Pensieri dalla
spiaggia
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di Beppe Colli
July 14, 2008
Riflettere sulla diffusione
odierna (già enorme, e nondimeno ancora crescente) dei moderni
"sistemi personali di ascolto" può solo portare alla conclusione
che tutto il dibattito concernente l’introduzione di nuovi standard tecnicamente
avanzati di registrazione/riproduzione quali il SA-CD e il DVD-A (almeno
per quanto riguarda l’aspetto specifico della loro ipotetica diffusione di
massa) sia ormai da consegnare alla storia. E’ ovvio che il "Progresso" non
si ferma qui, e di certo il dibattito sulla "lossless compression" avrà
ancora lunga vita. Ma al momento presente la cornice sembra ormai indubitabilmente
quella dell’individuo "on the move" in mille faccende affaccendato.
Laddove il sistema hi-fi, proprio per quel suo essere indissolubilmente legato
a un luogo fisico, ci appare sempre più quale oggetto del passato. E’ vero,
c’erano già stati sistemi portatili quali il Walkman (con la sua cassetta)
e il Discman (con il suo CD); ma in ambedue i casi si trattava di sistemi
costituzionalmente legati a un supporto fisico "solido". Mentre
oggi l’oggetto
"file" pare quasi rendere incorporea la musica facendone in molti
casi un’entità "usa e getta" che non di rado si presenta quale
mera appendice della misteriosa (e gratuita) vastità della Rete.
Fare una ricerca in Rete a proposito di nuovi titoli rimodellati
nei due formati "alti" (il SA-CD e il DVD-A), e di loro eventuali
recensioni, ci dice subito del fallimento di un paradigma industriale: quello
che ha tentato di vendere nuovamente "il Catalogo", ma riveduto
e corretto e a prezzi maggiorati; cosa già riuscita in precedenza in occasione
dell’ormai storico passaggio LP-CD.
Capita ancora, però, di tanto in tanto, di leggere qualcosa
di interessante a proposito della "traduzione" di un formato in
un altro, soprattutto se il gruppo in questione è celebre e di buone vendite.
Ed è proprio questo il caso di una (quasi) recente intervista al tecnico
del suono Nick Davis effettuata in occasione della pubblicazione in formato
SA-CD del catalogo dei Genesis. Intitolata His
Own Special Way, l’intervista è stata realizzata da Christian Gerhardts.
Anche se sono circostanze ampiamente note, fa sempre una
certa impressione leggere che, in conseguenza del fatto che le nuove edizioni
in SA-CD sarebbero andate a rimpiazzare quelle
denominate Definitive Edition Re-master, i missaggi originali sarebbero scomparsi
per sempre; e che quindi chi li aveva a cuore avrebbe dovuto tenersi ben
stretti i CD originali.
E il vinile? Afferma Nick Davis:
"Non credo che i primi CD" degli album dei Genesis "siano
buoni. Le edizioni rimasterizzate sono per lo più migliori. Alcuni fan preferiscono
ancora il vinile, ritengono che sia meglio dei CD, forse si è avuta più cura
nel trasferimento al vinile che nel trasferimento al CD, non lo so."
E fatto il proverbiale nodo al
fazzoletto ("ma com’è che di questa ‘sparizione dell’originale’ non
parla mai nessuno?") decidiamo di riflettere ancora un po’ su questo
supposto "ritorno al vinile".
Che la corrente (e
duratura?) "infatuazione di ritorno" per il vinile abbia molto
più a che fare con "l’amore per l’oggetto" che con questioni concernenti
"il suono" e "il calore" è cosa che diremmo indubitabile,
non foss’altro per il fatto che almeno il 99% (è una nostra stima prudenziale)
degli LP ristampati attualmente in circolazione e originariamente registrati
in analogico deriva con tutta evidenza da una matrice digitale. (Quale? Questa
è davvero una domanda interessante.)
E certo non saremo noi a sorprenderci se la questione
"vinile" diventa oggi per qualcuno un modo, seppur molto "di
nicchia", di sbarcare il lunario nell’attesa che la nave affondi del
tutto. Ma di recente ci è tornato in mente un periodo in cui, ricevendo per
motivi di lavoro ristampe in vinile da recensire, fummo colpiti dall’estrema
laconicità di molti esemplari per ciò che riguardava i nomi degli autori
dei pezzi (testi e musiche) e le edizioni musicali (il "publishing").
E’ sempre possibile ipotizzare che a monte ci fosse un accordo tra le parti
(che avrebbe visto i musicisti coinvolti ricevere quanto loro spettante?),
ma il fatto (di cui ci eravamo accorti quasi per caso) restava ben strano.
Ovviamente c’è tutta una lunga tradizione di falsi, bootleg, counterfeit
e via dicendo da tenere in debito conto. Ma è davvero possibile che la circostanza
che vede oggi in circolazione centinaia di ristampe in vinile su licenza
russa sembri strana solo a noi?
Chiunque senta il
bisogno di toccare con mano i danni causati dalla vuota retorica ha solo
da esaminare la controversia riguardante il prezzo dei CD, le case discografiche,
la liceità "sostanziale" dello scarico gratuito non autorizzato
dei file e similia. Come ci è già capitato di affermare in più di un’occasione,
le case discografiche sono senza alcun dubbio un’entità indifendibile. Sfortunatamente
questa circostanza ha fatto velo al fatto che in assenza di un modello di
compensazione la cui esistenza futura possa essere data per scontata oggi
non è solo il futuro dei grossi nomi a essere messo in gioco. Anzi, con bel
paradosso, è proprio il futuro di chi ha già un nome solido e spendibile
ad apparire più certo. Li diremmo discorsi noti.
Parimenti noto è il gusto per la controversia di Gene Simmons
dei Kiss, da sempre consapevole del fatto che quel che è
"controverso", e quindi non "banale", si traduce sovente
in pubblicità gratuita. Avendo letto nel corso degli anni un buon numero
di interviste a Simmons – sempre pronto a portare alle estreme conseguenze
un’affermazione mentre ne mostra il nesso con il senso comune – credevamo
di sapere cosa aspettarci da quelle da lui rilasciate nei mesi scorsi. Dobbiamo
invece ammettere di essere rimasti sorpresi da quanto d’accordo ci trovassimo
con lui in fatto di "relazioni industriali". Il lettore è quindi
invitato a cercare in Rete l’intervista intitolata Gene
Simmons: Into The Belly Of The Beast, effettuata da Elmo Keep per fasterlouder.com
e apparsa in data 20 February 2008.
Qui di seguito solo alcune delle
affermazioni della Keep:
"Siamo nel bel mezzo di una
discussione sul futuro dell’industria musicale. Io sono nel campo in favore
della rivoluzione digitale e di tutto quello che simbolizza: la morte della
casa discografica, il potere che torna nelle mani degli artisti." (…)
"I Radiohead lo stanno facendo – fare a meno della loro etichetta. Tutti
i soldi che la EMI avrebbe messo per registrare e pubblicare e promuovere
il loro nuovo album, 10 milioni – non importa quanti sono…" (…) "Quelli
che sono. Ora quei soldi sono disponibili per essere investiti in nuovi artisti,
è questo che dico. Ora possono investire quel denaro in nuovi talenti." (…) "Forse
questa repulsione per il fatto di pagare tutti quei soldi per i CD" (!!!) "deriva
dal fatto che le case discografiche ne hanno fatte di cotte e di crude per
tanto tempo."
E se invece alla fine il vero problema si rivelasse essere
non il costo eccessivo di qualcosa, ma l’affermarsi di una "bulimia
culturale" che per essere davvero tale non sopporta più di pagare per
alcunché?
"Il momento in
cui inserisco un CD nel drive del mio computer
per estrarne il contenuto è più o meno l’unica volta in cui lo ascolto. Dimmi
tutto quello che vuoi riguardo alla qualità sonora, all’oggetto fisico, io
ti parlo in termini di comodità. Di avere migliaia di pezzi a portata di
mouse. Della possibilità di ascoltare più musica che mai. E di leggere più
notizie che mai online."
Non si può certo dire che Bob
Lefsetz non sia capace di parlare forte e chiaro (la frase qui citata è
tratta da un suo pezzo intitolato Lee Abrams/Tribune apparso semi-recentemente
sul suo blog). E qui, proprio per la nettezza della frase, ci sentiremmo
di poter dire che viene fuori in tutta evidenza il problema del destino
dei giornali.
Procedendo per cerchi concentrici,
in parallelo alla crescente disponibilità di banda larga a prezzi accessibili
ai più, e avendo come sfondo il moltiplicarsi delle possibilità di scelta
(gratuita) vissuto come "empowerment", era evidente che la questione
"musica" sarebbe stata seguita dalla questione "cinema".
Ma chi avrebbe mai pensato a una possibile bulimia di news?
Sappiamo tutti dei costi crescenti
(carta, trasporti) sostenuti dai giornali e della loro "piccola pubblicità"
(compravendite, incontri) che migra in Rete. Osservatori qualificati ci comunicano
uno "sguardo dall’interno" (c’è la bella rubrica di Jon
Fine intitolata Media Centric che appare ogni settimana su Business Week;
segnaliamo un recente articolo sul futuro dei quotidiani datato June 23,
2008 intitolato The Daily Shrinking Planet). Ma le notizie costano, e avere
una quantità crescente di notizie in una cornice di introiti calanti non
è proprio possibile. Qui è evidente che si procede tutti un po’ a tentoni,
con i quotidiani intenti a fornire servizi filmati di stampo televisivo,
notizie lette, podcast e simili, estratti sonori, spezzoni di film e blog
evidentemente creati allo scopo di "fidelizzare" il lettore.
Ma quale lettore? Se il problema è solo di diversa
"piattaforma", esso scompare: si pagherà per un giornale
"virtuale" allo stesso modo in cui oggi si paga per un giornale
"fisico". Diverso il caso di un giornale gratuito "offerto
dai nostri sponsor". Qui la deriva della televisione occidentale, i
problemi finanziari del servizio pubblico, l’attacco al quale quest’ultimo
è stato sottoposto, sono conoscenza comune. Parimenti intuitivi, diremmo,
il grado di difficoltà di comprensione e il costo non indifferente di un
servizio giornalistico degno di questo nome che abbia quale tema "Perché
sale il prezzo del petrolio".
Giusto per spaventare il lettore, è possibile tracciare
uno svelto parallelo tra il destino dei giornali che trattano di musica e
quello dei giornali di notizie, laddove i primi hanno da tempo sostituito
all’accuratezza critica la "valanga" ("Più di 300 recensioni!")
che si rifiuta di scegliere (si noterà che tocchiamo questo tema con mano
leggera).
Se è concesso un piccolo
intermezzo di natura "divertente" (ma attenzione, è sempre meglio
tenere a portata di mano un potente antiulcera), è sufficiente essere da
molto tempo lettori di giornali che trattano di musica per essere in grado
di notare che:
a) dopo tanti anni di assoluto consenso, è ovvio che continuare
a definire What’s Going On il "leggendario capolavoro" di Marvin
Gaye viene a noia; sostituire quindi a piacere con Let’s Get It On o (per
i più audaci) Here, My Dear;
b) ci sono tanti gruppi ritenuti oggi "impresentabili"
(vedi i Jethro Tull), ma le pagine vanno riempite tutte ogni mese; un bel
trucco è quello di rivalutare "un album ingiustamente misconosciuto",
magnificando This Was – ma in versione Mono!
c) all’occorrenza si può dir bene di album che – a dispetto
della notorietà del titolare – nessuno all’epoca volle notare; un buon esempio
è l’esordio solista di Walter Becker di quattordici anni fa – e rivalutato
oggi, giusto al momento della pubblicazione del suo nuovo album solo;
d) non esiste persona più carente di argomenti di quella
che definisce un brano o un album come "impossibly rare".
Sappiamo tutti, ormai,
quale splendida occasione di comunicazione e dialogo possa essere la Rete.
Non diremmo che a tutti sia altrettanto chiaro, però, il pericolo di una
banalizzazione della comunicazione stessa.
E’ ovvio che in un mondo sovrabbondante di fatti spesso
l’unica speranza di essere visti è quella di creare un fatto più grosso.
Da cui anche quelle riunioni di musicisti, quel riprendere in mano un repertorio
leggendario (con o senza le virgolette), quel provare a credere (illudersi?)
che in un senso preciso e importante il tempo non sia passato.
Ma qui, nell’epoca del reality e della "confessione
in pubblico", il rischio è un altro: quello di vedersi arrivare addosso
"Road Diaries", impressioni di viaggio, "i fatti dietro le
canzoni", "scrivo queste righe mentre mangio una baguette a Venezia",
"il mio primo divorzio" e cose simili, complice quella corda potenzialmente
fatale rappresentata da fenomeni come MySpace. Mentre c’è chi ritiene necessario "donare
al pubblico" quanti più provini, facciate B, inediti, soundcheck, riflessioni
sia possibile (e c’è chi, tra il pubblico, è pronto a tacciare di avarizia
l’artista che non si conforma a questo schema).
Non è nostra intenzione riproporre gli schemi di comunicazione
di una volta, adottati da "gente qualunque" quale Dylan, Beatles,
Stones, Zappa, Fogerty; schemi a noi cari ma ormai forse improponibili. Ma
può un’arte totalmente esposta alla vista diventare mai
"larger than life"?
© Beppe Colli 2008
CloudsandClocks.net | July
14, 2008