Mike Gordon
Overstep
(Megaplum/ATO)
Riuscire
a costruirsi un’identità autonoma (e, va da sé, commercialmente plausibile) in
grado di prescindere dal celeberrimo gruppo cui si devono fama e prosperità è
sfida con la quale prima o poi tanti nomi illustri – da David Gilmour a Mick
Jagger – hanno dovuto confrontarsi.
E la cosa
vale ovviamente anche per il quartetto statunitense dei Phish, gigantesca
attrazione dal vivo per buona parte degli anni novanta e tutt’ora entità in
grado di coinvolgere un pubblico di non piccole dimensioni.
E qui il
fatto che Trey Anastasio – il chitarrista e cantante alla cui penna si deve la
quasi totalità della musica del gruppo – si sia rivelato il più idoneo nel
difficile compito di costruzione di un’identità personale potrebbe non
sorprendere, non fosse per il fatto che l’estetica della produzione solista di
Anastasio si è mossa lungo coordinate che pur mostrando non pochi punti di
contatto con la musica dei Phish (ma potrebbe essere diversamente?) finiscono
poi per prescinderne. E’ vero che non sempre nella sua produzione solista
Anastasio ha fatto centro, con il recente Traveler (2012) quale album in grado
di destare in ugual misura perplessità e ammirazione per scelte poco comode.
Resta però il fatto innegabile di un cammino all’insegna della più coraggiosa
disinvoltura stilistica.
A
paragone di Anastasio i tre musicisti che completano la formazione sono parsi
un po’ spaesati: strumentisti dalla pronuncia riconoscibile, da sempre i tre
sono autori poco prolifici.
Il
bassista e cantante Mike Gordon è però in possesso di una penna a dir poco
originale, mentre il suo amore per musiche tradizionali americane quali il
bluegrass e la sua affinità per climi dal sapore di calypso regalano ai suoi
contributi tinte personali. Va da sé che una musica che spicca all’interno di
un gruppo può rivelarsi poco adatta a creare un quadro completo.
Ed è
questo, semplificando un po’, il dilemma che Gordon si è trovato di fronte:
coltivare un’estetica personale ma su cui è difficile costruire una carriera
minimamente ambiziosa o perfezionare una formula "Phish-light"
senz’altro di più vasto appeal ma che proprio in virtù degli ingredienti-base
sarà sempre costretta a scomodi paragoni nei confronti del gruppo di
provenienza.
Lungo il
cammino, due belle collaborazioni con il chitarrista Leo Kottke – Clone (2002)
e Sixty Six Steps (2005) – hanno consentito di aggirare l’ostacolo producendo
al contempo ottimi risultati.
Esordio
solista, Inside in (2003) è un lavoro bizzarro che si ascolta con piacere
ancora oggi, con i tromboni e le steel guitar ad affiancarsi all’inconfondibile
humour di Gordon. L’album rimaneva però essenzialmente una creazione di studio.
Pubblicato
cinque anni più tardi, The Green Sparrow si presentava come la quadratura del
cerchio, con Gordon incredibilmente cresciuto sia come chitarrista (anche
elettrico) che come tastierista. Pur strettamente apparentata a quella dei
Phish, la musica godeva di una buona autonomia e si mostrava pronta a essere
portata sul palco. Un album che si ascolta ancora oggi con un certo piacere e
di cui il lettore potrà leggere il dettaglio nella nostra recensione di allora.
Il
lettore non troverà invece la recensione dell’album successivo, Moss (2010), che
alle nostre orecchie suonò come una stanca replica del suo predecessore, quasi
come se su The Green Sparrow avessero trovato posto i brani meglio riusciti
delle sedute di registrazione, con il titolare a destinare a Moss le idee messe
su nastro quando ormai la stanchezza si faceva sentire. Va però notato che nel
frattempo i Phish – ricostituitisi per la seconda volta – avevano pubblicato
Joy (2009), ed è quindi verosimile che le priorità di Gordon fossero nel
frattempo mutate.
Nella
loro nuova fase i Phish sembrano prediligere un impegno concentrato e limitato
a periodi relativamente brevi, in modo difforme da quella vita perennemente
"on the road" che aveva contraddistinto la vecchia dimensione live
del quartetto. E così, mentre è attesa da tempo la pubblicazione del nuovo
album del gruppo, prodotto da Bob Ezrin, Mike Gordon ha trovato il modo di
incidere il suo quarto lavoro solista e di presentarlo al pubblico in un breve
tour.
Forse per
ovviare a una scarsa prolificità, Gordon ha qui composto l’intero repertorio
insieme al chitarrista e cantante Scott Murawski, musicista che da tempo
affianca Gordon. Ovviamente la scelta non è priva di rischi.
Se non
mancano qua e là strumenti diversi – organo, fisarmonica, percussioni, pedal
steel – suonati da musicisti competenti, la scelta decisiva ai fini di un buon
risultato è quella del batterista Matt Chamberlain, da noi ascoltato per la
prima volta sull’album di esordio di Fiona Apple (Tidal, 1996). Ottimo
timekeeper, buon "colorista", insieme a Butch Vig tra i primi a
sfruttare l’impiego di loop ritmici in tempo reale, Chamberlain sfoggia una
lunga lista di collaborazioni (tra le più recenti, la sostituzione di Matt
Cameron nei Soundgarden, Cameron essendo già impegnato con i Pearl Jam).
La parte
tecnica e la produzione sono state curate da Paul Q. Kolderie, dal lungo e
illustre curriculum. L’album suona bene, con un bel tappeto batteristico e
chitarristico – pur presente, il basso è qui chiamato a un compito diverso, e
decisamente più limitato, rispetto al lavoro più tipico di Gordon – su cui si
stagliano le voci, alte e ben posizionate.
Com’era
in fondo prevedibile, il punto debole dell’album si rivelano essere le canzoni,
il repertorio risultando spesso fin troppo vicino a quello che chiameremmo
"generic American rock". Non aiuta una certa "misura"
strumentale – undici brani per una durata da LP – anche se è da ritenere che
nella dimensione dal vivo i musicisti saranno in grado di fare faville.
E’ però
difficile sfuggire a un’impressione di tedio – molte volte l’album si è trovato
a competere con uno strepitoso cielo azzurro primaverile, perdendo regolarmente
la sfida. Non aiuta il timbro vocale di Murawski, e neppure una certa aria da
"radio FM anni settanta" che fa capolino qua e là. Ciò che salta
maggiormente all’orecchio è una carenza di ambizioni, e di quello che fa
suonare un album come "necessario".
Il
dettaglio.
Ether
inizia con effetti, arpeggi di chitarra acustica, voci. Ha un groove pigro, un
mid-tempo che ritorna spesso sull’album. Ritornello che ricorda fuggevolmente
il Paul McCartney "rock" di cose come Maybe I’m Amazed.
Tiny
Little World è un vivace mid-tempo, ricorda la Steve Miller Band di metà anni
settanta. Bel groove, e sicura buona resa dal vivo.
Jumping
ha una melodia bluegrass svolta con tinte rock, e una bella accoppiata chitarra
acustica-elettrica à la Who’s Next.
Yarmouth
Road è un reggae piacevole, ma stranamente riprende quasi alla lettera il
talk-box di Haitian Divorce degli Steely Dan (in quella sede i musicisti erano
Dean Parks e Walter Becker).
Say
Something è un brano ordinario, con falsetto poco riuscito.
Face è un
bel "funk" alla Mike Gordon, con bel giro di basso e buona batteria.
Paint è
un altro mid-tempo un po’ alla Phish.
Different
World ha Mike Gordon alla voce, chitarre acustiche e la fisarmonica.
Peel si
distacca nettamente dal resto dell’album, presentando un felice connubio
psichedelia-bluegrass.
Long
Black Line ha un groove mid-tempo tra i Grateful Dead e i Phish e un assolo di
chitarra con wha-wha (e qui il confronto con Trey Anastasio non è d’aiuto).
Surface
ha begli impasti di chitarre acustiche ed elettriche e un’ottima parte di
basso, una chiusa dignitosa.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2014
CloudsandClocks.net
| Apr. 10, 2014