Intervista
a
Fabrizio Spera
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di Beppe Colli
June 17, 2003
Se il nome
di Fabrizio Spera non dirà molto ciò è solo in
ragione dello scarso spazio in genere dedicato alle musiche che lo vedono
ormai maturo protagonista. E qui basta elencare alcune delle sue più
recenti esperienze – la partecipazione al CD altrastrata dei Blast,
l’organico elettroacustico degli Ossatura, giunti con Verso al loro
secondo CD, l’orchestra che un paio di anni fa ben suonò materiale
di Sun Ra, il trio impro con Butcher e Edwards – per dare ragione della
versatilità dello strumentista.
Tipo cordiale
e simpatico, tra l’altro, nonché fiero di un retroterra "controculturale"
– vedi i festival e concerti organizzati in quel di Roma.
Qui di
seguito, lo scambio avvenuto tramite posta elettronica la scorsa settimana.
Innanzitutto
partirei dai Blast: com’è nata la vostra collaborazione?
Mi piace
vedere la nostra collaborazione come l’evolversi di una relazione di
stima e di amicizia iniziata già diversi anni fa.
Come molti
altri appassionati italiani, ho conosciuto i Blast in occasione dell’edizione
1990 del festival Mimi. Il gruppo, a quel tempo completamente sconosciuto
e ancora senza nessun disco prodotto, illustrava già con una
certa determinazione la sua prospettiva musicale: il linguaggio era
deliberatamente complesso, giocato al confine tra scrittura contemporanea
e rock progressivo, la pronuncia era secca e dichiarata, una sintesi
ben organizzata tra vecchi amori e nuova urgenza espressiva che attirò
notevolmente l’interesse del pubblico presente.
In seguito,
quando a Roma riusciamo finalmente a ribaltare una certa inattività
organizzativa (che aveva caratterizzato buona parte del decennio precedente),
dando così il via a una nuova attività concertistica,
i Blast sono il primo gruppo che presentiamo al pubblico romano. In
realtà la stessa scintilla stava dando frutti non solo a Roma,
e i Blast si troveranno a inaugurare l’attività di vari centri
e collettivi in diverse città italiane. I contatti con il gruppo
si mantengono costanti. Dirk Bruinsma, in particolare, parteciperà
a vari nostri incontri d’improvvisazione, e negli anni seguenti i Blast
torneranno a suonare con una certa continuità, sia a Roma che
in altre parti d’Italia.
Nel 1999
mi trovo a suonare con Ossatura al festival Musique Innovatrice di St.
Etienne; anche Dirk è in programma insieme a Paed Conca, con
il loro duo Otholiten; alcune conversazioni vertono sull’esigenza di
deviare il progetto Blast verso una forma probabilmente più aperta
sul piano della scrittura e dell’organizzazione musicale. I due assistono
al concerto di Ossatura e credo ne rimangono ben impressionati. Poco
tempo dopo l’incontro ricevo l’invito a partecipare alla nuova formazione
del gruppo. La proposta mi giunge realmente inaspettata. Negli anni,
il mio percorso si era principalmente definito sull’approfondimento
della pratica e della teoria dell’improvvisazione, mentre i Blast avevano
dimostrato un sempre più preciso interesse verso la scrittura
e la pre-determinazione di tutti i parametri compositivi e interpretativi.
Non senza qualche perplessità, e forse timore, accettai la sfida.
Il primo incontro avviene nel gennaio del 2000: una settimana di prove
(otto/nove ore al giorno) su un programma di musica completamente nuova,
poi un giro di una quindicina di concerti, nel corso del quale – tra
lunghe discussioni in treno e prove dal vivo praticamente giornaliere
– iniziamo a definire il nuovo percorso del gruppo.
Il nuovo
CD ha un lavoro sul suono che differisce molto dall’album precedente
del gruppo. Vuoi parlarne?
Il lavoro
precedente (A Sophisticated Face) rappresenta il culmine della fase
legata a quel tipo di scrittura complessa e applicazione rock. Per l’incisione
il gruppo era integrato da elementi di un ensemble da camera, la cui
strumentazione classica contribuiva ad alimentare il tono appunto sofisticato
di quella musica.
Oggi il
gruppo, benché ancora intenzionato a creare certe complessità,
decide di aprire le proprie forme e strutture a materiali e comportamenti
più eterogenei, dove l’interesse per il suono, il timbro, il
trattamento elettronico e un’orchestrazione più estesa assumono
un’importanza maggiore rispetto al passato. Parti rigidamente composte
si trovano spesso a dover convivere con zone di improvvisazione che
tendono a fornire un diverso respiro alla scrittura. La notazione tradizionale
combinata con input grafici e gestuali è il perno attorno al
quale il gruppo, dal vivo, regola in tempo reale la forma attraverso
la gestione diretta delle dinamiche dei tempi, delle masse, e forse
più che in passato, degli spazi.
Oggi la
materia è generalmente più instabile, ma paradossalmente
sembra aprire maggiori vie d’accesso in rapporto all’ascolto.
Mi pare
tu abbia fatto un discreto numero di concerti con i Blast. Con che materiale?
E con quale responso?
Non senza
fatica, il gruppo riesce ancora a dare, annualmente, un certo numero
di concerti. Fin dall’inizio questa formazione si è impegnata,
al fine di lavorare costantemente, su un programma di musica diversa.
Al momento
Blast opera su diverse possibilità. Il quartetto (Bruinsma, Crjins,
Conca, Spera) suona materiale tratto in parte dal CD combinato ad alcune
composizioni più recenti, non ancora documentate. C’è
poi il sestetto con l’aggiunta di voce e trombone; questo progetto,
in vita già dai primi mesi del 2002, vanta un repertorio piuttosto
esteso e che speriamo di riuscire a registrare nel corso del 2004.
Lo scorso
dicembre abbiamo incontrato la cantante turca Saadet Turkosz, con la
quale abbiamo suonato un concerto di improvvisazione: per la prima volta
Blast si incontrava nel giorno stesso del concerto, senza i soliti leggii-totem
e le voluminose partiture, ma solo con la disposizione al confronto
con il potere evocativo di una grande voce.
Per il
novembre del 2003 abbiamo in programma un lavoro insieme a un gruppo
di estrazione accademica, lo Spectra Ensemble. Si tratta di una commissione
del festival belga November Music, dove Dirk Bruinsma e Frank Crjins
presenteranno due composizioni basate sulle possibili interazioni tra
Blast (il quartetto) e il gruppo da camera.
Come ho
già detto, il nuovo materiale – anche se solo apparentemente
più ermetico e con minore impatto rock – lascia forse maggiori
chiavi interpretative, e il pubblico, soprattutto in concerto, sembra
reagire positivamente.
Capitolo
Ossatura. Come vedi la progressione del gruppo, alla luce del secondo
CD e dei concerti fatti finora?
Con il
nuovo CD crediamo di aver operato un passo ulteriore verso la definizione
del corpo sonoro del gruppo. Concretamente abbiamo avvertito l’esigenza
di lavorare con il minor materiale possibile. Il processo di riduzione
ha gradualmente visto l’eliminazione di buona parte del folto strumentario,
in qualche maniera ostentato, del primo CD. Strumenti tradizionali come
chitarre, batteria e tastiere sono stati messi da parte al fine di una
maggiore concentrazione sui dispositivi elettroacustici che ognuno di
noi ha elaborato e perfezionato nel corso degli anni. La musica di Verso
è cruda, la registrazione spoglia, eppure alcuni tratti profondi
– come costruzione, narrazione, organicità, complessità
– restano a nostro avviso intatti.
Nei concerti
dal vivo abbiamo espresso interesse verso una sorta di riequilibratura
tra suono elettronico e acustico. A volte azzeriamo improvvisamente
il volume dell’impianto e cerchiamo semplicemente di far risuonare
oggetti e strumenti nello spazio, qualunque esso sia: un teatro, uno
scantinato, una chiesa…
L’interesse
per il suono acustico credo troverà maggiore sviluppo nei prossimi
lavori, e probabilmente anche strumenti come il pianoforte e alcune
percussioni troveranno nuovamente spazio.
Quali
credi siano le caratteristiche che rendono distintiva la proposta di
Ossatura?
E’ difficile
formalizzare un tale pensiero. La tendenza alla critica e alla verifica
costante dei vari aspetti del lavoro è fortunatamente una caratteristica
innata del gruppo. Non abbiamo mai inteso la nostra musica come materia
obbediente a nessuna estetica precisa, i nostri interessi musicali sono
fortemente eterogenei, e anche passando attraverso i molti trattamenti
teorici e pratici che spesso operiamo, crediamo che il lavoro di Ossatura
tenda ad una prospettiva musicale ampia. Istintivamente sfuggiamo a
certe ortodossie, spesso infantili, della musica elettronica attuale
e allo stesso tempo non siamo un classico gruppo di improvvisazione
(soprattutto per ciò che riguarda i termini della documentazione
discografica). Ci interessa l’esperienza del gesto, del suono e del
vuoto che li precede, la riflessione e la critica che li sottintende.
Forse solo
qualcuno esterno al gruppo potrebbe azzardare ipotesi più dettagliate
al riguardo. Se a volte ho scoperto o riconosciuto aspetti peculiari
del mio lavoro, lo devo principalmente all’attenzione di qualcuno là
fuori.
Domanda
generale. Il "tipo di musica" (vado veloce) "elettronica/laptop",
con più o meno quantità di improvvisazione, vende molto
poco: com’è possibile che sempre più musicisti vi si dedichino?
Tutta la
musica prodotta oggi è ovviamente sotto il peso tecnico, estetico
e mercantile delle "nuove" tecnologie. La sempre più
veloce diffusione e disponibilità di tali mezzi produce spesso
un impiego affrettato e spesso non motivato da scelte consapevoli.
Anche in
ambito commerciale, l’apparente interesse diffuso per il suono e i suoi
spettri, a discapito della banale identità melodica della vecchia
musica di consumo, sfortunatamente non contribuisce a delineare un quadro
minimamente più confortante.
Come del
resto abbiamo già verificato in passato, nel contesto di certe
arti e culture marginali, c’è sempre una fase in cui il profitto
non sembra essere il motore principale di tanta attività. Il
semplice riconoscersi parte di un movimento formalmente o addirittura
socialmente ben identificato rappresenta già un discreto traguardo.
Come al solito sarà il tempo a verificare l’autenticità
di tanto da farsi.
Non
so se mi sono distratto, ma credo che il CD che ripropone il concerto
con musiche di Sun Ra tenutosi a Roma due anni fa non sia ancora uscito.
Vuoi parlarmi di quella esperienza?
No, non
ti sei per nulla distratto. La registrazione del concerto dell’orchestra
Mondo Ra non è stata pubblicata, e giace in una sorta di letargo
dovuto a motivi diversi.
Per quanto
consideri l’esperienza dell’orchestra e del concerto ben riuscita sia
sul piano progettuale che musicale, non mi ritengo completamente soddisfatto
della qualità della registrazione e del missaggio di quella musica,
quindi istintivamente mi ritrovo a temporeggiare, sia con me stesso
che con gli eventuali possibili referenti di quel lavoro.
Non tutti
nell’orchestra sono così pessimisti, ma qui andrebbe a collocarsi
un dibattito più ampio sulle problematiche di gestione di un
gruppo di 15 persone.
Onestamente
credo che il lavoro sulla musica di Sun Ra elaborato dal nostro collettivo
non dovrebbe temere confronti con la maggior parte degli omaggi che
da qualche anno a oggi si sono prodotti in tutto il mondo. Frequento
la musica e il pensiero di Sun Ra da anni e il lavoro sull’orchestra
è il prodotto e in qualche modo la sfida nate da questa passione.
Mi piacerebbe
trovare nuove possibilità di riunire l’orchestra e di poter registrare
ancora, ma questo è tecnicamente e soprattutto economicamente
molto difficile… Staremo a vedere.
Recentemente
ho avuto modo di vedere John Butcher, che tra l’altro mi parlava del
trio con te e Edwards. Posso saperne di più?
Ho iniziato
a incontrare John Butcher nel giro dei vari festival europei, e l’idea
di suonare insieme si è così gradualmente insinuata tra
noi.
Il primo
incontro è avvenuto in occasione di un mio passaggio a Londra
un paio di anni fa. Veryan Weston mi aveva invitato, e proposto una
settimana di concerti con musicisti londinesi; quando mi chiese con
chi avrei voluto suonare, la mia prima risposta fu un trio con Butcher
e John Edwards, un altro musicista che frequento da anni e il cui grado
di evoluzione musicale è chiaro a tutti. Gli altri concerti proposti
da Weston furono un quartetto con Lol Coxhill, Rhodrie Davies e Marc
Wastell e un trio curiosissimo con Coxhill e Hugh Metcalfe. Il trio
con i due John fu bello, l’approccio fu così naturale per tutti
e tre che decidemmo di fare il tentativo di tenere in vita il gruppo.
Dopo un
secondo incontro a Roma in occasione della scorsa edizione del festival
Controindicazioni, nel febbraio del 2003 siamo riusciti finalmente a
organizzare un tour tra Belgio, Olanda e Francia. I risultati musicali
sono soddisfacenti, il suono del gruppo ha iniziato a farsi percepire
in maniera più profonda. Con loro ho deciso di concentrarmi solamente
sulla batteria: il suono del trio è acustico, e quando le condizioni
lo permettono e la concentrazione è quella giusta è un
piacere scoprire l’organicità del suono prodotto insieme. Speriamo
solo di trovare abbastanza concerti nel futuro per poter sviluppare
direzioni oltre il margine già ampio delle capacità individuali.
L’improvvisazione
"storica" in Europa: quale la scena, quali le prospettive?
Se per
"storica" intendiamo quella dei musicisti della prima generazione
(già attivi nella seconda metà degli anni sessanta) ho
la sensazione che questi musicisti si trovino nella fase naturale di
un riavvicinamento mentale alle proprie origini. Ognuno secondo modi
diversi tenta un approccio verso quelle radici che nel processo di estensione
e affermazione di una nuova identità furono strategicamente frenate.
Il suono
di Evan Parker, soprattutto al tenore, si distende e scopre sempre più
deliberatamente la sua origine coltraniana, e se al trio con Guy e Lytton
si aggiunge Marilyn Crispell al piano possiamo addirittura percepire
l’eco dell’intero ultimo gruppo del maestro. Se chiedi a Brötzmann
di svelarti le sue influenze, Lester Young e Coleman Hawkins saranno
i primi a essere menzionati. Derek Bailey incide un disco di ballads,
Paul Lovens suona con esplicito swing nell’omaggio a W.C. Handy di Aki
Takase e così via.
Non cito
i musicisti olandesi perché questi hanno da sempre espresso una
più disinvolta relazione con la tradizione jazzistica.
I giovani
su un altro piano: ostentano il silenzio, ricercano nel vuoto delle
cavità dei loro strumenti, sfruttano le risorse di campionatori
con memoria vuota e mixer senza nessuno strumento collegato in entrata.
Il free
jazz torna di moda, e contemporaneamente tutti si accorgono dell’importanza
di un gruppo come AMM.
Come vedi,
si tratta di un numero di informazioni e dettagli elevato, a volte questi
sono organizzabili secondo un percorso più o meno chiaro, in
altri casi la ricostruzione per linee generali risulta difficile e controversa.
A questo
punto vorrei che tu mi parlassi delle tue influenze formative, batteristiche
e non.
Ho iniziato
giovanissimo con il rock, ma fin dall’inizio ne sono stato attratto
secondo gli aspetti meno convenzionali: alle scenografie fasulle e agli
effetti stereotipati dei "grandi del rock" ho sempre preferito
la realtà, a volte un po’ polverosa, dei palchi pieni di strumenti
e cavi di gruppi come Henry Cow e Stormy Six. Proprio gli Henry Cow
(e tutto ciò che ne consegue) mi seppero comunicare prospettive
musicali aperte e nello stesso tempo determinanti.
Quando
sono poi entrato in contatto con il Jazz e la musica improvvisata, l’approccio
fu molto naturale, il contesto di allora favoriva molto più di
oggi il travaso di esperienze diverse, dove il problema stilistico non
era mai disgiunto dal piano della consapevolezza (non solo musicale)
di certe scelte. Dalla musica improvvisata a quella contemporanea, il
movimento fu – come ci si può immaginare – conseguente, e fortunatamente
mai inibitorio rispetto all’interesse per il Pop e la forma canzone.
Dal punto
di vista batteristico, la radice è ancora rintracciabile negli
anni sessanta, nel suono naturalmente riverberato e ricco di armonici
dei batteristi di quel periodo: Keith Moon, Robert Wyatt, certamente
Ed Blackwell, Elvin Jones, il primissimo Tony Williams – quello delle
incisioni Blue Note con Dolphy, Jackie Mc Lean e Andrew Hill.
Mi interessa
lo stile strumentale evolutosi in seno a un linguaggio musicale più
ampio; raramente mi appassiono a uno stile se slegato dalla musica che
ne giustifica certe peculiarità tecniche o espressive.
Ovviamente
Elvin Jones muove Coltrane, come John French alimenta Beefheart. Ho
sempre guardato con dubbio i batteristi rock che si danno al jazz, lo
fanno sempre trasmettendo un senso di insoddisfazione e inferiorità
del proprio ruolo.
A Milford
Graves e Paul Lovens affido i due poli nell’ambito di una certa evoluzione
"libera" dello strumento. Se poi torniamo trasversalmente
al linguaggio rock, non posso non citare Chris Cutler e Charles Hayward
– e dove mettiamo uno come Michael Vatcher? A questo punto devo fermarmi,
altrimenti c’è il rischio che l’elenco si riveli sempre più
dettagliato e noioso.
Generalizzando
un po’, potremmo dire che a partire dalla metà degli anni settanta
un pubblico discretamente attento e curioso ha accompagnato la nascita
e lo sviluppo di una musica "difficile" e in ogni caso fuori
dal consueto. Come vedi oggi la situazione da questo punto di vista?
Se in quegli
anni certe manifestazioni erano evidentemente frutto di un più
ampio e talvolta profondo coinvolgimento sul piano sociale e politico,
oggi si ha spesso la sensazione che "difficile" sia solo una
delle tante opzioni alle quali molto democraticamente possiamo accedere
e ovviamente rinnegare ai primi segnali di noia o stanchezza.
Può
suonare banale aggiungere che questo atteggiamento, controllato dal
mercato che sostiene la società in cui viviamo, non produce altro
che superficialità. Superficiale è, infatti, l’atteggiamento
di molta gente che ciclicamente decide di dedicarsi a certo intrattenimento
impegnato. Tutta questa approssimazione non può non alimentare
la precarietà e i rischi del contesto in cui tutti noi, con ruoli
diversi, ci troviamo a operare.
Stessa
domanda per ciò che concerne la stampa.
Promuovere
"arti difficili", scegliere di suonare uno strumento in maniera
non convenzionale, scrivere di musica di ricerca invece che di heavy
metal, sono ancora alcune delle opzioni attraverso
le quali possiamo alimentare il nostro status di persone intelligenti
e impegnate.
Tutte queste
attività, anche nella non completa autenticità di fondo,
potrebbero tuttavia dimostrare almeno una certa dignità di natura,
diciamo, professionale. In questo senso la stampa continua a dimostrare,
soprattutto in Italia, di essere la categoria forse più a rischio.
La quantità di stampa musicale "specializzata" a bassissimo
livello è altissima, quella che sul piano politico si definisce
di sinistra se non addirittura comunista continua a vivere il solito
problema storico della sottovalutazione del piano culturale, con una
grande aggravante proprio nel campo musicale.
In molti
casi, non solo ci troviamo di fronte a uno scrivere senza la pur minima
prospettiva, ma dobbiamo continuare a fare i conti con problemi di base
legati alla disinformazione, all’ignoranza e, ancor peggio, alla pretesa
di serietà da parte di chi scrive.
Che
fine ha fatto il jazz?
Molta della
musica che oggi ostenta la definizione di Jazz (a fini palesemente legati
all’identificazione istituzionale e di mercato) purtroppo ha ben poco
a che fare con i termini profondi di questa musica. La stessa cosa possiamo
dirla a proposito del Rock e di tutti quei linguaggi che dalla posizione
di subculture hanno gradualmente conquistato la fiducia istituzionale
e quindi la stima del grande pubblico. Al posto di segni originari,
come innovazione e ricerca, ora troviamo manierismo e restaurazione.
Storicamente
la critica ha teso a definire formalmente il jazz secondo i soliti stereotipi
– swing, drive, interplay etc. – e in tal senso potrei provocare dicendo
che oggi paradossalmente scopriremo il Jazz ogniqualvolta questo termine
sfugge alla possibilità di identificazione automatica secondo
quegli stereotipi, ovvero ogni volta che certa critica (attaccata alla
conservazione della "sua musica") dubita dell’autenticità
dell’oggetto. Forse, in quei casi, siamo di fronte a del buon jazz.
Cinque
artisti che suggeriresti di ascoltare.
Se non
ti dispiace, relativizzerei la domanda agli ultimi otto CD acquistati
che giacciono attualmente sul mio tavolo.
Morton Feldman – Late Works For Clarinet
Anthony Braxton – This Time
Jack Bruce – Songs For A Tailor
Toru Takemitsu – In An Autumn Garden (Kinshi Tsuruta,
biwa; Katsuya Yokohama, shakuhachi)
Captain Beefheart – Dust Sucker
Albert Ayler – The Copenhagen Tapes
Trevor Watts/Veryan Weston – 6 Dialogues
Tod Dockstader – Omniphony
© Beppe Colli 2003
CloudsandClocks.net
| June 17, 2003