Una lunga pausa
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di Beppe Colli
May 10, 2016
E’ giunto il momento
di concedersi una bella pausa, open-ended. Come sempre in casi come questo i
motivi sono molteplici. Potremmo citare una recente e disastrosa "prova
costume" che ci ha spinto a intraprendere un severo regime di fitness.
Potremmo tirare in ballo l’ormai mitico armadio in legno e vetro situato alla
nostra sinistra che a tre anni dall’acquisto rimane vuoto, con libri e vinile
ancora sparsi per casa. Potremmo dire dell’incidente d’auto che ci ha visto
incolumi, e l’auto completamente distrutta.
E poi potremmo parlare a lungo delle vere ragioni, non fosse
che lo scrupoloso team legale che da sempre vigila su quanto scriviamo ci ha
già cassato tre stesure di questo pezzo. Quella che segue è quindi una versione
edulcorata.
Come il lettore ben
sa, è nostra opinione che per ciò che riguarda la "musica di qualità"
si è giunti da tempo a una condizione di epilogo. Ovviamente il problema non
deriva da una misteriosa polverina che un essere maligno ha messo nell’acqua
potabile, ma da una serie di ben note dinamiche individuali che portano a una
triste sommatoria. Da ciò non consegue che manchino del tutto lavori di
qualità, alcuni anche molto belli e riusciti. Ma il confronto con il passato –
un passato che la lunga serie di decessi "rock" ci costringe a
(ri)esaminare con frequenza crescente – illustra con chiarezza la diversità
della cornice. Si aggiunge poi il fatto materiale della sopravvivenza, cosa che
costringe i più fortunati a un progressivo inaridimento delle proprie qualità
più originali, attenuate o spente da una militanza mercenaria che sola consente
di sbarcare il lunario.
Frattanto i musicisti sembrano ormai rassegnati a un
atteggiamento del pubblico – i loro ammiratori! – che sempre più considera
l’esborso di danaro non come giusta remunerazione ma come un pietoso obolo.
Curioso notare come a fronte di una lamentela discretamente
diffusa, peraltro giustificata, concernente risultati spartani dovuti a carenti
investimenti, un assordante silenzio abbia accolto lavori ad alta intensità di
cervello e capitali. Vengono in mente titoli quali Paper Wheels di Trey
Anastasio, Lonely Avenue di Ben Folds e Nick Hornby e Circus Money di Walter
Becker. Proposte che un tempo avremmo qualificato come "mainstream",
cosa impossibile oggi che la parola va riferita a nomi quali Beyoncé, Rihanna,
Kanye West, Katy Perry, Jay Z e Miley Cirus.
Ma se ci spostiamo in campi più marginali il risultato non
cambia, come dimostra la sostanziale indifferenza con la quale è stato accolto
un album di limpida improvvisazione chitarristica quale Self Portrait In Pale
Blue di Corrie van Binsbergen.
Molte le cose
spiacevoli che ci è stato possibile vedere dal nostro punto di osservazione. E
se i ben noti meccanismi economici hanno falcidiato il numero e la qualità
delle testate presenti in edicola e in Rete (sia concessa una parentesi: il
ritrovamento di un dischetto contenente alcuni mega di articoli e interviste,
pochi giorni fa, ci ha consentito di misurare con un certo stupore quanta
strada all’indietro è stata percorsa nel corso degli ultimi quindici anni) quel
che più colpisce è vedere quanto grande è il numero di fan di "musica
difficile" che elidono (concettualmente) ogni eventualità di dialogo sui
materiali ascoltati o da ascoltare, con scelta di una modalità di rapporto
"singolare" che non può che condurre al solipsismo.
Una condizione cui non si oppone la dimensione
"comunitaria" dei "social network", dato che la
comunicazione – oggi già svelta e policentrica di suo – presupporrebbe uno
spessore dell’ascolto che in realtà non è mai nato.
Tutto passa con il brivido di un momento, ed è assodato che
la dimensione oggi maggiormente diffusa è quella del "capriccio" (il
"whim") proprio della moda: un piacere istantaneo che non necessita –
né cerca – giustificazione.
In questa cornice anche i prodotti potenzialmente in grado
di produrre "effetti benefici" – pensiamo al documentario a puntate
ideato e diretto da Dave Grohl che aveva come oggetto alcuni studi di incisione
– finiscono per essere solo il modo con cui si è trascorsa una serata, al pari
di un programma di cucina o una puntata di un serial qualunque.
Non sappiamo quanti
dei lettori hanno familiarità con Margaret Sullivan, giornalista che fino a
qualche settimana fa era il Public Editor – una figura che in italiano potremmo
tradurre con Garante del lettore, anche se la complessità del ruolo come
interpretato dalla Sullivan va riscontrata nel lavoro quale concretamente
effettuato – del noto quotidiano statunitense The New York Times.
Il ruolo della Sullivan è stato uno snodo decisivo nel
rapporto tra lettori e giornale e tra lavoro giornalistico e fatti. Dai
"bias" ai problemi di accuratezza, il Public Editor è chiamato a un
ruolo assai scomodo di "vigilante" nei confronti della redazione
giornalistica e del suo lavoro, il tutto in quella cornice di rapidità dei
flussi che caratterizza l’informazione al tempo della Rete e all’interno di
quelle costrizioni di bilancio che oggi più che mai potrebbero indurre a comode
sforbiciate.
Ricordiamo che quella di Public Editor è una figura
gerarchicamente indipendente, che nel suo lavoro è coadiuvata da uno staff
giornalistico a tempo pieno.
Il punto è questo: il lettore che sceglie di pagare per
avere informazioni instaura un dialogo a proposito della loro correttezza e
accuratezza, processo continuo e continuamente perfettibile. Il giornale è
quindi chiamato a un ruolo di controllo di correttezza di quanto detto da
altri, come per esempio avviene successivamente ai dibattiti tra potenziali
candidati alla Presidenza. Il giornale è quindi chiamato non solo a riferire
fatti ("X ha detto questo") ma anche a verificarne l’accuratezza
("quanto detto da X è vero?").
Il lettore pensi anche al campo sterminato dell’appropriatezza:
ha il giornale dedicato sufficienti sforzi, e forze, e risorse a seguire il
problema X, o lo ha fatto solo quando le dimensioni del problema erano tali da
non poter fare altrimenti?
Quindi, posto che oggi fare quadrare i bilanci è difficile –
vendite in calo, pubblicità anche – la domanda è anche come il giornale (o
l’emittente) destina i fondi. E qui, parlando da lettore, a fronte del New York
Times, l’allocazione delle risorse di un quotidiano come la Repubblica è roba
da mettersi le mani ai capelli.
Il consumatore ha la
facoltà di decidere quanto spendere e in che direzione. Avremo mai più una
stampa musicale degna di questo nome? Accetteremo una realtà di informazioni
sminuzzate di nessun valore? Ci lasceranno il "wellness" e il
"whim" il tempo di occuparci d’altro? Il futuro è aperto.
© Beppe Colli 2016
CloudsandClocks.net | May 10, 2016