Buon 2010!
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di Beppe Colli
Jan. 1, 2010
Anno
dopo anno siamo sempre più convinti che niente è altrettanto nocivo per
la nostra sanità mentale dell’ormai incontrollato proliferare di liste
contenenti un elenco delle "migliori qualsiasicosa" dell’anno.
Un fenomeno tanto più odioso in quanto del tutto prevedibile ma al contempo
assolutamente inevitabile, proprio come il mutare delle stagioni. L’origine
di questo bizzarro costume sociale non presenta più da tempo alcun mistero,
gli studiosi essendo oggi universalmente concordi sul fatto che solo genti
di un paese perennemente immerso nella nebbia ormai stanche di tramandare
oralmente le gesta del Mostro di Loch Ness avrebbero potuto considerare
lo stilare liste dapprima una fonte di passatempo e successivamente un
luogo privilegiato per provare il loro ingegno. Sarebbe facile prendere
sottogamba il problema. Ma oggi che il
"male inglese" ha colonizzato buona parte del mondo occidentale,
provandosi atto a riprodursi anche in un territorio in origine decisamente
poco ospitale quale gli Stati Uniti, è venuto il momento di porsi la fatidica
domanda: a chi giova?
La nostra memoria è in grado di
tracciare il seguente cammino: Melody Maker, New Musical Express, Sounds;
Smash Hits; The Face; Q; Uncut, Mojo; The Word. Certo cambia l’oggetto,
come facilmente provato da questo (parziale) elenco di coppie: Beatles
o Stones? Page o Blackmore? Pistols o Clash? Oasis o Blur? Winehouse o
Allen? Obbligatorio notare come riviste che in senso numerico spaccano
l’unico capello in quattro (un buon esempio è The Wire) allorquando cadono
preda del
"morbo delle liste" cominciano a considerare lo spaccare un capello
in quattro come un mero punto di partenza di un cammino il cui limite naturale
tende all’infinito.
Non vorremo dare al lettore l’impressione
di essere contrari alle liste "per principio". Al contrario,
riteniamo senz’altro utile sapere quanto hanno venduto gli album, i film,
i libri di cui si è tanto parlato – anche se abbiamo il sospetto che in
un momento quale quello attuale la lista dei Primi Dieci avrebbe più di
qualche affinità con elenchi quali Le prime cinque cause di morte nel mondo
occidentale (che è senz’altro un elenco degno di essere conosciuto, ma
al quale forse non è il caso di pensare in occasione delle feste di fine
anno). Diverso sarebbe il caso di un elenco quale I dieci migliori album,
libri e film che vi sono sfuggiti quest’anno, qualora pubblicato da un
quotidiano ad alta tiratura quale The Guardian, The New York Times o La
Repubblica; ma, si potrebbe dire, se sono sfuggiti un motivo ci sarà: non
è che agli spettatori venga fisicamente impedito di vedere Il matrimonio
di Lorna o di acquistare in Rete un film non uscito nelle sale quale, per
fare un esempio del tutto casuale, Wendy & Lucy.
La
"lista" per lungo tempo tipica del contesto culturale degli Stati
Uniti è stata quella collettiva coordinata per molti anni da Robert Christgau
per il Village Voice il cui intento dichiarato era di misurare il
"critical consensus". Una nozione discutibile quanto si vuole (e
la cui realizzabilità è oggi assai problematica per motivi non solo economici:
quanti oggi i critici che hanno ascoltato gli stessi album?) ma che è decisamente
più affine a una lista quale Cinque album di piano jazz che mostrano un forte
debito nei confronti di Paul Hindemith (in ordine alfabetico) che a liste
quali I miei pezzi preferiti alle 16.34 di oggi o I migliori 10 album di
quest’anno secondo noi, uno per inserzionista. Ci sono poi liste quali quelle
del mensile statunitense Down Beat che tentano (l’impossibile compito) di
coniugare qualità e mercato (in un mercato piccolo e asfittico come quello
del jazz il piazzamento di un artista può avere concrete implicazioni monetarie
quando si parla di concerti, soprattutto se il pagatore di ultima istanza
è un ente pubblico, in special modo se europeo).
Mai come quest’anno la nostra navigazione
in Rete durante il mese di dicembre è stata esposta a pericoli: ci era
infatti sfuggito che questo era l’ultimo anno di un decennio, anche per
la nostra poca familiarità con la parola Noughties (e non ci ha certo aiutato,
all’inizio, il fatto di scambiarla per Naughties). E qui non c’era scampo,
da Noughties Icons a The Best Ten Films Of The Noughties.
Il nostro passatempo
preferito durante le feste di fine anno è dare un’occhiata in Rete per vedere
quanta (poca) attenzione hanno ricevuto gli album a nostro avviso più interessanti
e originali (che non vuol dire necessariamente i più riusciti). Facendo una
ricerca con Google ci siamo trovati davanti due recensioni in italiano che
alla lettura risultavano sorprendentemente simili. Dato che, in via ipotetica,
la copiatura diretta ci sembrava da escludere abbiamo cercato un po’ a casaccio
il comunicato stampa in lingua inglese: c’era, ed era indubbio che esso costituiva
la fonte primaria delle due recensioni.
Un piccolo ricordo personale. Molto tempo fa ci capitò di
ricevere alcune ristampe di uno storico gruppo inglese corredate da materiale
storico-biografico in lingua inglese di qualità tanto elevata da destare
la nostra ammirazione. Grande fu il nostro stupore, qualche mese dopo, nel
leggere un "articolo approfondito" su più pagine che si limitava
a riprodurre la traduzione di quanto da noi ricevuto. L’episodio ci è tornato
in mente un paio di mesi fa quando abbiamo ritrovato, alla lettera, un comunicato
stampa da noi letto in lingua originale alcuni giorni prima sul Forum di
Steve Hoffman a proposito di una ristampa ampliata di glorioso materiale
d’annata.
Questa delle recensioni in buona parte copiate dal comunicato
stampa ci è sempre parsa una questione interessante ma sulla quale per lungo
tempo non abbiamo avuto più che sentori, dato che per dire qualcosa di minimamente
attendibile bisogna avere a disposizione un’ampia casistica concernente due
cose: le recensioni e i comunicati stampa; e se è ovvio che per leggere le
prime basta avere accesso alle riviste, per i secondi la cosa non è altrettanto
semplice.
Oggi però le cose sono in parte cambiate. Per motivi di
economicità, non pochi album (soprattutto, ma non solo, di jazz) non fanno
più ricorso alle note di copertina o al classico foglietto d’accompagnamento,
etichette e distributori preferendo mettere il materiale direttamente in
Rete, a disposizione di recensori e lettori. E in molti casi in cui per comodità
il foglietto fisico viene ancora inviato insieme alla copia omaggio, esso
non contiene nulla più di quello che è possibile visionare in Rete. E qui
la casistica comincia a diventare quanto meno interessante. (In ogni caso
una conoscenza enciclopedica dei trascorsi dei musicisti accoppiata a una
estrema puerilità di giudizio o a un procedere a tentoni nel descrivere la
musica è sempre un primo indizio che qualcosa non va come dovrebbe.)
Da parte nostra piangiamo la scomparsa delle note di copertina,
che oltre a essere una fonte di reddito non trascurabile per non pochi critici
di jazz consentivano all’appassionato di avere un parere qualificato (e una
fonte di informazioni) con cui confrontarsi. Quello che troviamo particolarmente
grave non è tanto il fatto che il parere sia quello della casa discografica
(che sempre un parere è, per quanto interessato) ma che questo parere, di
fatto, venga passato senza mediazioni al lettore. E va da sé che quanto più
lo spazio della recensione tende a contrarsi (e così è oggi dappertutto)
tanto più la stessa cosa avviene per la parte propriamente
"critica".
Questo non è, né intende essere, un giudizio
"morale" (anche se un tale giudizio è sotteso all’argomentazione),
quindi è del tutto inutile ribattere con argomenti di comodo quali "è
sempre stato così". Potremmo dire che la proliferazione delle uscite
discografiche e il moltiplicarsi delle fonti "a stampa", Rete compresa,
in presenza di impiego di mano d’opera dequalificata a bassa remunerazione
rende impossibile dedicare a un singolo lavoro l’ammontare di tempo e di
competenza "cristallizzata" necessario a rendere a esso giustizia.
In questa cornice la preparazione di un "articolo-guida" a monte
si presenta come l’unico rimedio possibile. Esso è però destinato a rimanere
inconfessabile al pari della strategia del baro che estrae le carte dalla
manica di nascosto finché la "terzietà" di un parere verrà riconosciuta
quale ingrediente imprescindibile di una recensione.
Il lettore che intenda seguire un parallelo, e magari andare
oltre, è invitato a leggere il capitolo IV del bel libro di Richard Sennett
intitolato The Corrosion Of Character, apparso in italiano con l’assai meno
incisivo titolo di L’uomo flessibile. Si vedrà come a distanza di un quarto
di secolo i fornai di un panificio di Boston visitato dall’autore abbiano
visto cambiare il contenuto della propria professione.
Un altro modo di seguire le cose (che non esclude certo
la lettura del libro di Sennett) è quello di fare una scorpacciata di recensioni
d’epoca. Il nostro tramite preferito è il sito Rock’s BackPages (il cui accesso
è a pagamento/in abbonamento), unitamente a fonti quali l’archivio del New
York Times (con una combinazione di modalità) e quello di Rolling Stone (un’utile
scorciatoia a quanto di maggiore interesse personale è costituita dalle pagine
di Wikipedia in lingua inglese).
Qui, ben al di là delle sciocchezze di comodo in perfetta
malafede che risiedono nell’equazione fallace "ogni uomo un parere",
è possibile vedere quello che differenzia un critico da un cretino. E non
è certo una questione di identità di vedute! Si accosti il parere di Paul
Nelson su Coney Island Baby di Lou Reed (apparso su Rolling Stone e riprodotto
nel libretto della recente ristampa dal suono orrendo) a quello di Greil
Marcus a proposito di Lodger di David Bowie (sempre da Rolling Stone). Risulta
evidente che ambedue i critici hanno affrontato il materiale che avevano
di fronte con un armamentario interpretativo in grado di dar vita a un’interpretazione
coerente e di senso compiuto, e che nel far ciò hanno usato un punto di vista
altamente individuale. E che è proprio la comprensibilità e la coerenza interna
delle due argomentazioni, pur tanto diverse, la circostanza che ci rende
possibile essere in disaccordo.
Da parte nostra diremmo la cornice culturale di Marcus pochissimo
adatta a comprendere un lavoro come Lodger. Il che non rende di per ciò stesso
inutile la sua recensione – tutt’altro! Il vero pericolo è infatti insito
nel proliferare odierno di recensioni frutto di adattamenti, comunque mascherati,
di uno stesso comunicato stampa: ben al di là del fattore
"amore a pagamento", è l’unicità di vedute che risulta da un simile
andazzo a ridurre quella varietà di interpretazioni che – qualora coerentemente
argomentate – costituisce la condizione prima per il fiorire di un discorso
pubblico.
© Beppe Colli 2010
CloudsandClocks.net | Jan.
1, 2010