Golia/Josephson/Kaiser/Keneally/Morris/Smith/Walter
Healing Force: The Songs Of Albert Ayler
(Cuneiform)
Anche
se la notorietà e il rispetto critico di cui oggi gode la sua musica rimangono
pur sempre al di sotto di quelli che circondano le innovazioni degli altri
due musicisti-chiave del (cosiddetto) Free Jazz degli anni sessanta – parliamo
qui ovviamente di John Coltrane e di Ornette Coleman – ci pare di poter
dire con una certa tranquillità che quella di Albert Ayler è una figura
che fa ormai parte della "tradizione" del jazz moderno; una figura
che all’epoca dei fatti fu decisamente controversa (ma quale innovatore
non lo è? – beninteso, in tempi in cui a questo genere di cose viene attribuita
un’importanza maggiore di quella della classica "tempesta in una tazza
da tè") ma le cui innovazioni sono state da tempo accettate dai musicisti
dell’avanguardia. Laddove la "tradizione dell’avanguardia", concetto
a prima vista non poco paradossale, è la situazione che si viene a creare
quando il "mainstream" non accoglie più gli arditi risultati
cui l’avanguardia perviene.
(E Cecil
Taylor? Rivolto un veloce pensiero al perenne divario di impatto esistente
tra la figura di un sassofonista e quella di un pianista, diremmo che le
acquisizioni del Taylor degli anni cinquanta/primi sessanta attendono ancora
di essere sviluppate.)
L’influenza
di Ayler è ovviamente enorme, e tracce possono esserne trovate persino
nella produzione più tarda dei suoi antecedenti Coltrane e Coleman (senza
ovviamente per questo postulare un processo a senso unico: si accostino
i celeberrimi duetti sassofono-tromba di Coleman e Don Cherry a quelli
di Albert e Don Ayler). Incalcolabile anche l’influenza su tanto "Free
Europeo" – qui basti citare il nome di Peter Brötzmann.
(Molto
in breve.) La musica di Ayler presenta un ampliarsi timbrico del suono
del sassofono (innanzitutto tenore); una grande indipendenza nell’apporto
batteristico degli indimenticabili Sunny Murray, Milford Graves e Beaver
Harris; un originale ruolo del contrabbasso (strumento che non di rado
viene impiegato in quantità doppia) da parte di nomi quali Gary Peacock,
Henry Grimes e Alan Silva; una personalissima cifra stilistica per quanto
riguarda la scelta dei temi, che non di rado riportano alle Marchin’ Bands
di New Orleans, al Folk Internazionale e alle marce dell’Esercito della
Salvezza.
Una volta
trascurata e confusa, la discografia di Albert Ayler è oggi in ottimo stato.
Se i titoli più rappresentativi del periodo "classico" sono Witches
And Devils, Bells, Prophecy e Spiritual Unity, ci corre l’obbligo di segnalare
la nostra predilezione per il completo e vario Live In Greenwich Village:
un doppio CD che mette insieme il classico album del 1967 In Greenwich
Village e il successivo The Village Concerts, doppio in vinile pubblicato
nel 1978; qui diremmo bello e istruttivo mettere a confronto le note di
copertina di Nat Hentoff apparse "in tempo reale" sul primo album
con quelle scritte da Robert Palmer a corredo del secondo; laddove Palmer
storicizza la componente
"religiosa" della musica di Ayler inserendola in un contesto culturale,
e cerca di refutare la lettura (a suo dire riduttiva) della musica di Ayler
fatta da un altro grande innovatore quale Anthony Braxton.
Originariamente
pubblicato nel 1967, il già citato In Greenwich Village fu il primo album
che Ayler incise per la Impulse!. A dispetto dei bei colori strumentali
(su tutto le percussioni di Milford Graves), il successivo Love Cry (stesso
anno) lasciò perplessi per il nuovo valore "autonomo" acquisito
dai temi sulla facciata uno. Ma le perplessità furono niente a confronto
di quelle suscitate dagli album successivi, New Grass (1968) e Music Is
The Healing Force Of The Universe (1969): laddove il primo sembrava recuperare
antiche radici R&B, il secondo appariva perdere del tutto il senso
della direzione e ambedue facevano uso della voce e dei testi (molto "pace & amore",
come costume dell’epoca) di Mary Parks, all’epoca compagna di vita di Ayler.
E il fatto che il sassofonista morisse di lì a poco (nel 1970, e il suo
pare ormai al di là di ogni ragionevole dubbio un annegamento da suicidio)
non contribuì certo a una diversa lettura delle cose.
Se è
quindi il primo Ayler quello di cui l’avanguardia ha fatto tesoro, e se
alcuni dei suoi riconoscibilissimi temi – su tutti Ghosts – sono stati
ripresi più volte, gli ultimi due album da lui incisi sono a lungo rimasti
nel limbo. Fosse andato fuori di testa per LSD o altro, avesse fatto un
grossolano calcolo commerciale o avesse tentato un’ardita commistione di
generi senza possedere il necessario sguardo in grado di abbracciare tutto
l’insieme, è questione ancora oggi aperta. Va inoltre ricordato che la
figura di musicista "a retroterra multiplo" oggi relativamente
comune era a quei tempi piuttosto rara: è fuor di dubbio che Ayler avrebbe
oggi a disposizione forze più idonee a realizzare i suoi disegni.
Fummo
quindi alquanto stupiti nell’apprendere – lo scorso anno, per bocca di
Mike Keneally – che un album-omaggio ad Albert Ayler che era appena stato
inciso si era concentrato sulla musica degli ultimi tre album (per la precisione:
il solo Universal Indians è tratto da Love Cry, il resto del CD attingendo
a piene mani dagli altri due). La formazione varia e bizzarra, l’entusiasmo
dei partecipanti decisamente palpabile, decidemmo di ascoltare subito il
tutto. E anche se
"subito" in questo caso ha voluto dire che più di un anno è passato
da allora (eh sì, i tempi sono davvero cambiati…), diremmo che l’attesa
è stato ricompensata.
Si diceva
della formazione. Henry Kaiser e Mike Keneally sono nomi che non necessitano
certo di presentazione; data per scontata la nota versatilità di Kaiser
alla chitarra, va sottolineato il fatto che Keneally è qui principalmente
– ma non esclusivamente: ci sono dei bei momenti all’elettrica, e anche
qualche uscita vocale – pianista; cosa per noi strana – il pianoforte non
è certo lo strumento che ci viene in mente quando pensiamo ad Albert Ayler
– ma che ci ha dato la gradita opportunità di ascoltare il piano di Keneally
in un contesto diverso dal solito. Diremmo sufficientemente noto il nome
del chitarrista (qui anche contrabbassista) Joe Morris. Un moderno gigante
degli strumenti a fiato, Vinny Golia ha logicamente una parte decisiva
per la buona riuscita dell’album.
Dobbiamo
ammettere di non aver mai ascoltato in precedenza il lavoro del contrabbassista
Damon Smith e della cantante Aurora Josephson, che a giudicare dalle performance
su questo album diremmo di buona levatura. Alla batteria c’è Weasel Walter,
(s)conosciuto ai più quale leader del collettivo statunitense a formazione
variabile denominato Flying Luttenbachers: un gruppo la cui connotazione "post-ayleriana" da
parte dei suoi vociferi sostenitori ci era sempre parsa riflettere più
la buona volontà dei musicisti (e la
"conoscenza selettiva" da parte dei loro fan) che la bontà dei
risultati ottenuti; qui il musicista se la cava davvero bene, confermando
la buona impressione fattaci qualche anno fa in occasione di un concerto
dei Flying Luttenbachers in trio; strano concerto, tra l’altro: ottimo contrabbassista
(sia pizzicato che arco), e sassofonista con evidenti problemi di intonazione.
Facile
da immaginare già scorrendo la lista dei musicisti coinvolti, il polistilismo
dell’album viene immediatamente fuori con l’ascolto diretto. Da parte nostra
avremmo preferito una copertina che indicasse con maggiore precisione l’apporto
strumentale di ognuno, ma qui i pareri sono fatalmente destinati a variare.
Certo, i critici devono saper distinguere tutto… ma l’ascoltatore che
(ci auguriamo!) ha comprato il CD? Registrazione buona, con un feel live
che non esclude l’uso di sovraincisioni.
L’album
si apre con un medley tra New New Grass – diremmo due sassofoni sovraincisi
(tenore e basso) e due contrabbassi(sti) – e Message From Albert, con le
voci di Keneally e della Josephson e un bell’unisono tematico pianoforte-chitarra.
Nei suoi
oltre venti minuti di durata, Music Is The Healing Force Of The Universe
sembra ben condensare (!) molto dello spirito dell’album. Un bell’attacco
di sax tenore (diremmo una via di mezzo tra Ayler e il primo Gato Barbieri,
quello della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e di Escalator
Over The Hill di Carla Bley), batteria suonata con le spazzole, pianoforte,
contrabbasso, melodia a voce spiegata. Ottimo assolo di sassofono con sfondo
di piano, entrata di voce, buon assolo di Joe Morris a 4′ 28", un
nuovo interludio vocale, di nuovo il sassofono, di nuovo la voce, quasi
nuda; poi a 11′ 09"
un bell’assolo di Kaiser ben sostenuto da piano, sassofono, batteria e contrabbasso;
di nuovo la voce, poi a 14′ 10" parte un assolo di chitarra (sovrainciso)
di Keneally. Tema e chiusa.
Il terzo
brano è un medley di Japan e di Universal Indians. Apre una scala
"orientale" della voce con dietro piano, basso e batteria; bel
tema esposto al tenore da Golia, ottimo assolo di sassofono (diremmo due),
con due chitarre acustiche in veste "subliminale"; torna la voce,
e salgono le acustiche, cui si affiancano le elettriche in una versione "cicale
della giungla". Chiude un tema enfatico eseguito in "tutti".
A Man
Is Like A Tree apre con un "pedale" di sassofono e contrabbasso,
chitarre "etniche" slide di Kaiser, lenta melodia con testo per
due voci; esplosivo assolo "multiplo" di Kaiser a 2′ 29".
Ripresa del tema, e "pedale" del gruppo.
La lunga
Oh! Love Of Life ha un bell’attacco di batteria "pesante e cadenzato",
poi chitarra, sax soprano, voce femminile e chitarre
"esplosive". Curiosa l’atmosfera che si viene a creare allorquando
la voce dice "Do You Hear Me Calling": basterebbe aggiungere delle
modulazioni sul filtro di un paio di VCS3 per ottenere qualcosa di non troppo
distante dai Gong! A 2′ 40" parte un assolo di Keneally sostenuto dalla
batteria che ci ha molto ricordato un solo che Frank Zappa eseguì a Roma
nel 1988 in serrato dialogo con la batteria di Chad Wackerman; al confronto
Walter è un po’ "seduto", ma va bene lo stesso. Dopo un lungo feedback
rientrano voce, sax soprano e chitarra, poi a 4′ 28" un altro assolo
di chitarra – e dal vibrato ci è parso Kaiser. A circa 9′ un momento "solo" della
batteria con bella suddivisione ritmica, e ritorno della voce, che su un
tappeto così cadenzato ci ha per un attimo ricordato certe pagine di Haco
e degli After Dinner.
Thank
God For Women ha un inizio "rumoristico", poi un arpeggio di
piano e un’aria quasi da "commedia musicale" ci portano a una
canzoncina lieve a due voci che non sarebbe stata fuori posto su un album
di Keneally quale hat..
Heart
Love ha un attacco assai strano, cupo e dark (qui il gruppo di riferimento
non è presente nella nostra collezione mentale). Segue un tema vocale femminile
che è quasi una ninna-nanna. Segue "swing" con il flauto a metà
strada tra Eric Dophy e Roland Kirk, di nuovo il pezzetto dark, di nuovo
la ninna-nanna; poi a 4′ 40" un attacco di batteria, ed è di nuovo
il momento swing, stavolta con assolo di chitarra di Joe Morris. Chiusa.
Troppo composito per essere davvero convincente.
New Generation
parte con un attacco di pianoforte, più batteria, chitarra e contrabbasso,
che è puro Beefheart! Bellissimo l’assolo di sax soprano. Poi, a 1′ 16",
c’è un attacco cadenzato ed è… Kim Gordon! Non letteralmente, ma sembrano
proprio i Sonic Youth. Un "musical joke" che è già stanco fin
dalla prima volta. Segue un buon assolo di sax tenore, poi a 4′ 27"
torna "Beefheart", poi un altro buon assolo di sassofono. Mah!
Chiude
bene (dopo 79′ – è un CD bello tosto) il medley fra New Ghosts e New Message.
Apre un arpeggio di chitarra non poco Derek Bailey, e tema esposto dalla
voce femminile, con buon effetto. Segue un riuscito interludio con sax
soprano e contrabbassi. A circa 4′ fanno ritorno le chitarre acustiche
e la voce.
In chiusura,
due punti.
Il CD
ci è parso di buona qualità, stimolante anche nelle parti in cui ci è sembrato
non del tutto convincente. Stante la preparazione materiale decisamente
"instant" di cui ci parlò Keneally, la musica che ne è venuta fuori
è – specialmente al giorno d’oggi – di qualità decisamente poco comune. Dobbiamo
ammettere che le parti in cui è più evidente il messaggio
"spirituale" ci hanno lasciato un po’ così, per non dire peggio.
Ma questo fa parte delle coordinate del progetto, per cui prendere o lasciare.
L’altro
motivo di perplessità ci pare molto più serio. Un album come questo, già
di tutt’altro che semplice decifrazione per quanto riguarda i numerosi
rimandi musicali, si pone come rilettura critica di un periodo della produzione
discografica di Ayler già controverso di suo. Possibile che il CD non senta
il bisogno di offrire uno straccio di documentazione (anche di parte!)
sull’intera questione? O si dà qui per scontato che l’ascoltatore debba
venire
"illuminato" (ahi!) dall’ascolto? La questione diventa ancora più
strana allorquando ci si soffermi a considerare che sarà proprio l’acquirente
($$$) a trovarsi privo di supporto; mentre è palese che chi ne scriverà in
veste minimamente "professionale" (mai come oggi le virgolette
sono d’obbligo) avrà ricevuto insieme alla sua copia promozionale un bel
malloppo a stampa al quale attingere liberamente "in caso di necessità".
Ciò detto,
ribadiamo: un CD stimolante che vale davvero un ascolto.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2007
CloudsandClocks.net | Nov. 2, 2007