Hawkwind
Warrior On The Edge Of Time
(Atomhenge)
"Se
non è vero che la marijuana causa seri danni al cervello perché c’è tanta
gente che ascolta gli Hawkwind?". E’ Peter Frame, nel suo "albero
genealogico" del gruppo, a ricordare la battuta acida che circolava
sulla stampa musicale anglosassone, sempre restia a prendere sul serio
una formazione che considerava poco più di una "novelty item",
definizione citata dallo stesso Frame che potremmo rendere come "una
trovatina senza il minimo spessore".
Ma se
è vero che la battuta non è nata con gli Hawkwind, avendo avuto larga diffusione
sui due lati dell’Oceano già a partire dalla fine degli anni sessanta e
venendo di volta in volta riferita a questo o quel gruppo, è anche vero
che – a onta di una popolarità che se non sarebbe appropriato definire "di
massa" è stata per un paio di decenni ben al di sopra di quella che
solitamente definiamo "di nicchia" – quella degli Hawkwind è
stata una formazione guardata con sufficienza, e mai davvero entrata nella
storia del rock che conta, neppure tra "i minori".
Eppure,
se guardiamo al Rock Family Tree degli Hawkwind disegnato da Peter Frame
nel 1979 – una data che anticipa di qualche anno la fine del periodo che
diremmo contraddistinguere la produzione che conta davvero – vediamo un
gruppo che nonostante i numerosi avvicendamenti nella formazione, una serie
di vicissitudini giudiziarie e finanziarie, periodici mutamenti di casa
discografica e una "temperatura interna" spesso vicina al punto
di ebollizione ha saputo costruire un archetipo sonoro facilmente riconoscibile
dopo pochissime note.
Ma è un
archetipo che non si identifica con la monotonia: mutando appena qualche
sfumatura, non c’è genere che il gruppo non abbia frequentato, dalla
"space jam" alla fissità del groove, dal proto-ambient alla quasi-techno,
dalla canzone rock alla ballad più o meno "cosmica", con sassofoni,
chitarre, batterie e sintetizzatori, e tutta una serie di
"preoccupazioni" – dalle problematiche sociali concernenti l’uso
del potere, alle premonizioni ecologiche (si veda la ballad We Took The Wrong
Step Years Ago su X In Search Of Space) agli oscuri racconti di fantascienza
(chi altri avrebbe potuto immaginare un enorme capannone industriale dove
ignari operai sono intenti a costruire… ali per gli angeli?).
Ed è un
archetipo che vede un solo elemento quale presenza fissa nei decenni: il
chitarrista, cantante e principale compositore Dave Brock, che definiremmo
senz’altro il corrispondente di quello che Robert Fripp è stato per i King
Crimson non fosse per l’enorme divario tecnico esistente tra i due musicisti
– e le due formazioni.
A questo
punto potremmo aspettarci che il punk abbia accolto a braccia aperte il
gruppo – e qui va subito detto che se c’è mai stato un gruppo che niente
aveva da temere dall’arrivo del punk questi erano gli Hawkwind – e invece
no, e per un motivo molto semplice: gli Hawkwind erano "hippies".
E ciò include quella mutazione in cuoio e amfetamine che risponde al nome
di Lemmy, musicista che proprio negli Hawkwind imparò a suonare il basso
e che in seguito trovò grande fama con il gruppo da lui fondato, i Motörhead,
per diventare poi una vera e propria "celebrity" mondiale.
Abbozziamo
un tentativo di spiegazione. E’ la stampa anglosassone a non aver mai amato
gli Hawkwind, gruppo che per tutta una serie di motivi è sempre risultato
essere
"fuori tempo" rispetto a quanto andava di moda, tollerato solo
quando motivi di alta popolarità non permettevano di ignorarne l’esistenza
ma in fondo troppo simile al "freak qualunque", fonte di sfottò
e oggetto di ridicolo. Musicisti che per il loro aspetto – nell’abbigliamento
e nelle acconciature – e per la loro filosofia mal si prestavano a diventare
figure emblematiche di un trend "moderno" sul quale costruire filosofie
verbali: non il rimescolamento dei generi e dei ruoli del Glam, non il
"rifiuto sociale" del punk, non il "moderno" della new
wave. E quando gli "strutturalisti" seguaci della filosofia francese
trovarono un megafono adeguato su mensili illustrati in carta patinata come
The Face la pietra diventò davvero tombale. Oggi il "male inglese" copre
l’intero globo, come la valorizzazione di tutta una schiera di personaggi
che
"sovvertono" e "ribaltano", da Madonna a Lady GaGa e
Ke$ha, è in grado di dimostrare.
Anche
se nessuno allora lo sapeva, gli Hawkwind nascevano già vecchi, propaggine
del sogno "alternativo e della controcultura" che solo pochi
anni prima aveva visto protagonisti i Pink Floyd di Syd Barrett, i Soft
Machine e il Crazy World di quell’Arthur Brown con in testa il cappello
da cui uscivano fiamme. Qui i posti sono la Roundhouse e il Middle Earth,
e la
"società alternativa" necessitava di benefit per spese legali,
attività in cui gli Hawkwind saranno sempre in prima fila, spesso coadiuvati
da figure quali Liquid Len (Jonathan Smeeton) – che con i suoi Lensmen animò
il lightshow del gruppo negli anni settanta – e il celebre grafico Barney
Bubbles (Colin Fulcher), al quale si devono alcune tra le più colorate copertine
della formazione. (Qui si potrebbe tracciare un parallelo con il panorama
di luoghi famosi come gli statunitensi Fillmore.)
Il lettore
è invitato a immaginare – con cautela – quel che il gruppo fu capace di
metter su con i proventi del successo a sorpresa – un bel #3 – della canzone
intitolata Silver Machine: luci, ballerini, un "poet in residence" (Bob
Calvert, che in seguito diverrà il cantante ufficiale della formazione)
e Stacia, la danzatrice nuda. (Da qualche parte c’è anche Nik Turner vestito
da rana che scivola sul palco.) Facile definire Silver Machine (che dovrebbe
essere una bicicletta, ma qualche dubbio è d’obbligo) come "Chuck
Berry con i sintetizzatori", e in effetti molta della produzione su
singolo del gruppo in questo periodo ne ricrea l’amosfera: Urban Guerrilla,
Kings of Speed, Kerb Crawler, Quark, Strangeness and Charm, 25 Years.
Con titoli
quali Paranoia e Mirror Of Illusion, l’album di esordio (1970) che porta
il nome del gruppo viene etichettato come Space Rock. Il Willie Dixon di
Bring It On Home e la Cymbaline dei Pink Floyd, presenti quali brani aggiunti
in edizioni su CD, occhieggiano da dietro le quinte.
Lo stile
si presenta già compiuto su X In Search of Space (1971), con una certa
aria da "esplorazione spaziale", la batteria leggera di Terry
Ollis e il sassofono "incerto" di Nik Turner. (Verità o leggenda,
si narra che i roadies dovessero tenere in piedi i suonatori, palesemente
impossibilitati.) L’album presenta le due voci tipiche del gruppo: l’isteria
a stento tenuta a freno di Brock e il torpore oppiaceo di Turner, versatili
contro tutte le apparenze.
Doremi
Fasol Latido (1972) vede l’ingresso di una ritmica in grado di diventare
un modello: il già citato Lemmy al basso e Simon King alla batteria. Il
doppio dal vivo Space Ritual (1973) presenta la parte sonora del tour fatto
con i proventi di Silver Machine, mentre Hall Of The Mountain Grill (1974)
allarga lo spettro sonoro con l’ingresso delle tastiere e del violino di
Simon House, ex High Tide e Third Ear Band.
Mai avevamo
pensato agli Hawkwind come un gruppo "progressive". Grande quindi
il nostro sconcerto, qualche anno fa, nel ritrovarceli su un numero speciale
di Mojo con in copertina i Pink Floyd. Ed è sotto questa luce che appare
oggi la ristampa di quello che per molti anni è stato l’esemplare mancante
della discografia della formazione: Warrior On The Edge Of Time (1975),
album che vede la presenza vocale e i testi di Michael Moorcock, famoso
autore di fantascienza non nuovo alla collaborazione con gli Hawkwind.
In realtà
l’album era già stato ristampato in formato CD, e per ben due volte. Ma
la versione europea – seguiamo qui le fonti abituali – proveniva da una
copia in vinile, quella statunitense da nastri analogici non master. Suono
di fanfare, quindi, per una ristampa in edizioni multiple, con bonus, rimissaggi
opera di Steven Wilson, un mix surround, una versione in vinile, un box
contenente anche un volume e così via.
Fedeli
allo spirito "hippy" abbiamo ascoltato la nuova versione in CD
con il missaggio originale rimasterizzato, che abbiamo confrontato con
l’album originale in nostro possesso da decenni (una stampa inglese del
1975
"A Porky Prime Cut") e la versione in CD della Dojo. Ci sembra
di poter dire di un lavoro ben fatto, con molto livello ma nessuna compressione
a stravolgere il suono. La dimensione sonora scura e claustrofobica dell’originale
in vinile si adattava al materiale in un modo a nostro avviso ottimale, mentre
l’apertura sugli acuti e l’accresciuto senso di spazialità del nuovo CD ne
accentuano la dimensione "scenica".
L’arrivo
di Simon House era stato causa di perplessità, innanzitutto per la grande
disparità tecnica esistente tra gli Hawkwind e gli High Tide, prodigioso
quartetto di "metal intellettuale" da cui House proveniva. Poi
per la scarsa sostanza dell’apporto al primo album degli Hawkwind al quale
House aveva partecipato, Hall Of The Mountain Grill. In realtà il musicista
necessitava solo di un po’ di tempo per integrarsi. Tassello fondamentale
di Warrior On The Edge Of Time, House caratterizzerà con i suoi strumenti
e la sua verve compositiva anche gli album successivi con in primo piano
la voce e le narrazioni di Bob Calvert che per certi versi costituiscono
una risposta alla sfida "new wave": Astounding Sounds, Amazing
Music (1976), dove House affida alla voce di Turner la ballad pianistica
intitolata Kadu Flyer. Quark, Strangeness and Charm (1977), dove allarga
in modo asciutto la tavolozza dei sintetizzatori. Sui brani dal vivo e
in studio presenti in PXR5 (1979). Mentre è laconica (House era nel frattempo
entrato in qualità di violinista nel gruppo di David Bowie – si vedano
il doppio dal vivo intitolato Stage e i vari filmati reperibili in Rete)
la sua partecipazione a quel 25 Years On pubblicato a nome Hawklords (1978).
Tre brevi
brani parlati con grande impiego di sintetizzatori, percussioni ed echi
multipli costituiscono la bizzarria di Warrior On The Edge Of Time, e qui
ognuno dovrà regolarsi come crede. L’album tutto presenta comunque una
cura del particolare e una chiarezza di intenti ben difficili da riscontare
nei precedenti lavori di studio. Un batterista agile e "percussivo",
Alan Powell, si affianca a Simon King, allargandone la tavolozza. Più disciplinato
risulta qui il lavoro di Nik Turner al tenore, al soprano e al flauto,
con un assolo a quest’ultimo strumento ad affiancarlo idealmente a Chris
Wood dei Traffic.
I dieci
minuti di Assault And Battery/The Golden Void sono da antologia, con l’apertura
di tastiere sotto la tesa figura del basso. Voci, percussioni e una serie
di tastiere – il Mellotron innanzi tutto – a dare gli accordi al flauto
durante l’assolo. Una modulazione sul filtro (ci pare di ricordare che
all’epoca House usasse apparecchiature della Korg) è la drammatica cesura,
con il secondo brano a mettere in evidenza un assolo di sax soprano, mosso
dal missaggio lungo l’asse destra-sinistra ma anche nel senso della profondità,
a tratti inghiottito dalle tastiere.
Opa-Loka
vede i batteristi, e Brock al basso, muoversi lungo coordinate Neu! – ricordiamo
che Brock aveva scritto le note di copertina dell’edizione inglese (e italiana)
dell’album di esordio del duo tedesco – ma flauto e tastiere rimandano
senz’altro alla psichedelia inglese.
The Demented
Man è la classica ballad di Brock con chitarra acustica. Qui la differenza
la fa il mellotron sovrainciso di House, tutto con timbri vocali. Una chiusa
perfetta di facciata.
Fiamme
e vento sono l’apertura di Magnu, con sax tenore, elettrica dal suono strozzato,
percussioni "turche" e una performance di violino di House che
rimanda ai migliori High Tide.
Spiral
Galaxy 28948, con in apertura un avvertibile Moog, e poi percussioni, flauto,
e "fischi", è l’unico quadro
"progressive" dell’album. Dying Seas è la classica ballad oppiacea
di Turner, un bel contrasto.
Chiude
l’album Kings Of Speed, già su singolo, con echi, violino quasi country
& western (!) e un testo facilmente comprensibile.
Come già
su altre edizioni, la oggi famosissima Motorhead – all’epoca solo la facciata
B del singolo – compare come bonus. (Chiara la gomma da masticare e il
quarto giorno di una maratona di cinque, attendiamo ancora che qualcuno
ci spieghi "ci muoviamo come un parallelogramma".)
Detto
del seguito immediato, ci piace citare Levitation (1980), dove lo stile
del gruppo accoglie senza problemi le scansioni ritmiche di Ginger Baker
(quando si dice le sorprese! ci sono anche delle registrazioni dal vivo,
legali) e il techno-metal di Sonic Attack (1981). Questo periodo del gruppo
vede il ritorno della chitarra solista di Huw Lloyd-Langton, scomparso
dopo il primo album a causa di un viaggio di LSD troppo traumatico (e purtroppo
recentemente scomparso: il lettore, se vorrà, potrà cercare in Rete il
destino dei singoli, con il bipolare Bob Calvert da tempo non più tra noi
e altri fatti di varia natura).
Ci fermiamo
qui, con Michael Moorcock che su Sonic Attack ci invita a
"mettere in discussione la natura degli ordini che riceviamo" e
Dave Brock a ricordarci che "le generazioni future contano su di noi/e
questo è un mondo che abbiamo tramutato in un incubo". Vecchi hippies,
proprio come si diceva.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2013
CloudsandClocks.net | June 9, 2013