vedere la musicista approdare a lidi non lontani dal normale "easy listening" – e, nel pezzo che apre l’album, andare vicinissima ad Avril Lavigne – ma questi ci erano parsi tentativi di un nuovo inizio.

Poi il silenzio, o almeno quello che riguarda la musica-musica, ché il teatro era lì. Ma cosa c’entra il teatro con la sincerità degli anni sessanta?

My Weekly Reader vede la ripresa di brani interpretati da nomi famosissimi – i Kinks, i Beatles, Frank Zappa, Crosby, Stills & Nash – e "di culto" quali Country Joe And The Fish e i Moby Grape; "one hit wonder" come The Cyrkle e nomi storici del "beat psichedelico" anglosassone quali gli Small Faces; e poi Alan Price, la Steve Miller Band degli esordi, il folk di Richard Fariña, il "beat" di Gerry And The Pacemakers, e quella bizzarria inglese che rispondeva al nome di Herman’s Hermits.

Ci siamo divertiti a immaginare quali brani Nellie McKay avrebbe potuto includere sull’album, accanto o al posto di scelte da lei effettuate. Ci è venuta in mente la Laura Nyro del primo album – qui opposti polari quali Wedding Bell Blues e Buy And Sell avrebbero offerto ghiotte occasioni. Ci viene in mente Donovan, e se hit quali Sunshine Superman e Mellow Yellow sembrano usurati dall’eccessiva frequentazione allora c’è quel garbato hit anti guerra del Vietnam intitolato To Susan On The West Coast Waiting. Curioso che My Weekly Reader veda assenti The Mamas And The Papas, e anche qui se gli hit Monday, Monday e California Dreamin’ possono sembrare troppo frequentati brani quali Twelve-Thirty, Look Through My Window e Somebody Groovy avrebbero potuto offrire stimolanti opportunità.

Nonostante i nostri sforzi non siamo riusciti a trovare un filo conduttore né una ratio delle scelte, né le poche cose dette dalla musicista nelle rare apparizioni da noi scovate in Rete – e certo sono lontane le apparizioni in luoghi sacri dell’entertainment statunitense quali lo show di David Letterman propiziate dalla Sony al tempo dell’album di esordio – non ci sono parse andare al di là delle frasi di circostanza tipiche dei comunicati stampa. Ci pare evidente il tentativo di ritornare ai tempi del primo album: My Weekly Reader vede il ritorno di Geoff Emerick in qualità di co-produttore, tecnico di registrazione e addetto al missaggio. Ma lì un repertorio originale, una voce fresca e una lingua appuntita facevano la differenza. "Blocco compositivo" o accettazione del fatto che i brani composti dalla stessa McKay sono di appeal "selettivo", My Weekly Reader è un lavoro fin troppo eterogeneo dove non tutto è venuto al meglio. Suono discreto, trio di strumentisti in appoggio – al basso c’è Bob Glaub – e la titolare a occuparsi con verve e sicurezza di un numero prodigioso di strumenti.

E’ possibile che qualcuno tra i lettori abbia storto la bocca davanti all’espressione da noi usata in precedenza, "la sincerità degli anni sessanta". Potremmo essere più precisi e dire che, con pochissime eccezioni, la musica degli anni sessanta non è "autoriflessiva" (qui il nome che viene in mente per opposizione è quello di Andy Warhol). E certo le convinzioni post-moderne e lo scherno con cui viene accolta la parola "autenticità" – ricordiamo di passata quanto scritto da Simon Frith a proposito di Bruce Springsteen – dovrebbero essere sufficienti a impedirci di pensare la "sincerità" nei suoi termini storici.

Da parte nostra notiamo però una regolarità empirica: che mentre nessuno crede che l’attore di un film "sia" il personaggio moltissimi tendono a essere delusi se "il cantante" non coincide con "la canzone". Ricordiamo i tempi in cui si diceva che "la vita di Mick Jagger" per come essa si svolgeva in pubblico rendeva le sue interpretazioni delle canzoni "poco credibili", un punto di vista che non ha senso se non alla luce del processo di cui stiamo dicendo. E’ ovvio che nessuno ha mai creduto che Elton John fosse davvero un astronauta quale quello cantato su Rocket Man ("She packed my bags last night, pre-flight/Zero hour nine a.m.). E certo nessuno credeva che il Frank Zappa che diceva "I’m a dancing fool" e "I’m Bobby Brown" dicesse la verità. Ma se disponiamo i nostri oggetti lungo un continuum vediamo che "l’effetto distanza" percepito – qui un buon esempio è la voce nasale di Dagmar Krause che canta un enigma di Peter Blegvad – contiene in sé un ostacolo specifico al gradimento conseguente a un’immedesimazione; e qui un buon esempio è il brano di Carole King cantato da James Taylor che recita "When you’re down and troubled/And you need some lovin’ care". Abbiamo detto altrove di come You’ve Got A Friend sia anche una "risposta" al disgregarsi della famiglia statunitense, ma questo è semmai un valore aggiunto.

E’ nostra ferma convinzione che – per motivi che sarebbe impossibile anche solo riassumere qui – l’accettazione della vita come una serie di "maschere" tali da rendere improponibile la distinzione tra "autentico" e "artificiale" abbia lasciato il posto a un’esigenza di "autenticità" tale da rendere la successione di identità nel corso di una vita un processo che vede ogni singola identità come "relativa" qualora vista nel percorso globale ma "assoluta" se vista in un segmento di tempo dato.

Per dirla in soldoni, la fine del "modello Madonna" e il ritorno della figura del cantautore. Ed è vero che qui i fattori in causa possono essere molteplici, ma a nostro avviso la riscoperta dei cantautori "storici" e il proliferare di un’enorme quantità di nomi nuovi che si muovono su quella scia è il segnale di un’esigenza diffusa di ascoltare una voce che ci parla – ma una voce che non provenga da dietro una maschera.

Ed è qui che nasce la frizione sottostante a questo album di canzoni ora interpretate da Nellie McKay: che la maggior parte di esse si muove in una dimensione in cui le "forme" non venivano ancora percepite come tali, a fronte di una musicista che tende ad assumere un atteggiamento "teatrale".

Quali i risultati? Diamo un’occhiata al dettaglio.

Sunny Afternoon è l’indelebile singolo di successo dei Kinks, poi sull’album Face To Face (1966). Buona interpretazione vocale, pianoforte brioso, lascia perplessi il cambiamento di genere (e "Give me two good reasons/Why I ought to stay" ci suona strana).

Quicksilver Girl riporta alla Steve Miller Band "psichedelica" dei tempi di Sailor (1968). Bel basso di Bob Glaub, atmosfera sognante, il brano è il tipico ritratto etereo di tante ragazze di quel periodo (Ruby Tuesday), l’interpretazione vocale è (sorprendentemente?) neutra.

Il medley di due brani di Alan Price provenienti dalla colonna sonora di O Lucky Man! giunge da un po’ più in là negli anni (1973). Poor People/Justice funziona, con marimba e sassofono mariachi. Il testo ricorda l’estetica di Randy Newman e – forse più appropriatamente – il padre della "canzone cinica" Mose Allison.

Collegata a Justice, Murder In My Heart For The Judge riporta ai Moby Grape di Wow (1968). Qui il brano ci pare riletto alla luce di certe interpretazioni di Dusty Springfield su Dusty In Memphis. Synth quasi "disco", bella coda pianistica, il brano vede il banjo di Bela Fleck quale ospite aggiunto.

L’interpretazione di Bold Marauder di Richard Fariña riporta al folk di metà anni sessanta. Presa alla lettera, questa versione non pare discostarsi molto dall’originale, ma da parte nostra riteniamo che la rilettura colma di minaccia fatta da Johnny Kay degli Steppenwolf sul suo album solita Forgotten Songs & Unsung Heroes (1972) e quella ricca di mistero contraddistinta da un harmonium fatta da Kendra Smith su Five Ways Of Disappearing (1995) portino alla superficie quel Male che, implicito nella versione originale, rende un po’ reticente quella di Nellie McKay: qui sembra di essere a teatro, con la "distanza" ad annullare il senso di minaccia.

Classico degli Small Faces, il singolo Itchycoo Park (1967) si fece notare anche per l’effetto di "flanging" applicato su un passaggio batteristico, frutto dell’ingegno del tecnico George Chkiantz. La versione di Nellie McKay non è male, con chitarra acustica, organo, piano, basso, l’effetto "phasing" e i cori sbarazzini, ma manca di un miglio la tensione implicita nella voce di Steve Marriott e la sfida di dichiarazioni quali "What did you do there?" "I got high!", e "I feel inclined to blow my mind", che danno una valenza speciale a "It’s all too beautiful". Qui sembra invece un giorno qualunque con spinello sull’erba.

Fin troppo paradossale che uno dei brani che qui suonano più autentici sia anche uno dei più finti. Successo clamoroso negli Stati Uniti, Nellie McKay è andata a ripescare la Mrs. Brown You’ve Got A Lovely Daughter di quel gruppo, gli Herman’s Hermits, un tempo rivale dei Beatles. Qui l’interpretazione vocale duplica l’accento "British" di Peter Noone, un ex attore. Ukelele, marimba, e una resa da "show tune".

Not So Sweet Martha Lorraine riporta a Electric Music For The Mind And Body, esordio discografico (1967) di Country Joe And The Fish. Il pezzo viene bene, con riproduzione fedele di quell’interscambio organo-chitarra solista che era una delle cifre distintive del gruppo. Bel basso, e di un nuovo un rimando a Dusty In Memphis, per un brano che rappresenta la categoria "ritratto negativo" non così rara a quel tempo (ci viene in mente la Amphetamine Annie dei Canned Heat).

Retro di And I Love Her (1964), la If I Fell dei Beatles viene riproposta in una limpida versione a due voci a rispecchiare la versione originale.

Introdotto e chiuso da una bella armonica dal sapore innegabilmente dylaniano, il grande successo dei The Cyrkle intitolato Red Rubber Ball svela immediatamente la firma di uno dei due autori: Paul Simon. Buon esempio di "folk rock", la versione che qui appare è bella, spigliata e ariosa.

Don’t Let The Sun Catch You Crying è un successo di un altro dei gruppi grandi rivali dei Beatles, Gerry And The Pacemakers. Questa versione rispetta l’atmosfera malinconica e "understated" dell’originale (1965), con marimba, clarinetto, ukelele e voci "trattate" ad arricchire il quadro. Strano accorgersi di poter notare a tratti il lavoro di "comping" che ha portato a unità esecuzioni vocali diverse. A mille miglia di distanza, la versione altamente drammatica fatta in concerto da Rickie Lee Jones, come ben testimoniato da Live At Red Rocks (2001).

Hungry Freaks Daddy viene dall’album di esordio delle Mothers Of Invention di Frank Zappa, Freak Out! (1966). Il brano perde qui del tutto l’originale caratura "abrasiva". A nostro avviso fuori posto il conclusivo, funambolico assolo di chitarra di Dweezil Zappa.

In chiusura, uno degli indiscussi classici della "musica della West Coast": Wooden Ships, contenuta sull’album di esordio di Crosby, Stills & Nash (1969). E’ questo per certi versi il brano in cui è più evidente una "riscrittura". L’originale ha una forte valenza drammatica e "confrontational", ancora più evidente nella versione strumentalmente brillante fatta dai Jefferson Airplane di Volunteers (1969). Qui ci sono marimba e clarinetto, ma soprattutto delle voci rese "rotonde" da un plug-in, con effetto ben strano e un’atmosfera sognante che diremmo appropriata per i titoli di coda di un film. Ricorda l’originale quanto il film Inherent Vice ricorda gli anni sessanta, se è chiaro il concetto.

Una notazione finale. Non sappiamo se per motivi di recitazione teatrale, Nellie McKay ha qui abbandonato i famosi "lisci e dorati" in favore di un taglio corto e pratico da "brunette". Più importante, la voce sembra aver perso capacità di intonazione nelle note basse, cosa strana per una cantante che non fuma. Troppo teatro per una voce non contraddistinta da un’emissione tonante?

Beppe Colli


© Beppe Colli 2015

CloudsandClocks.net | Apr. 17, 2015