Fracture
Fracture
(Setola di maiale)
Da quella
magica "scatola delle sorprese" che è la nostra cassetta della
posta stavolta salta fuori una sorpresa che più sorpresa non si può: un "Italian
power trio" (precisiamo tra un istante) che sembra giungere dal passato
portando con sé musica sorprendentemente fresca. Confezione spartana, e
un titolo (è anche il nome del gruppo) cui fa da spiritoso pendant l’immagine
di copertina (un ginocchio?). Ma basta scorrere i nomi dei musicisti e
leggere quello del chitarrista Luciano Margorani per ipotizzare che al
nome prescelto non debba essere estranea un’eco crimsoniana. Sarà vero?
Ci disponiamo all’ascolto.
Sorprende
non poco leggere in copertina che quest’album è stato registrato (bene,
in studio, da Davide Lasala ed Emiliano Baragiola) in sole tre ore e che
tutti i brani sono stati "liberamente improvvisati (o spontaneamente
composti)"
dai tre musicisti, ai quali non deve evidentemente fare difetto una certa
dose di telepatia, tanto sembrano programmati certi millimetrici "stop" e
certi repentini cambi d’atmosfera. Se Margorani è per chi scrive una vecchia
conoscenza, e in più contesti, questa è la prima volta che incontriamo il
bassista (elettrico) Luca Pissavini e il batterista Andrea Quattrini, buoni
strumentisti.
Aleggia
un’aria che non è difficile definire "Rock in Opposition", circostanza
che visti i trascorsi di Margorani non potrà sorprendere. Per precisare
la cornice di riferimento si potrebbero citare nomi quali i Massacre (un
altro trio), e (in misura decisamente minore) i Last Exit (a tratti il
basso ci suonava come se Bill Laswell eseguisse le proprie idee sullo strumento
di Jack Bruce). Non mancano rimandi al Robert Fripp "classico",
fa di tanto in tanto capolino un’esuberanza che potrebbe essere riferita
a un chitarrista quale René Lussier. Ma attenzione: questi nomi vengono
qui citati solo per dire che questa è musica che ha una storia, non per
sottolineare quanto essa sia derivativa. Curiosamente, è una musica che
dieci o vent’anni fa avremmo definito "fuori tempo", nel senso
(tecnico) di
"vecchia", ma che oggi – e proprio per le stesse ragioni – non
possiamo che definire "senza tempo", nel senso di "classica".
O, se vogliamo, il caso dell’autobus che passa due volte.
L’ultima
cosa che poteva essere detta di Margorani era di essere un chitarrista
mediocre, ma qui il musicista ci è sembrato suonare più sciolto e
"chiaro" di come lo ricordavamo; la convinzione di solito non gli
fa difetto – questo al di là dei risultati -, ma la dimensione "nuda"
del trio sembra trovarlo qui decisamente in forma. Pissavini è indubbiamente
un buon bassista, e il suo apporto da secondo strumento solista – riff, contrappunti,
linee melodiche distorte – è senz’altro degno di lode. Più
"caffeinica" (e – a tratti – "cutleriana") l’impostazione
batteristica di Quattrini, secca e vivace, con buon uso dei piatti e una
cordiera del rullante che rivela un tocco felice (ma è un raro piacere, ché
spesso prevale un "bìng" che associamo solitamente ai rullanti
in ottone).
L’album
è vario e sorprendentemente accessibile (chi trova gli assolo di Jimi Hendrix
"autoindulgenti" si esclude da sé). Anche se siamo coscienti delle
difficoltà del momento, ci piacerebbe che l’ascolto facesse da apripista
a un buon numero di concerti (possibilmente al di fuori del "circuito
della nostalgia", ma qui forse chiediamo veramente troppo).
Un veloce
dettaglio.
Vendetta!
ha un inizio chiaro – tre colpi di bacchette, cassa, rullante -, rimandi
frithiani, bella grinta da parte del trio, momenti "telepatici" nello
svolgimento e un rarissimo ricordo blues (Gary Green?) (6′ 20" – 6′
30" ca.).
Pedali
di basso e frammenti radio introducono Radiodramma, con tema non poco frippiano
e rimandi a The Talking Drum. Bella uscita ("canadese"? – è a
5′ 49") di Margorani.
Tempo
e basso "walking" sono ovvi elementi per Toilet Jazz, con chitarra
in accordi ed efficace uso del plettro. (Pur coscienti che rivolgere questo
appunto a dei musicisti ci espone al rischio di ricevere in regalo il volume
Il ritmo in dieci lezioni, non possiamo non notare che in più punti sull’album
basso e batteria sembrano sincronizzasi più sulla chitarra che tra di loro,
con una "pulsazione" che a tratti abbiamo trovato "indecisa".)
Parassita
suona non poco "etnica", con plettro dietro il ponte, armonici
con eco, percussioni; il brano prende gradualmente vita, con echi e piatti
in evidenza.
Half
Past Nine inizia "spaziale", con qualche ricordo floydiano (Ummagumma?).
Poi la batteria imposta il tempo, tema per basso distorto con accompagnamento
di chitarra, una bella performance.
Complotto
sfrutta bene una lunga prima parte con accordatura – prima per armonici,
poi per accordi – degli strumenti. Basso melodico-tematico, chitarra
"rumorista", un momento frippiano (a 5′ 50"), bella entrata
di eco "stretto", batteria serrata, e una decisa accelerazione
(a partire da 10′) a portare il brano a un’efficace conclusione.
Definiremmo
Blackswanbat "doom metal" – se solo sapessimo cos’è! In ogni
caso, un mid-tempo "rumoristico" che porta l’album a conclusione.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2011
CloudsandClocks.net
| Sept. 19, 2011