Henry Cow
Concerts
(ReR)
"Gli
Henry Cow sono i nuovi King Crimson". Sebbene Frank Zappa e i Soft
Machine fossero ambedue menzionati, era la (supposta) somiglianza ai King
Crimson che costituiva il maggior punto di richiamo commerciale della prima
recensione che ci capitò di leggere a proposito di Legend, l’album di esordio
degli Henry Cow. E sebbene un atteggiamento cauto fosse d’obbligo – dopotutto
si trattava della stessa rivista, anche se non necessariamente della stessa
firma, che quattro anni prima aveva definito i King Crimson "i nuovi
Moody Blues"… beh, ci procurammo l’album.
Tutti
musicisti eccellenti: al sax, clarinetto e flauto, Geoff Leigh era il componente
più manifestamente influenzato dal jazz; il tastierista e fiatista Tim
Hodgkinson era già un compositore di prim’ordine, e Amygdala è brano che
oggi può essere tranquillamente ascoltato senza avere idea alcuna riguardo
alla sua età; alla chitarra (ma anche al violino, alla viola e al piano),
Fred Frith appariva l’elemento più apertamente "rock" del gruppo;
c’era poi la sezione ritmica: al basso, John Greaves era assolutamente
eccellente per scelta di note e per il loro attacco e rilascio; mentre
Chris Cutler si rivelava essere l’ultimo della lunga catena di batteristi
inventivi e personali venuti fuori dal Regno Unito (il che non vuol dire
che dopo di lui nel Regno Unito non ci siano più stati batteristi "tecnicamente
abili"). Sebbene l’LP comprendesse sicuramente parti che a un primo
ascolto risultavano di certo difficili, pure esso riusciva ad affascinare
e a interessare – e allo stesso tempo a rendere chi ascoltava cosciente
dell’esistenza di dimensioni musicali delle quali l’ascoltatore medio di
allora (per esempio chi scrive) non aveva alcuna consapevolezza.
Si potrebbe
dire che con ogni album successivo gli Henry Cow riuscirono a mettere alla
prova i limiti di quello che era possibile nel "rock" – un termine
che qui andrebbe inteso come riferito sia alla forma che all’ambiente commerciale
in cui il gruppo si trovò a operare (non dimentichiamo che questi sono
i primi anni settanta, con i T. Rex e il Glam Rock quali nuova moda). Unrest
vede il gruppo lasciare il jazz (e Geoff Leigh) e procurarsi una voce strumentale
molto diversa con Lindsay Cooper al fagotto e all’oboe. Se la facciata
uno era per molti versi una estensione del primo album, la facciata due,
con il suo uso intenso dello studio, era un salto che non molti ascoltatori
furono disposti a fare. E la mancanza di vere interviste non fu certo d’aiuto
(in pochissimi anni la Virgin Records aveva messo sotto contratto Faust,
Henry Cow, Hatfield And The North, Robert Wyatt, Gong e Slapp Happy, ma
era Mike Oldfield – e, più tardi, i Tangerine Dream – a pagare i conti).
Le cose
divennero ancora più confuse con la pubblicazione di Desperate Straights,
l’album realizzato congiuntamente da Slapp Happy e Henry Cow. Sebbene le
canzoni dell’LP non fossero affatto difficili, l’unica recensione che ci
capitò di leggere a quei tempi sottolineava una forte somiglianza tra la
voce di Dagmar Krause e quella di Yoko Ono – cosa che mai e poi mai avrebbe
potuto essere intesa come un complimento! (Ricordiamo ancora lo sguardo
pieno d’orrore degli impiegati della Virgin Records – i cui uffici ci trovammo
brevemente a visitare nell’estate del ’75 – quando ci riferimmo a In Praise
Of Learning come
"il nuovo album degli Henry Cow dopo Desperate Straights", un’idea
erronea che si affrettarono a correggere.)
In Praise
Of Learning riusciva a far coesistere molte correnti musicali in un unico
album – e diremmo che lo faceva con successo: la canzone breve, la composizione
lunga, il lavoro di studio, tutto era eccellente. E inoltre, l’album era
un album di vero rock (beh, forse non negli Stati Uniti, dove il significato
di
"rock" era molto diverso/sicuramente più limitato della sua controparte
europea).
Di lì
a poco tutto pervenne a una fine – e a un nuovo inizio. Il giorno che arrivò
la nostra copia di Concerts – una copia di importazione che avevamo ordinato
per posta (avevamo comprato tutti gli album precedenti del gruppo in un
negozio del centro, e tutti erano facilmente reperibili come stampe italiane)
– fummo molto sorpresi: cos’era questa Compendium Records? Evidentemente
la Virgin Records aveva infine deciso che dal punto di vista finanziario
questa musica non era destinata a essere "la forma delle cose a venire".
E sebbene il continente si sarebbe rivelato essere una terra più fertile
per questo tipo di musica per qualche anno ancora, le orde di coloro i
quali "trovavano difficile capire la complessità" che sparavano
ad alzo zero contro EL&P e Yes e che ignoravano perfino l’esistenza
di gruppi come gli Henry Cow (non che la cosa avrebbe fatto alcuna differenza)
erano ovviamente destinate a prevalere.
Come
da titolo, Concerts mostrava quanto diversi potessero essere gli Henry
Cow su un palco. Paragonato al vecchio doppio LP del 1976 (c’era già stata
una prima riedizione su CD all’incirca dieci anni fa, ma non abbiamo mai
avuto modo di ascoltarla) questa nuova edizione rimasterizzata da Bob Drake
suona decisamente meglio. Non nel senso che qualcosa sia stata "migliorata"!
– le session fatte per la BBC suonano bene come sempre, e anche i pezzi
che vedono la presenza di Robert Wyatt suonano… beh, mediocremente come
sempre. Ma è ovvio che un suono più chiaro, la mancanza del rumore del
vinile e il fatto di non avere a che fare con le limitazioni fisiche proprie
del vinile rendono molto più agevole apprezzare la musica, particolarmente
nel caso della lunga (quasi mezz’ora!) improvvisazione intitolata Oslo
che in origine era stata compressa sulla facciata tre.
Le BBC
session che (ancora) aprono l’album potrebbero forse ben fungere da
"introduzione tascabile" per chi non avesse mai ascoltato gli Henry
Cow. Una delle più belle canzoni del gruppo, Beautiful As The Moon, Terrible
As An Army With Banners, apre il lavoro: agile piano (Frith), voce espressiva
(Dagmar), piatti eccellenti (Cutler); quindi, una bella ripresa della maggiormente "jazzy" Nirvana
For Mice, dal primo album, con Hodgkinson al sassofono e uno spumeggiante
ma preciso Greaves al basso; The Ottawa Song, un brano originale, e una cover
della Gloria Gloom firmata Wyatt/MacCormick proveniente dal secondo album
dei Matching Mole, Little Red Record, mostrano il gruppo perfettamente a
suo agio.
Tratta
da Desperate Straights, Bad Alchemy vede Wyatt alla voce e Greaves al piano;
segue una bella cover della Little Red Riding Hood Hits The Road di Wyatt
tratta dal suo molto lodato LP intitolato Rock Bottom. Da Unrest, la Ruins
di Frith suona ancora fertile e inventiva. Originariamente posti sulla
facciata quattro, i due estratti concertistici intitolati Groningen, eseguiti
da un quartetto privo della Cooper, sono una superba ruminazione di gruppo
su un tema di Hodgkinson.
Oslo
è per chi scrive la vera scoperta: un’improvvisazione coerente ma in grado
di offrire continue sorprese e timbri sempre cangianti (Cutler al piano!)
mostra quanto fossero avanzate a quel tempo le improvvisazioni del gruppo.
Come bonus, dei brani molto belli originariamente apparsi su una
doppia compilation da sempre fuori catalogo intitolata Live At Dingwalls
(mentre ascoltavamo la traccia 10 ci siamo trovati a rivolgere lo sguardo
verso il nostro piatto, vecchio ma perfettamente funzionante: una semplice
coincidenza?). Udine chiude brillantemente questo CD (che è molto lungo,
ma che non contiene una sola nota facilmente definibile come superflua).
In mezzo
a tutto ciò, alcune pagine asciutte ma (nel loro modo sommesso) altamente
drammatiche tratte dal diario dei tour tenuto da Chris Cutler illustrano
in modo chiaro quali fossero le condizioni della "life on the road" del
gruppo.
Beppe
Colli
© Beppe
Colli 2006
CloudsandClocks.net | Nov.
2, 2006