Nellie
McKay
Home
Sweet Mobile Home
(Verve)
Eravamo
decisamente curiosi di ascoltare il nuovo lavoro di Nellie McKay: primo
album targato Verve contenente materiale originale un anno dopo l’omaggio
a Doris Day di Normal As Blueberry Pie, a tre anni di distanza da quell’Obligatory
Villagers che era parso a chi scrive il punto più alto finora raggiunto
dalla crescita artistica della musicista statunitense, Home Sweet Mobile
Home era chiamato a fare il punto su una vicenda che negli ultimi tempi
ci aveva fatto sorgere più di qualche dubbio.
Richiesto
l’album in preordine, atteso il dovuto e anche più (è un prodotto import),
finalmente eccolo qui. Lo inseriamo nel lettore CD e attendiamo con un
forte senso di aspettazione. Primo brano: nota sostenuta di chitarra, bacchette
a dare il tempo – 1, 2, 3, 4 – e attacco di batteria e chitarra con synth
a fare un finto-Rhodes. Voce doppiata, cori eterei, "send me a smile
like Charo"
(?) (controlliamo i testi… Non ci sono?!), poi ritornello… e sembra proprio
di ascoltare la voce di Avril Lavigne (!), con un brano che pare scritto
per lei da… (Diane Warren?). Colpo rozzo di batteria, cambio di tonalità
brutto e forzato, archi finti e pomposi, poi si torna al ritornello (c’è
anche una specie di "taglio" mal fatto a 4′ 16") e fine.
A questo
punto, mentre confusamente cerchiamo di capire se forze maligne ci hanno
trasportato in un universo parallelo, una voce familiare inizia a cantare
con il solo accompagnamento di un ukelele, come per dire "sono sempre
io, Nellie!". E qui, con nostro grande sconcerto, sentiamo la nostra
voce urlare a pieni polmoni "NELLIE, MA CHE CAZZO HAI FATTO!".
Beh, non
proprio. Ma è quello che sarebbe successo prima di Internet, se avessimo
ricevuto l’album essendo all’oscuro di tutta una serie di fattori di cui
ora andiamo lestamente a dire.
Chiariamo
subito: per chi scrive Nellie McKay è una delle musiciste più intelligenti,
versatili e creative apparse nell’ultimo decennio, e solo questo è il motivo
per cui ora ce ne occupiamo. L’esordio di Get Away From Me (2004) rimane
a tutt’oggi stupefacente per ampiezza, maturità e personalità del materiale
e sicurezza e versatilità della voce (mettiamo da parte i "punti extra"
del fattore "giovane età"). Due anni dopo, Pretty Little Head era
riuscito a evitare il pericolo del "secondo album uguale al primo, ma
con meno freschezza" mentre segnalava il divorzio dalla Sony (la potenza
discografica dietro l’album di esordio) e l’inizio di un periodo di autogestione.
Di Obligatory Villagers s’è già detto.
Era poi
venuta la firma di un nuovo contratto (ma attenzione: è "la grande
Universal", non "la piccola Verve"), e già il primo passo
ci aveva lasciati perplessi: che senso poteva avere un "esordio dopo
tre album" che metteva da parte il repertorio originale della McKay
per riprendere quello reso noto (un tempo!) da Doris Day? Come da dichiarazione
ufficiale, la mossa era stata suggerita dal suo A&R man Mitchell Cohen,
probabilmente allo scopo di fornire un "gancio" al quale etichetta,
promozione, riviste e giornali potessero appendere l’album. Con che risultati
reali in termini di vendite non è dato sapere. L’album ci piacque poco,
ma più per la nostra totale estraneità a quel repertorio e per il fastidio
da noi provato nei confronti di quell’operazione che per dei difetti intrinseci
all’album, che ci astenemmo dal recensire in attesa di qualcosa contenente
materiale originale.
Un’attesa
che non è stata serena. Innanzitutto per la notizia di un
"contributo" di David Byrne. Quale? A piacere, si va da "a
guiding force and spirit" ad "artistic guidance". Fatto strano,
in una copertina colma di ringraziamenti il nome di Byrne non appare. Mandiamo
un po’ di e-mail per sapere qualcosa sull’identità di chi lavorerà sull’album
e ci torna indietro il nome di Tony Maserati, a noi sconosciuto. Consultiamo
Wikipedia… gulp!: non è proprio il nostro genere di cose, ma ovviamente
la competenza tecnica è tutt’altra faccenda. Altro fatto strano: è nel corso
di un’intervista che la McKay apprende dell’esistenza di un account Twitter
a suo nome creato (si suppone dalla sua casa discografica) a sua insaputa.
Piccola stranezza ulteriore: a fronte di un CD dal costo di $10 più spese
varie, con soli (!) $35 il sito ufficiale offre un Fan Pack (limitato a soli
500 esemplari) contenente: una litografia autografata, un CD uguale a quello
in commercio, lo stesso materiale sotto forma di file mp3, e quattro inediti,
anch’essi in solo file mp3. A 35 dollari.
L’album
è una totale delusione. Aspetto cromaticamente affine a quello dell’album
Doris Day, libretto privo di testi. Questa dei testi è una faccenda assai
strana: se ben capiamo, dovrebbe scattare un contrasto tra una musica "più
piana, meno aggressiva" di quella degli album precedenti e testi
"sovversivi". Ma dove sono? Una piccola pattuglia di amici ha battuto
la Rete in lungo e in largo, ma senza alcun risultato. Buffo notare che le
poche recensioni finora apparse li citino con generosità, anche se a pezzi
e bocconi; ancora più buffo leggere in qualche forum, in risposta a chi essendo
"estero" ne lamentava la mancanza, "ma guarda che si capiscono
perfettamente!". Qui lasciamo il lettore libero di congetturare.
Ma è la
musica che è scarsa assai. Qui pare di procedere "per formula",
con le caratteristiche ormai note a diventare maniera. Non c’è un’innovazione,
un colpo d’ala, e le "novità", in primis un’accentuazione ritmica
caraibico-latina, sono poca cosa. Non è un (supposto) problema di
"eccessiva eterogeneità" a fregare l’album (la grande varietà non
è certo una novità per gli album della McKay!), ma la sua estrema superficialità.
I musicisti sono di qualità variabile – dopo tanto tempo risentiamo il basso
di Bob Glaub, tra i batteristi e chitarristi c’è gente dal suono atroce –
ma non sarebbe giusto dare la colpa alla manovalanza: il materiale, non eccelso,
è configurato per mettere in evidenza la voce, che è sempre bella ma che
si trova costretta in un quadro angusto che in sede organizzativa la stessa
cantante ha contribuito a creare.
Bruise
In The Sky è l’atroce apertura di cui s’è detto. Adios è il melodico brano
per voce e ukelele, ballad serena. Caribbean Time è un reggae con rimshot
in evidenza, spigliato; sax e clarinetto, funzionali, sono della stessa
McKay. Please è una rilassata ballad vocale in ¾ con ukelele, loop
di batteria, sax e synth, un po’ Broadway, con finta chitarra solista;
suona come un demo!, ed è alquanto simile a cose registrate al Lofish Studio
pubblicate su Pretty Little Head.
Beneath
The Underdog è uno spigliato calypso con buon basso di Bob Glaub. "I’ve
gotta exorcise your spirit from my soul", Dispossessed è un brano
che sfiora pericolosamente il "pastiche", con contributo latino
di tromba, sassofono e voci di Willie Murillo e Mark Wisher, che ne hanno
anche curato l’arrangiamento. La stessa cosa avviene per ¡Bodega!, cha-cha-cha
per Broadway con forti tinte mariachi. In mezzo, la melodica e pianistica
Portal, che sarebbe stata solo un episodio minore sugli album precedenti,
qui rifulge grazie a cotanta compagnia.
Orribile
sassofono per Coobasa Blues, brano che in virtù di un’accentuata monotonia
pare interminabile. No Equality sveglia dal sonno, con swing R&B, sax
e arrangiamento di Paul Holderbaum, tromba sordinata, buon basso, ottime
voci, piano non accreditato.
Sorpresa:
Absolute Elsewhere sembra venire da un altro mondo (o per meglio dire dalle
session di Obligatory Villagers): marimba, melodia meno accomodante a voci
multiple, potente sezione fiati, uscita solista di tromba, sax tenore,
ottima ritmica. Unknown Reggae è un altro brano reggae, ma stavolta il
risultato è più fresco e spontaneo; però "si siede", risultando
troppo lungo. Violino, tromba, trombone, tuba, sassofono, batteria, piano
e voce, per l’aria
"anni quaranta" di Bluebird, registrata dal vivo.
Abbiamo
cercato sul vocabolario la parola "compromesso":
a) un accordo su una disputa raggiunto grazie al fatto che ciascuna parte
fa delle concessioni;
b) uno stato di mezzo tra opinioni o azioni in conflitto raggiunto grazie
a concessioni o modifiche;
c) l’accettazione di standard più bassi di quanto sarebbe desiderabile; interessante
l’esempio che viene fatto: il sessismo dovrebbe essere affrontato senza
compromessi; ma anche l’accettazione di standard più bassi nell’arte ci
pare un compromesso da evitare.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2010
CloudsandClocks.net
| Oct. 14, 2010