Rickie
Lee Jones
The
Evening Of My Best Day
(V2)
C’è ancora qualcuno che si ricorda di Rickie Lee Jones? E
soprattutto: la cosa interessa ancora? Strano ma forse non imprevedibile
destino, quello della cantante e musicista statunitense, commercialmente
condizionata da un successo iniziale tanto clamoroso e inatteso quanto
ovviamente irripetibile: quello dell’omonimo disco di esordio (pubblicato
nel 1979), sulla scia del colossale hit Chuck E.’s In Love. La Jones
appariva dotata di un timbro e di un fraseggio alquanto personali (il
che non toglie che influenze e affinità, pur non esibite, fossero
agevolmente rintracciabili) e di un repertorio che attraversava numerose
correnti della moderna popular music statunitense.
Ma il successo commerciale appena raggiunto trovò la giovane
Jones (classe 1954) fermamente contraria a duplicare la fortunata formula
dell’album di esordio, e in piena crisi da crescita artistica, quasi
a ripercorrere il cammino di una musicista che aveva avuto su di lei
grande influenza: Laura Nyro. Da cui un secondo album (Pirates, 1981)
più involuto, enigmatico e complesso che le alienò buona
parte dei favori del pubblico statunitense, anche se in seguito si dimostrò
essere stato punto di riferimento per una nuova leva di singers-songwriters
allora in fase di maturazione (vedi Suzanne Vega).
I soliti (ed estremamente noti) "problemi personali" fecero
definitivamente deragliare le possibilità di successo commerciale,
pur se gli album di buon livello continuarono a non mancare – vedi The
Magazine (1984), quel Flying Cowboys (1989) prodotto da Walter Becker
degli Steely Dan e – forse in misura minore – Traffic From Paradise
(1993).
Lì qualcosa d’importante dev’essere mutato: nel corso degli
ultimi dieci anni solo Ghostyhead (1997) – con i suoi discussi esperimenti
trip-hop – ha presentato materiale originale. Due begli album di cover
(Pop Pop del 1991 e It’s Like This del 2000) e due registrati dal vivo
(il più recente è Live At Red Rocks, pubblicato nel 2001)
ci dicono di un classico "blocco" – e qui si potrebbero fare
molte considerazioni su quanto certi carburanti decisamente nocivi per
la sopravvivenza biologica siano di nutrimento per la creatività
artistica. Qualunque i motivi di base, la molla che ha fatto scattare
il risveglio pare essere stata – ed è davvero incredibile a dirsi,
data la natura finora essenzialmente "privata" dell’arte di
Rickie Lee Jones – l’elezione di George W. Bush e la susseguente evoluzione
politica degli Stati Uniti.
Se The Evening Of My Best Day è essenzialmente album di "impegno
civile", lo è in modi che ricordano certe coordinate degli
anni sessanta (il che diremmo in fondo logico, no?), e con modalità
stilistiche che i fan di lunga data della musicista troveranno decisamente
familiari. L’invettiva dell’iniziale Ugly Man, dedicata a Bush, è
pronunciata nel modo canzonatorio che non è difficile immaginare,
una spinta non poco r&b anima Little Mysteries, mentre un infuocato
"botta-e-risposta" in puro stile gospel è la forza
di Tell Somebody (Repeal The Patriot Act). (A proposito: il libretto
del CD non presenta i testi delle canzoni, ma collegandosi all’indirizzo
furnitureforthepeople.com è possibile leggere i testi e vedere
alcune immagini pertinenti a quanto espresso nei testi.)
La bella forma vocale e strumentale di It’s Like This ci aveva fatto
rimpiangere che l’album non contenesse pezzi originali, anche in virtù
di una registrazione calda dove i timbri degli strumenti venivano resi
con superba accuratezza. Piace dire che The Evening Of My Best Day è
album che fa ben figurare l’ampia gamma timbrica utilizzata (il disco
è stilisticamente – e quindi strumentalmente – molto vario).
La Jones non deve aver badato a spese (soldi suoi, è bene chiarirlo),
ma qui è soprattutto la lucidità artistica a non fare
difetto: si ascolti Second Chance – un brano stilisticamente non poco
apparentato agli Steely Dan, indirettamente citati nel testo della canzone
– per riflettere su quanto gli ultimi due album della coppia Becker
& Fagen avrebbero potuto trarre beneficio da un diverso impiego
di quelle infernali macchine digitali. Le timbriche degli strumenti
non potrebbero essere più pertinenti o meglio rese, dalla batteria
suonata con le spazzole di Ken Wollesen (il trio di Bill Frisell è
presente in due brani) ai numerosi fiati (dice niente il nome di Jerry
Hey?), dai pertinenti apporti vocali di sottofondo (Syd Straw, Eric
Benet, Grant Lee Phillips, Ben Harper) a pianoforte e organo (Neil Larsen,
Gregg Phillinganes), da bassi, contrabbassi, batterie e percussioni
di rara naturalità e presenza (si ascolti la cassa di James Gadson)
a dobro, dulcimer, chitarre acustiche e mandolini. E’ bene precisare
che quella correttezza esecutiva un po’ rigida che contraddistingueva
le prestazioni dei sessionmen della "mafia losangelina" sui
dischi più celebrati della Jones è stata sostituita da
un groove più elastico, anche se si potrebbe osservare che il
materiale manca delle asimmetrie tipiche di alcuni pezzi storici.
Si è detto di una certa aria "anni sessanta", e
in effetti molti sono gli stili della popular music Made in Usa a passare
in rassegna: blues, ballad, gospel, jazz e così via, da una prima
parte più corale e fiatistica a una seconda (relativamente) più
intima e raccolta. The Evening Of My Best Day è album che cresce
con gli ascolti, anche per merito di una registrazione e di un missaggio
che rivelano sempre nuovi particolari degli arrangiamenti. Già
detto della quasi Steely Dan Second Chance e del gospel Tell Somebody,
chi scrive ha particolarmente gradito il blues di Lap Dog, con il coproduttore
David Kalish al dobro e Syd Straw ai cori; la "ballata celtica"
Sailor Song (un brano che se fosse incluso su un disco di Beth Orton
in molti si precipiterebbero a segnalare); la trascinante bossa di It
Takes You There, cui la svelta batteria di Pete Thomas fornisce la giusta
propulsione; il blues di Mink Coat At The Bust Stop, dove l’aspra sezione
A, con armonica, si apre su una corale sezione B, sull’asse Laura Nyro/Curtis
Mayfield; la pianistica e sommessa The Evening Of My Best Day; e A Face
In The Crowd, la sporca ballad chitarristica che chiude molto bene (cioè
a dire, sbilanciandolo) l’album. Album che diremmo buono anche senza
guardare il calendario.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2003
CloudsandClocks.net
| Oct. 23, 2003