Mike Keneally Band
Dog
(Exowax)
Chitarrista,
tastierista, compositore e cantante, il quaranta-e-qualcosa Mike Keneally
è una delle più belle realtà (ma anche uno dei
segreti più gelosamente custoditi) dell’odierno panorama statunitense;
uno dei pochi in grado di coniugare al presente, assumendosi notevoli
dosi di rischio, quella musica che pur in un’accezione che ormai è
giocoforza definire "larga" non possiamo non chiamare "rock".
Musicista la cui mai sbandierata indipendenza è – come usa dire
– "nelle cose", Keneally ha sempre mantenuto una condotta
musicale coerente seppur cangiante (e non certo ondivaga): amore dei
risultati e noncuranza delle conseguenze, perenne apertura agli stimoli
(Keneally è ascoltatore onnivoro). Un musicista che ha rifiutato
alcune concretissime possibilità di sbarcare il lunario offertegli
dalla sorte: "ex zappiano" (qui inteso come professione),
"guitar hero", autore di colonne sonore per cinema e televisione,
"intellettuale metallaro". Keneally ha invece preferito seguire
un personalissimo percorso; un cammino che – è storia di oggi
– giunge fino all’incisione di quel The Universe Will Provide, con la
Metropole Orkest, di ormai imminente pubblicazione.
Ben
noti ai (non rari) fan kenealliani i principali capitoli della storia,
da un esordio – hat. (’93) – che regge ancora bene e dove sono già
presenti senso dell’umorismo, impressionanti doti tecniche, stile compositivo
personale e maturo e varietà stilistica a Boil That Dust Speck
(’94), lo scuro secondo album; da The Mistakes (’95), con Henry Kaiser,
Prairie Prince e Andy West (un fantastico album di rock – o almeno,
il rock come ci piacerebbe fosse) all’eccellente Sluggo! (’97), apice
di tutto un periodo e forse il miglior punto di partenza per il neofita;
e poi Nonkertompf (’99), album interamente strumentale caratterizzato
da atmosfere pittoriche; Dancing (2000), che riusciva a tradurre una
visione personale in una dimensione di gruppo; e Wooden Smoke (2001),
esplorazione per la maggior parte acustica, per lo più in solo,
di quiete atmosfere dal sicuro fascino.
Complice
il mutare della musica e il variare delle formazioni (per numero e identità
dei componenti), possiamo tranquillamente asserire che non esiste un
album kenealliano che non abbia necessitato di un discreto periodo di
rodaggio al fine di essere pienamente apprezzato da chi scrive. Vogliamo
qui ricordare Boil That Dust Speck, assolutamente privo di quello humour
che aveva caratterizzato il precedente hat.; o Dancing, laddove un ampio
gruppo di musicisti tentava di adattare la propria pronuncia al materiale
(o era il contrario?). Sulla carta Dog era l’album del nuovo "quartetto
rock". Se l’eccellente bassista Bryan Beller è da tempo
immemore il braccio destro di Keneally, il chitarrista Rick Musallam
veniva chiamato a occupare un ruolo decisamente più impegnativo
che in passato; esordiva su disco l’ottimo batterista Nick D’Virgilio.
Non
abbiamo difficoltà a riferire di un nostro perdurante sconcerto
nell’affrontare questo album, rivelatosi di gran lunga più arduo
di quanto da noi immaginato; e non per quei motivi che di solito vengono
definiti "musicali" ma per questioni attinenti la filosofia
alla base di registrazione e missaggio (ma sempre di questioni musicali
si tratta, non è vero?). Dopo un rodaggio più lungo del
solito la chiave estetica dell’album è sembrata lentamente rivelarsi,
pur se ci pare di poter dire che non tutte le nostre perplessità
si sono per questo dissolte.
L’apertura
confusa e vociante di Louie ci coglieva del tutto di sorpresa, e lo
sconcerto aumentava nel constatare che l’intero album era immerso in
echi e riverberi che sembravano rendere la musica confusa e poco leggibile,
con batteria riprodotta "per sommi capi" (a volte sembrava
di ascoltare i bidoni metallici dell’immondizia), basso ora assente
ora tonante, chitarre a strati e voci a volume davvero MOLTO ALTO, e
assolutamente PREPONDERANTI (e molto echizzate). Suono totale compresso
e decisamente bidimensionale. Dopo aver controllato che il problema
non fosse da addebitare al nostro impianto siamo andati in cucina a
prepararci un caffé. E lì ci è giunto il realismo
sonoro del brano posto in chiusura, Panda: come un pezzo Stax registrato
dalla sezione ritmica dei Muscle Shoals. Allora? Abbiamo deciso di prendere
tempo guardando il DVD.
Dog
viene infatti pubblicato in due differenti versioni: una con il solo
CD audio, e un’altra che offre anche un DVD-V di generosa durata e piacevolissima
utilità. Tra i contenuti, mezz’ora del quartetto dal vivo (un’esibizione
grintosa); mezz’ora di "prove in soggiorno" (con le nuove
canzoni); e ampi estratti dalle sedute di registrazione (esemplare il
lavoro fatto dal gruppo sulla breve Physics), con audio a scelta tra
quanto effettivamente avvenuto e i successivi commenti di Keneally.
Il quartetto fa davvero un figurone: Beller suona sempre cose fantasiose
e appropriate senza far mai pesare la sua pur notevolissima abilità
tecnica, la rivelazione Musallam si dimostra versatile oltre ogni nostra
aspettativa, D’Virgilio conferma l’ottimo ricordo dei due concerti olandesi
della formazione extralarge cui avevamo avuto modo di assistere qualche
anno fa. Keneally è Keneally, ma qui la diversità delle
situazioni dà modo di cogliere aspetti diversi della sua personalità.
Ritornati
all’ascolto di Dog, la nostra pazienza è stata alla fine ricompensata.
L’iniziale Louie, dapprima così sconcertante, ha finito per rivelare
sottigliezze melodiche vocali che ci erano del tutto sfuggite. (E a
proposito di voci: perché non accludere i testi, invece di quelle
foto? E’ vero che sul sito ci sono, però…) Abbiamo avuto modo
di ritrovare certi inconfondibili momenti kenealliani (Simple Pleasure,
Gravity Grab), indagare le direzioni multiple verso le quali si dirige
Bober, prendere confidenza con Splane, sorridere dell’ingegnosità
della già citata Physics, farci illudere dall’attacco di Raining
Sound (dove la batteria è chiaramente udibile), assaporare la
coda strumentale (decisamente à la Gentle Giant) di Choosing
To Drown. Come già detto, non tutti i conti tornano. Ci sentiamo
di dire che la decisione di mettere le voci "tutte fuori"
finisce per banalizzare la spigliata Pride Is A Sin. E il suono complessivo
del disco è a nostro avviso decisamente stancante – intendiamoci:
non più di quello della musica che si ascolta in radio, o di
certa elettronica; chi ascolta musica mentre fa altro non si porrà
neppure il problema.
L’episodio
più imperscrutabile è senz’altro la lunga This Tastes
Like A Hotel, che accosta con disinvoltura episodi con canti gregoriani,
ritmi house, chitarre blues, vocalità hardcore, campionamenti
orchestrali – e che in un punto ci ha ricordato i Thunderclap Newman:
possibile? Il risultato è strambo assai, complice il suono di
cui sopra. (Ma avremmo voluto tutto un disco suonare come Panda?)
Beppe Colli
© Beppe Colli 2004
CloudsandClocks.net | July 15, 2004