Aimee Mann
The Forgotten Arm
(SuperEgo)
Quanti,
all’epoca del mega-hit dei ‘Til Tuesday intitolato Voices Carry, vent’anni
fa, sarebbero stati in grado di anticipare un futuro in cui Aimee Mann
– voce e volto della formazione statunitense – avrebbe goduto di non
immeritata fama quale autrice di un corpus di canzoni accattivanti ma
di indubbio spessore, nell’eterno spirito del pop di qualità?
Diremmo nessuno, artista inclusa. Una giovane MTV affamata di facce
nuove aveva ben accolto i ‘Til Tuesday e Aimee Mann, vera ragion d’essere
del gruppo: un suono – più inglese che americano – decisamente
in linea con le nuove tendenze "new wave". Non molto tempo
dopo – gruppo in passaggio promozionale su un’emittente televisiva italiana,
fumo colorato e tutto il resto – What About Love confermò le
coordinate musicali, ma fummo un po’ stupiti dall’aspetto della cantante:
stivali da combattimento molto "punk", altezza (stimata) un
metro e ottanta, basso Fender Precision suonato (con il plettro) con
sciolta sicurezza. Come spesso accade in questi casi, a un precisarsi
degli obiettivi artistici fece seguito un appannamento delle fortune
commerciali e un logico disinteresse da parte della casa discografica.
Fine.
Del
tutto inaspettatamente, Whatever (1993) e I’m With Stupid (’95) dissero
di una cantautrice dal linguaggio fresco e moderno, in grado di assimilare
ed elaborare influenze recenti (il meglio della "nuova Inghilterra
cantautorale": Costello, XTC, Squeeze) e sempiterne (su tutte Beatles
e Bacharach). A ben impressionare erano (in ordine sparso): un evidentissimo
senso di "orgoglio artigiano" nella scrittura delle canzoni;
una vocalità duttile che sceglieva di non enfatizzare i sentimenti
espressi; testi degni dell’iperanaliticità di una Joni Mitchell
spesso in rotta di collisione con le melodie. Per dirla in breve: la
ricetta sicura per un successo colossale. Sono infatti ben note le traversie
della musicista quando si tratta di case discografiche, pressioni, accordi
non rispettati e conseguente limbo commerciale.
La
colonna sonora del film Magnolia (’99) rese Aimee Mann un nome decisamente
familiare, con conseguente fondazione di una piccola etichetta personale
e buoni risultati commerciali per il nuovo album Bachelor No. 2, in
fondo la summa di quello che la musicista aveva fin lì realizzato,
e un buon punto di partenza: vario oltre ogni dire, con arrangiamenti
appropriati, buone prestazioni vocali e bella duttilità nello
scrivere "in carattere" – si ascolti quale esempio il brano
Ghost World, perfettamente in grado di rendere il senso di una strip,
e di un film non ancora girato. Sono canzoni "adulte", qualità
che è oggi vero bacio della morte per ogni speranza commerciale
di ampie dimensioni (abbiamo la sensazione che quelli che lodano Save
Me quale brano di "squisito light pop" non l’abbiano mai ascoltato
con troppa attenzione).
Com’è
ovvio, al momento della pubblicazione di Lost In Space (2002) il piccolo
capitale mediatico conseguente alla nomination all’Oscar per la colonna
sonora di Magnolia era già tutto esaurito. E va da sé
che le canzoni della Mann mancano totalmente di quella veste stracciona
che è un elemento distintivo di non poca produzione "indie".
Un vero peccato, dato che l’album (vario quanto basta, ma più
concentrato e meno entertainer del suo predecessore) è quanto
di più affascinante l’artista abbia prodotto: un album scuro
e musicalmente stratificato che solo la mancanza di quelle vesti straccione
di cui sopra ha (fortunatamente!) privato di etichette quali "capolavoro
tossico" & affini (vedremo chi in futuro avrà la faccia
tosta di annunciare "la riscoperta di un capolavoro incompreso").
Giungiamo
così alla pubblicazione di The Forgotten Arm. La comparsa dell’album
è stata preceduta da indiscrezioni secondo le quali le influenze
principali sul disco (tra parentesi, un "concept album" in
piena regola) sarebbero state Elton John, The Band e Rod Stewart. La
produzione, affidata a Joe Henry, sembrava in grado di promettere la
giusta quantità di "American sound". In effetti la
musicista ha citato i tre nomi di cui sopra con preciso riferimento
a un album in particolare: nell’ordine, Tumbleweed Connection, Music
From Big Pink e Every Picture Tells A Story. Ma posto che non è
certo questa la prima volta che Aimee Mann li cita, come evidente da
una breve dichiarazione resa a Mojo (che non tutti hanno letto con la
dovuta attenzione) i tre album vengono presi soprattutto quale esempio
di dischi fatti "con pochi strumenti suonati tutti insieme"
in opposizione all’approccio "a strati", per esempio, dei
Beatles (un’influenza pressoché impossibile da rintracciare sul
nuovo album).
Chitarre,
basso elettrico, batteria e tastiere – soprattutto pianoforte, e un
organo che ci è sembrato una buona approssimazione digitale del
vecchio Hammond – e un suono pieno e "reale": questa la dimensione,
sulle prime per chi scrive sconcertante, che caratterizza The Forgotten
Arm. Un suono "primi anni settanta" per quella che pare essere
una storia ambientata proprio in quei giorni. Qui è anche questione
di preferenze: chi ha trovato troppo freddo, piccolo, analitico e stratificato
il suono di Lost In Space si troverà qui maggiormente a proprio
agio; all’opposto, chi trova il suono pieno e grintoso caratteristico
di un’epoca ormai lontana (e dei dischi di Bruce Springsteen) non sarà
certo entusiasta della scelta qui operata. Ovviamente impossibile prevedere
l’atteggiamento di chi, con un orizzonte delimitato dai Coldplay da
un lato e da 50 Cent dall’altro, si troverà dinnanzi un suono
sconosciuto.
Volendo
trovarle, le affinità ci sono – si ascolti il quasi-Stax della
bella King Of The Jailhouse, con aggiunta di fiati; la Band fa capolino
più di una volta, con organo vibrante (e ovviamente dietro a
tutto c’è il Dylan di Like A Rolling Stone); e c’è ancora
Bacharach – con effetto bizzarro, essendo il brano intitolato I Was
Thinking I Could Clean Up For Christmas; ma già dalle prime battute
di ogni pezzo non è mai difficile indovinare chi stiamo ascoltando.
Il problema dei primi sei brani è che il suono del gruppo e gli
arrangiamenti sembrano appiattire tutto, fornendo una patina di eccessiva
uniformità a una scrittura certamente non tra le più varie
e che a parere di chi scrive aveva trovato una buona alleata nella produzione
"artificiale" e "su misura" degli album precedenti.
Certo è che il disco prende quota parallelamente allo svolgimento
della storia, quando i pezzi diventano più tristi e gli arrangiamenti
più scarni: Video, Little Bombs, That’s How I Knew This Story
Would Break My Heart, I Can’t Help You Anymore, la già citata
I Was Thinking I Could Clean Up For Christmas e la conclusiva Beautiful
entrano di diritto in un’antologia ideale dell’artista. Se ciò
possa bastare è cosa che ognuno dovrà decidere da sé.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net | May 24, 2005