Kraabel/Weston/Sanders
Playtime
(Mass Producers)
Ci capita
abbastanza spesso – e diremmo sempre, ogniqualvolta troviamo inaspettatamente
a fare capolino nella buca delle lettere un CD che ci pare contenere in
maniera prevalente ciò che siamo soliti denominare "improvvisazione"
(categoria nella quale diremmo agevole far rientrare, pur con tutti i distinguo
del caso di cui su dirà tra un momento, un album come Playtime) – di riflettere
sul nostro atteggiamento nei confronti della "musica improvvisata"
intesa come "genere" autonomo.
La conclusione
alla quale ultimamente perveniamo è sempre la stessa: da almeno una decina
d’anni il nostro entusiasmo nei confronti dell’improvvisazione si è considerevolmente
raffreddato. Il che non esclude, ovviamente, un caldo entusiasmo nei confronti
di un singolo esemplare. Ma mentre in passato, ci accorgiamo ex post, eravamo
soliti attribuire tacitamente dei "punti extra" alla categoria
in quanto tale, oggi ciò non è più vero. Rimane aperto un punto che diremmo
interessante: se ciò abbia a che fare in misura prevalente con il "metodo" o
con la "pratica", cioè a dire, i risultati concreti, esteticamente
considerati.
E ci piacerebbe
tanto sapere se, e quanto, il nostro atteggiamento sia
"tipico". Cosa non facile, dato che questo genere di album ha sempre
venduto molto poco. (La quantità di titoli pubblicati potrebbe essere un
indizio, ma è ancora concepibile un concetto di sicurezza sommatoria, al
tempo della Rete?) Quello che è certamente "tipico" sono le circostanze
in cui abbiamo iniziato ad apprezzare l’improvvisazione in un senso soprattutto
"autonomo-europeo", le estetiche di un Anthony Braxton o di un
Roscoe Mitchell essendoci sempre parse di diversa natura e intendimenti (anche
se siamo perfettamente coscienti che l’accordo su questo punto è tutt’altro
che univoco).
La crescente
disaffezione nei confronti di quella che soprattutto in Europa veniva percepita
come una "routine rock" liberò una enorme quantità di pubblico
"disposto a tutte le esperienze", una parte del quale si riversò
sulla nascente (nel senso della disponibilità vinilica) "musica improvvisata".
Possiamo convenzionalmente fissare questo punto al 1975. Si impararono a
distinguere i vari "dialetti" (tedesco, olandese, britannico),
approcci (morbido o duro), ci si rassegnò a convivere con materiali vinilici
che lasciavano non poco a desiderare, si accolse con entusiasmo il "nuovo
silenzio digitale" (nel senso del CD) e il nuovo semi-silenzio digitale
(nel senso del glitchismo da silicio).
Per quanto
possa sembrare banale (e forse paradossale, dato ciò di cui stiamo parlando),
la familiarità può rivelarsi un problema: avuti trenta album di Evan Parker,
avere il trentunesimo non pare necessariamente imprescindibile. Se poi
vogliamo andare sul concettuale-filosofico, è evidente che una cosa è valorizzare
il singolo momento in un’epoca che privilegia il grande affresco e il piano
imposto, un’altra farlo in un momento in cui perfino il tempo dei reality
– per tacere di quello delle carriere lavorative – si presenta come puntillistico.
Crediamo
comunque che la problematicità del momento economico non sia stata estranea
alla riscoperta di "affinità elettive" con il mondo dell’accademia
(Morton Feldman?), teatro incluso, ché il jazz ha già problemi suoi. Il
che, ovviamente, nulla dice sulla validità dei risultati.
Playtime
presenta un trio di musicisti che diremmo già noti. Il pianista Veryan
Weston è una delle colonne del suono inglese da più di un trentennio, a
partire dalle collaborazioni con musicisti quali Lol Coxill e Phil Minton.
Ugualmente stimato il batterista Mark Sanders, del quale ricordiamo con
estremo piacere quello che crediamo essere uno dei primi album che lo hanno
visto strumentista maturo: Head, del Jon Lloyd Quartet (che ne è stato?),
una ventina d’anni fa. Non minore la stima, ma inferiore la nostra conoscenza,
di quella che qui ci pare essere la prima inter pares, la sassofonista
e cantante Caroline Kraabel. Buon suono, in special modo la batteria, il
missaggio essendo opera del noto contrabbassista Jon Edwards.
La musica
suonata dal trio dovrebbe essere in gran parte improvvisata, anche se le
scarne note di accompagnamento (la copertina ne è priva) precisano che "Il
CD Playtime comprende improvvisazioni e anche canzoni le cui parole e melodie
vocali già esistevano (anche se solo nella mia testa) prima che le improvvisassimo
come trio. Mark e Veryan hanno ascoltato per la prima volta un paio di
canzoni del CD quando le abbiamo registrate".
In effetti
è un po’ strano sentire il gruppo fermarsi di botto subito dopo la parola
"interruption" – sarà un "taglio"? (è il brano intitolato
Lot’s Wife). Ancora più strano per chi scrive è ascoltare spesso la voce
doppiare il sassofono, in unisono abbastanza precisi o in contrappunti.
Weston
è oltremodo versatile, e la stessa cosa può dirsi di Sanders, valorizzato
dal suono registrato sia nell’impiego dei piatti che dei tamburi, con una
bella percezione differenziata di bacchette e spazzole. La Kraabel suona
l’alto in un modo perlopiù sommesso, con echi di "cool" e un
suono che non di rado si avvicina a quello di un sax soprano. La voce,
non immemore della "art song" e della "chanson" è non
di rado sciolta, ma conserva un piglio spesso "teatrale" (Dagmar
Krause? Kate Westbrook?). I brani strumentali tendono non di rado alla
consonanza, con echi neppure troppo lontani di jazz.
In apertura,
la breve Vacant Lots 1965-66 è a ben vedere un perfetto microcosmo dell’intero
lavoro: centro tonale, una frase iniziale di cinque note del sax alto (alla
quale trenta secondi più tardi il pianoforte farà riferimento) che pare
destinata a immergerci in un Anthony Braxton "in the tradition",
batteria prima con le bacchette e poi con le spazzole, chiusa cantata,
tra folk e teatro.
Non male,
nelle coordinate già dette, le canzoni: Lot’s Wife, con buon accompagnamento.
Entre Îlots, dal sapore "popolare" francese e bella chiusa di
piano e batteria. Un Lot De Deux, anch’essa non poco "francese".
Troth Plight, con bell’arpeggio di piano e ottime spazzole, aria "folk/art"
e chiusa con l’alto che è quasi un flauto.
Più lunghi,
ma mai incerti, i brani strumentali: Playtime pare una versione rallentata
e raffreddata di certo free, ma sussurrata e tonale, con un alto che si
avvicina a tratti al soprano di Lacy, tema "cool" a 7’20" e
chiusa con unisono voce-sassofono. A Lot Uncommon ha un’apertura
"fratturata" e un sorprendente inserto "quasi brasiliano".
Allotments And Pleasure Gardens è austera, in direzione classica-contemporanea;
ottima batteria con le spazzole, bella la scansione sul finale. Glottal è
(relativamente) arcigna, con una prima parte guidata da voce e sax e una
seconda dal piano. Anche qui ottime spazzole, e la voce ad
"arpeggiare" con il sax.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2010
CloudsandClocks.net
| Feb. 9, 2010