Hugh Hopper
Hopper Tunity Box
(Cuneiform)
Riflettiamoci
un momento: di quanti compositori/strumentisti si può dire che posseggono
uno stile altamente personale, una (per così dire) "firma sonora" che
è inconfondibilmente loro? Diremmo di non molti. E’ già molto difficile
possedere uno "stile" personale in quanto compositore o strumentista,
ma tutti e due? Quasi impossibile. A parere di chi scrive, uno dei pochi
a proposito del quale ciò può venir detto è Hugh Hopper: inconfondibile
compositore, personalissimo strumentista. E questo è stato vero fin dall’inizio:
basta ascoltare Volume Two dei Soft Machine (pubblicato nel 1969, è uno
di quegli album dei quali non possiamo immaginare che una casa non abbia
almeno una copia): è già tutto qui, il basso fuzz, e quelle belle melodie
a volte così angolari. Dopo Volume Two, album parimenti belli dei Soft
Machine sono Third (1970), Fourth (’71), e Fifth (’72). E perfino sull’ultimo
album che Hopper ha registrato con il gruppo, una cosa così così intitolata
– facile da indovinare – Sixth (’73), possiamo trovare la sua composizione
1983, ancora oggi affascinante e impenetrabile quanto il giorno in cui
uscì su disco.
Al tempo
in cui Hopper Tunity Box fu pubblicato, circa trent’anni fa (!), Hopper
poteva ancora essere annoverato tra "coloro che contavano" –
sebbene solo per quelli che avevano continuato ad ascoltare molto tempo
dopo che il cosiddetto "idioma di Canterbury" aveva perso quel
po’ di
"fattore figo" che aveva posseduto. Non era stato certamente con
le mani in mano, avendo pubblicato il suo primo album da solista, l’eccellente
1984, quattro anni prima; e collaborato con Stomu Yamash’ta del periodo East
Wind (si ascolti Freedom Is Frightening) e con il gruppo degli Isotope (si
ascolti Illusion). Ma Hopper Tunity Box è quel raro album dove assolutamente
tutto è perfetto: le composizioni, la scelta degli strumentisti, il lavoro
di studio, i suoni, le performance individuali (e chi crederebbe che un album
che ha un profumo così inconfondibile di "live session" è invece
il risultato di un processo di accurata costruzione stratificata?). Va anche
aggiunto che, mentre asseriva di mirare ai vari Emerson Lake and Palmer,
Elton John e Led Zeppelin – i quali, invece, rimasero perfettamente in piedi
– fu questo tipo di gruppi fatti in casa/piccole imprese che il "punk" (si
intenda: la stampa, l’industria e quei musicisti che cercavano disperatamente
un carro su cui saltare) uccise nel 1977. (Solo un piccolo aiuto alla memoria,
giusto nel caso qualcuno cercasse di vendere la vecchia leggenda sudata in
questo "anniversario dei trent’anni".)
Tutti
quelli che qui suonano sono degni di menzione. Iniziamo dal batterista
Mike Travis, in un certo senso l’eroe poco citato del disco: ascoltiamolo
ovunque, ma specialmente nel suo frenetico contrappunto alle tese melodie
di Miniluv e di Gnat Prong; e anche nel modo in cui incornicia la serena
melodia di The Lonely Sea And The Sky. Dave Stewart, i cui oscillatori
sono la gustosa sorpresa del brano che dà il titolo all’album, e il cui
lavoro all’organo fornisce un tocco personale a Gnat Prong. (Il defunto)
Gary Windo, il cui sax tenore starnazza per tutto Miniluv, e i cui sassofoni
sovraincisi aggiungono un feel speziato al sapore di R&B su Crumble.
E che dire di Elton Dean (anche lui scomparso)? Ascoltiamo l’eccellente
assolo di saxello su The Lonely Sea And The Sky (dove Mark Charig è elegante
da par suo alla cornetta) e il suo assolo di sax alto su Spanish Knee.
Citiamo anche Nigel Morris, batterista su Mobile Mobile. Richard Brunton,
chitarra elettrica. Frank Roberts, elegante Fender Rhodes su The Lonely
Sea And The Sky, che fa un assolo funky su Crumble.
Ci vogliono
davvero molti ascolti per acquisire familiarità con i tanti particolari
sottili "nascosti" sull’album (e che qui non illustreremo: perché
rovinare il divertimento?). Hopper ha molti momenti eccellenti; tra essi,
citiamo la melodia sulla title track e il lavoro dei bassi sulla stessa
composizione; gli assolo di basso su Gnat Prong, e quella coda così sinistra;
la introduzione a The Lonely Sea And The Sky, e anche il suo "accompagnamento" dietro
l’assolo di Elton Dean (e che dire dell’inciso?); l’introduzione (per chi
scrive) dal sapore "folk greco" alla ripresa di Lonely Woman
di Ornette Coleman; i bassi sovrapposti su Mobile Mobile; l’introduzione
di basso a Spanish Knee, e il lavoro di basso su tutto il pezzo; il lirico
brano che chiude l’album, suonato da solo (sovrainciso), Oyster Perpetual.
In chiusura,
va detto dell’eccellente lavoro di masterizzazione di questa edizione,
che suona come il vecchio LP… fatto bene: c’era già stata una precedente
edizione su CD, anni fa, che suonava molto peggio della versione in vinile.
Coloro i quali hanno familiarità con l’album ricorderanno un piccolo "salto"
su The Lonely Sea And The Sky, che da parte nostra avevamo sempre attribuito
a un errore di giunzione del nastro. Il problema si era invece verificato
al momento del cutting, così una correzione si è resa possibile (la vita
è meravigliosa, no?). Aggiungiamo le note di copertina scritte da Hopper
per l’occasione.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2007
CloudsandClocks.net | Jan. 28, 2007