Prolegomena a "Principi di Logica Bruta"
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di Beppe Colli
Nov. 12, 2020
L’idea alla base dei
"Principi di Logica Bruta" – un’opera poderosa destinata a darci fama
eterna che avevamo immaginato in tre volumi, non uno di meno – risale non alla
notte dei tempi, ma all’epoca in cui frequentavamo il liceo. Ricordiamo
perfettamente la molla: "E’ più forte di me", frase ascoltata mille
volte in mille occasioni diverse con mille sfumature di significato (una lunga
storia che preferiamo tenere in serbo per un’altra volta). Bastò a darci la
scintilla, e a renderci plausibile l’idea di sistematizzare (ciò che ai nostri
occhi si presentava come) l’assurdo.
E ora facciamo un salto in avanti di un paio di decenni.
Di tanto in tanto ci
capitava di far visita ad alcuni dei nostri ex professori al Dipartimento (di
Scienze Politiche e Sociali) e di fare quattro chiacchiere sullo stato della
Modernità. Un giorno – non ricordiamo l’anno, ma "a cavallo tra gli
ottanta e i novanta" non dovrebbe essere lontano dalla verità – ci fu
detto:
"Colli, ma lo sai che studenti ci stanno mandando i
licei? L’anno scorso abbiamo cominciato a notare qualcosa di molto strano, e
quest’anno purtroppo abbiamo avuto la conferma".
Quindi?
"A settembre partiamo con i Corsi Zero, organizzati
dalla Facoltà: storia, filosofia, matematica, geografia… Come puoi parlare di
Toqueville e della Democrazia in America se questi non sanno neppure quando
sono stati fondati gli Stati Uniti, quando è scoppiata la Rivoluzione Francese,
cos’è l’Illuminismo… Niente. Marx, le fabbriche, la Comune di Parigi… Ti
guardano con gli occhi spalancati e capisci che non ti seguono. Neppure le
guerre mondiali! Ma non è che possiamo ogni volta interrompere il discorso per
spiegare cose semplici che sono nel programma delle Superiori e che dovrebbero
conoscere, dato che sono stati promossi e hanno deciso di andare
all’università."
Non faceva una grinza.
Erano ancora da venire i tempi dei reportage giornalistici
in cui professori atterriti spiegavano che "i ragazzi non ce la fanno a
seguire un discorso per più di un quarto d’ora, poi ti devi fermare e li devi
distrarre, sennò li perdi completamente. E dopo che hai fatto una pausa di
qualche minuto li vedi che sono di nuovo freschi e allora puoi ripartire."
La conclusione sembrava evidente. Lasciati soli in casa da
genitori che lavoravano, i ragazzi si erano ritrovati la televisione come
babysitter. Dalle merendine alle felpe, miliardi di pubblicità si erano
riversati sulle "tv private", i cui programmi sembravano aver fatto
strage delle povere menti.
Raccontiamo un aneddoto?
Una decina di anni
orsono un nostro amico docente alla Accademia di Belle Arti ci invitò per
chiacchierare di copertine di LP con i suoi studenti. Un allievo giunto in
ritardo, forse per farsi perdonare, decise di mettersi in mostra chiedendoci –
si stavano esaminando alcune immagini dello studio Hipgnosis – quale programma
di grafica fosse stato utilizzato per realizzarle. Risultava evidente che il
fanciullo – che si era presentato quale "specialista in fotografia" –
non conosceva nessuna delle tecniche fotografiche usate in quelle immagini.
Interrogato, venne fuori che non aveva la minima idea di quando i computer
avessero iniziato a diffondersi né dell’evoluzione dei software di grafica.
Un altro aneddoto?
Una ventina di anni
orsono un nostro amico docente all’Accademia di Belle Arti ci invitò – diremmo
alquanto incautamente – per discutere con i suoi studenti del "ruolo del
critico". In quell’occasione una studentessa dall’aria inferocita ci aveva
martellato per una buona mezz’ora, impermeabile a tutte le nostre
argomentazioni. A suo dire, i critici dovevano morire di fame, pagarsi da soli
i CD da recensire, assistere ai concerti a proprie spese, viaggiare mettendo
mano al borsellino e così via. In sintesi, non era giusto che i critici fossero
pagati per dire cazzate e che – fra tante, era questa l’asserzione che ci aveva
maggiormente colpito – "imponessero il loro punto di vista agli
altri".
Mettendola su un piano scherzoso – avevamo una conoscenza
discretamente approfondita del lavoro dei critici – avremmo potuto anche darle
ragione, ché la mondezza di cui erano pieni i giornali era davvero
impressionante. Ma una cosa è valutare negativamente il lavoro di
"quel" critico, un’altra estendere il giudizio a tutti i critici, e
al ruolo in sé.
Messa in soldoni, la sua posizione poteva essere espressa
dalla frase "Chi sei tu per dirmi cosa è giusto e cosa è sbagliato, e cosa
devo pensare io?".
Per noi, "chi sei tu" era una domanda che non
aveva mai avuto alcuna importanza, a differenza di "cosa sai tu".
Facendo un (impossibile) viaggio di dieci anni nel futuro, avremmo detto che
qualcuno che ignorava le tecniche fotografiche e il percorso della computer
grafica si presentava molto poveramente in quel consesso, e che il fatto
costituiva un esempio perfetto per distinguere una cosa da un’altra.
Rimaneva però un forte elemento di disturbo. Più che
l’opinione del parlante, la studentessa sembrava voler eliminare il parlante
stesso (quale modo infallibile di eliminarne l’opinione?).
Più o meno negli
stessi anni cominciammo a sentirci apostrofare con la frase "Questo lo
dici tu!" (il dito indice agitato con decisione sotto il naso era
facoltativo, ma non di rado presente). Cosa che non ci era mai capitata prima.
A metterla in termini comici, era fin troppo evidente:
avevamo appena finito di parlare, quindi l’avevamo detto noi.
Ma l’asserzione intendeva dire: l’hai detto tu, non io, e io
non sono dello stesso parere.
A questo punto si rimaneva in attesa del diverso parere, che
però non arrivava.
Per dirla lestamente, il parlante sembrava attribuire un
valore "argomentativo" a qualcosa che era solo
"espressivo", con o senza dito. Ma quanto ne era cosciente?
Facciamo un esempio?
Per motivi anagrafici,
siamo stati ascoltatori attenti dell’unico album dei Sex Pistols già al tempo
della sua originaria apparizione.
Più volte nel corso degli anni ci è capitato di far notare
che, lungi dall’essere frutto di un’estetica "punk", il lavoro
incorporava – e traeva la sua efficacia proprio da – un certosino lavoro di
registrazione e missaggio che non differiva per cura e ingegno da quello messo
in opera su album di Beatles, Pink Floyd, Led Zeppelin e Yes. E qui le note di
copertina e gli accreditamenti parlavano chiaro.
Proprio il suo essere lavoro riuscito in termini
"punk" dimostrava la plasticità delle tecniche di registrazione
"classiche" e la loro efficacia, ché ben diverso sarebbe stato il
risultato se il gruppo si fosse limitato a calare un microfono dal soffitto,
come alcuni sembravano credere fosse avvenuto.
(Sul sito del mensile U.K. Sound on Sound dovrebbe ancora
esserci una esaustiva puntata di Classic Tracks interamente dedicata
all’album.)
A questo punto giungeva puntuale la frase "Questo lo
dici tu!", con o senza dito.
Ma poi non arrivava nessuna argomentazione a sostegno,
tranne affermazioni che si volevano pertinenti, quali:
"Io non la penso così" (del tutto assurda, dato
che l’album era stato registrato in un solo modo);
"Può essere, ma non mi convince" (idem);
"Tu dici così perché sei un critico" (falsissima,
tanti critici credevano alla "teoria del microfono calato dal
soffitto");
"Non mi interesso di queste cose, a me piace" (del
tutto non pertinente rispetto all’argomento).
Trovavamo la cosa preoccupante, anche se il suo essere
confinata alla sfera estetica avrebbe potuto rassicurare qualcuno più incline di
noi a vedere la realtà in modo roseo.
Ci concediamo una pausa?
Non vorremmo che il
lettore ci immaginasse tra quelli che passano le lunghe serate d’inverno in
poltrona, una calda coperta sulle gambe, a leggere testi di filosofia.
Però dobbiamo confessare di ritornare, di tanto in tanto, a
passaggi che consideriamo fondamentali, per un bisogno di chiarezza.
Se ci capita ancora di sfidare i nostri limiti affrontando
la famosa "Nota all’anfibolia dei concetti della riflessione" inclusa
da Kant nella sua opera intitolata Critica della ragion pura, l’argomentazione
alla quale torniamo più spesso è quella contenuta nella sezione dedicata alla
Dialettica trascendentale che tratta "Degli argomenti della ragione
speculativa per dimostrare l’esistenza di un Essere supremo", in
particolare la sezione che porta il titolo "Dell’impossibilità di una
prova ontologica dell’esistenza di Dio", che contiene la (un tempo) famosa
"prova dei cento talleri".
Negando che l’esistenza possa essere considerata un
attributo/predicato del soggetto – argomentazione fondante per la prova
ontologica – Kant conclude che "(…) un uomo mediante semplici idee
potrebbe certo arricchirsi di conoscenze né più né meno di quel che un mercante
potrebbe arricchirsi di quattrini se egli, per migliorare la propria
condizione, volesse aggiungere alcuni zeri alla sua situazione di cassa".
Gli ultimi vent’anni
hanno mostrato un panorama sociale in rapido mutamento verso il peggio, come un
paesaggio familiare tutto sommato accettabile che con il passare del tempo si
sporca e si involgarisce; finché un giorno, aperta la finestra, lo sguardo si
ritrova a vagare su una discarica maleodorante.
Si diffonde una visione "essenzialista"
dell’identità, laddove le "qualità" di un individuo sono parte
integrante del soggetto. E bisogna tornare al famoso "I Comunisti mangiano
i bambini" per trovare qualcosa di altrettanto rozzo.
"Il critico difende il concetto di competenza perché su
quella basa il suo status" vuole essere una spiegazione esaustiva. Ma la
critica basata sul concetto di interesse è autocontraddittoria, perché
presuppone l’esistenza di un soggetto non dotato di interessi.
"Rottamare" una classe politica di "persone
che sono abbarbicate alla poltrona" può benissimo essere la foglia di fico di gente che su
quella poltrona vorrebbe sedersi… con qualche anno di anticipo.
Sacrosanto come principio morale, "uno vale uno" è
semplicemente assurdo dal punto di vista delle competenze.
Quello che è parso crescere, anno dopo anno, è un livore
sordo che cerca un bersaglio su cui scaricarsi.
La cosa non risparmia i (cosiddetti) "ceti
intellettuali", con studiosi e commentatori intenti non ad accrescere la
conoscenza intesa come patrimonio comune ma a bastonare i colleghi mettendone
in risalto (e in ridicolo) fallimenti e insuccessi.
Pochi giorni fa, un inviato di un quotidiano ridacchiava
soddisfatto mentre faceva notare "il fallimento, anche stavolta, dei
sondaggisti statunitensi che hanno mancato clamorosamente il bersaglio".
Ma se non si tratta di un caso di trascuratezza individuale
– e con tutta evidenza questo non lo è – il difetto va cercato nell’adeguatezza
degli strumenti (metodologici e statistici, concetti e coefficienti) usati per
operare delle previsioni.
E se è stata operata la correzione derivante dall’errore
concernente le elezioni presidenziali di quattro anni fa, è stimolante –
proprio dal punto di vista scientifico, oltre che meramente pragmatico –
appurare se gli indicatori e i “pesi” sospettati di errore si rivelino ex post
davvero tali e se altri si siano nel frattempo aggiunti.
(Il dibattito è in corso. Un buon riassunto ragionato di
qualche giorno fa è rinvenibile nell’articolo di Nate Cohn apparso in data Nov.
10, 2020 sul New York Times con il titolo What Went Wrong With Polling? Some
Early Theories. L’articolo fa parte di una sezione specifica, The Upshot, che
il quotidiano dedica stabilmente all’indagine statistica di problemi
complessi.)
Lo scemare delle
possibilità di confronto razionale cammina di pari passo con l’impoverirsi
delle argomentazioni.
"Non sono d’accordo" è espressione sufficiente
quando ci si muova sul piano dei principi, e può benissimo bastare se
l’asserzione di cui si dice è, per esempio, "Ogni uomo deve godere di pari
diritti, indipendentemente dal colore della pelle."
Più problematica la sua adeguatezza se l’asserzione riguarda
un tipo di condotta basato su una teoria. Quale replica a un piano di
investimenti, "non sono d’accordo" necessita di almeno una di due
aggiunte: l’individuazione di una incoerenza formale, un errore, che ne inficia
le conclusioni; o la proposta di un’alternativa che migliori gli aspetti
positivi/diminuisca gli aspetti negativi della proposta criticata.
Capita invece sempre più spesso che un’argomentazione
logicamente solida venga abbattuta da un semplice "non sono
d’accordo" al quale segue il nulla.
L’attuale sistema delle comunicazioni di massa, qualora non
sostenuto da un’etica professionale espressa ai massimi livelli in un quadro
economico che la rende possibile, non aiuta certo a migliorare la chiarezza, a
partire dall’uso dell’indicativo in titoli a caratteri cubitali che annunciano
come fatto qualcosa che in realtà è ancora alla studio, così ingenerando
confusione anche nel lettore più attento, che l’indomani sarà molto sorpreso
nello scoprire che quel che dava per già realizzato non lo è ancora, e forse
mai lo sarà, sostituito da una nuova pseudo-realtà.
(Il lettore non scambi quanto appena detto con l’effetto
annuncio "truffaldino". Qui il problema è dato da una falsa
soluzione: cercare di andare dietro alla realtà nel suo aspetto
"fluido" non cercandone il senso, ma rispecchiandone il fluire.)
Ci si sbaglia di
grosso se si immagina che "la persona comune" possa reggere a lungo
qualora messa di fronte a una quantità enorme di informazioni ad alto contenuto
ansiogeno alle quali non è in grado di attribuire un minimo di senso.
La Babele di voci – i banchi sì, ma a certe condizioni; sì,
ma solo con certe caratteristiche; dipende dall’aereazione nei tunnel;
insostituibile esperienza formativa; i vecchi sono più vulnerabili; appare
indebolito; a mio avviso è più buono; non possiamo fermare la macchina
produttiva; possiamo reggere benissimo, a certe condizioni; gli eroi;
l’autodeterminazione su base territoriale; prendiamola come viene; il sole ci
salva; pensiamo a Natale; un vestito sanificato; una sessualità a distanza –
finisce per creare un bisogno di semplificazione.
Ricordiamo comunque Alberto Arbasino, che per primo (e
solo?) disse: "Gli assassini vanno in televisione, e delle vittime non
importa niente a nessuno."
© Beppe Colli 2020
CloudsandClocks.net | Nov. 12, 2020