Quattro anni
dopo
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di Beppe Colli
Nov. 24, 2006
Incredibile ma vero,
il prossimo 26 novembre segna l’inizio del quinto anno di vita di Clouds
and Clocks. Un’occasione da festeggiare? Dipende dal punto di vista. Ci
divertiamo ancora a farlo? Beh,
"divertimento" non è certo la parola più appropriata, ma non riusciamo
a scorgere all’orizzonte alcuna aria di smobilitazione. Abbiamo mantenuto
le promesse fatte a noi stessi e agli altri al momento del nostro primo editoriale?
Questa è una cosa sulla quale ognuno dovrà necessariamente giudicare da sé.
Cosa è cambiato in questi quattro anni? Ecco, questa è una domanda interessante
alla quale proveremo a rispondere per esteso.
Cominciamo con il
dire cosa è cambiato per chi scrive. Innanzitutto non abbiamo più rinnovato
l’abbonamento a una mezza dozzina di giornali: uno "virtuale",
gli altri cartacei. Per quanto riguarda il quotidiano virtuale (Salon) il
caso è semplice: per problemi vari (ma che immaginiamo essere stati innanzitutto
di natura economica) il giornale ha ampliato la parte che meno ci interessava
e contratto quella che ci interessava di più; e molte tra le firme per noi
più stimolanti sono sparite. Caso chiuso. Per gli altri – tutti mensili cartacei
– le questioni sono diverse. Per quanto riguarda il più recente mancato rinnovo
diremmo senza esitazione che esiste una soglia oltre la quale il marchettificio
accoppiato a una crescente approssimazione nello svolgere anche il lavoro
più terra terra (i grandi si stufano o vanno a fare altro, e i ragazzi mal
pagati giunti a rimpiazzarli sono del tipo che non sa neppure collocare temporalmente
Napoleone e Giulio Cesare) diventa non più tollerabile. Fuori uno. Per testate
di natura "tecnica" quali Guitar Player, Bass Player e Keyboard
la faccenda è molto diversa: siamo ultrasicuri che i rispettivi direttori
stanno facendo tutto quello che è umanamente possibile alle condizioni presenti,
ma evidentemente non ci siamo (e poi la situazione diventa quella classica
del cane che si morde la coda: "i lettori questo chiedono e noi questo
diamo"
– epperò poi i lettori trovano le stesse cose gratis in Rete, e allora…).
Passiamo all’edicola. L’edizione europea del settimanale
statunitense di economia Business Week non esiste più dallo scorso dicembre.
Rolling Stone non è più valido neppure come osservatorio sulle cose mainstream
(ci vergogniamo non poco a dover precisare che parliamo dell’edizione Made
in U.S.A.). Due le testate che, pur tra mille problemi, ci sembrano ancora
ben assolvere al loro compito: Down Beat e Mojo. Si tratta, è evidente, di
un equilibrio precario e dal futuro incerto. Il giornale cartaceo ha costituito
un esperimento storicamente riuscito di mettere in contatto informazioni
e lettori, e in teoria non esistono motivi per cui la cosa non possa essere
replicabile in Rete (un esperimento interessante è costituito dalle formule
"miste" messe a disposizione da Sound on Sound). Ma la realtà è
ben diversa, innanzitutto per quello che riguarda la raccolta pubblicitaria
e il suo corollario: la terribile "questione paghe". Il discrimine
ci pare oggi essere quanto un pubblico (di varia grandezza, ma che paragonato
al totale è sempre) di nicchia continuerà a possedere quelle caratteristiche
"altre" (per tipo e – soprattutto – profondità di interesse) che
lo spingono a desiderare, richiedere e remunerare l’approfondimento (qui
dovrebbe essere davvero inutile specificare che parliamo di "approfondimento
di qualità"
e non di numero di pagine, ma con i tempi che corrono…).
Di recente ci è capitata
una coincidenza davvero curiosa. Da un lato, un caro amico ci ha inviato
delle scansioni di recensioni discografiche apparse su un settimanale italiano
(Ciao 2001, che non ci risulta sia ritenuto una pietra miliare del giornalismo
musicale) all’incirca trentacinque anni fa. Curioso leggere quelle cose a
volte ingenue (e con le quali chi scriveva si sforzava di rendere comprensibili,
innanzitutto a se stesso, realtà la cui distanza allora davvero siderale
è oggi di difficile percezione) ma che rivelavano uno sforzo critico e una
serietà del compito davvero "d’altri tempi". Quasi in contemporanea,
un’amica ci scriveva di aver appreso della prossima ristampa di tre pregevoli
album di Joni Mitchell di metà anni settanta (Court And Spark, The Hissing
Of Summer Lawns e Hejira); in conseguenza di ciò, aveva letto (diremmo per
la prima volta, data la sua età) una gran quantità di recensioni e articoli
apparsi su giornali dell’epoca (tutti liberamente consultabili nell’archivio
del sito dedicato alla Mitchell), rimanendone assolutamente sorpresa: "Com’è
possibile", ci scriveva, "che la critica odierna sia caduta così
in basso?" (che nella sua semplicità è davvero una bella domanda).
Come è cambiato in
questi anni il rapporto tra chi scrive e la Rete? Qui un esempio è ben in
grado di illustrare la cosa. Quando quasi dieci anni or sono acquistammo
il libro di George Ritzer intitolato Il mondo alla McDonald’s, allora fresco
d’uscita, fummo alquanto rattristati di non essere in grado di sapere di
più a proposito di cose cui l’autore faceva riferimento. Cosa aveva detto
Fredric Jameson nel suo saggio Postmodernism, Or The Cultural Logic Of The
Late Capitalism? E com’era fatto questo Hotel Bonaventure di Los Angeles
ideato dall’architetto John Portman? Oggi queste domande (e migliaia di altre)
sono tutte a portata di mouse. (Da cui la nostra incredulità quando qualcuno
ci comunica che da quando ha il computer non legge più.) Andiamo oltre il
testo scritto? Ci sono documentazioni sonore su (quasi) qualsiasi cosa (posto
che qualcuno abbia avuto l’idea di registrarla all’epoca dei fatti).
Ma è forse questo
il modo in cui gli utenti si rapportano alla Rete? Conosciamo già la risposta.
(Elementi decisamente utili a fornire uno sfondo indispensabile alle questioni
di cui stiamo dicendo possono venire dal digitare "George Ritzer",
"Zygmunt Bauman", "Neil Postman" e – soprattutto con
riferimento al suo libro intitolato Bowling Alone – "Robert Putnam" e
aggiungere "interview". Per Giovanni Sartori e il suo Homo videns
si può fare un salto in libreria.)
Che relazionarsi al maggior numero possibile di stimoli
sia un’assoluta priorità per il nostro "utente tipico" odierno
è cosa che va da sé. Che un enorme accrescimento delle possibilità di scelta,
soprattutto se a basso costo, venga vissuto dall’utente come un "empowerment" è
assodato. Che la cosa provochi come conseguenza una drastica semplificazione
del paesaggio pare assolutamente indubbio ("nel tempo che mi ci vuole
a capire un CD dei tuoi ne sento cinque dei miei"). La soddisfazione
ricercata è istantanea, la capacità di verbalizzare assente. Detto in due
parole, lo sfondo è questo.
Confermando quello che sapevamo già – e cioè che il progresso
tecnico è motore primo del cambiamento – la dimensione visiva conseguente
all’accresciuta disponibilità della banda larga (parliamo di cose quali MySpace
e YouTube) ha messo totalmente in secondo piano la questione
"musica" (chi si ricorda più del diritto d’autore?). Di più: travolti
dalla velocità degli eventi (e, certamente, abituati a scrivere la prima
cosa che passa loro per la testa sicuri di non rischiare mai il licenziamento)
anche molti commentatori sposano allegramente la tesi dell’empowerment. Chiediamo
loro: chi sceglierà di spendere dei soldi per noleggiare un pianoforte gran
coda, uno studio e dei microfoni "come si deve" se poi tutto questo
dovrà, spariti i CD, finire necessariamente su un file supercompresso da
scaricare dalla Rete? Non è questo, già oggi, un impoverimento? E discutere
di queste cose "de visu" rischia di diventare un’esperienza in
grado di provocare ulcere sanguinanti.
Visto dalla parte
dei musicisti lo scenario è ovviamente apocalittico. Le possibilità di guadagno
per i musicisti più "commerciali" sono ovviamente subordinate a
sponsorizzazioni, siano essere palesi o occulte (occhio ai testi e ai video).
Forse è difficile, nel panorama odierno, provar pena per musicisti milionari
(ma perché dovremmo provarne per chi scarica musica e destina quello che
ha a bevande e abbigliamento?) o per chi confidava in una vecchiaia – se
non ricca, diciamo serena – garantita da un dignitoso catalogo. Ma il pensiero
va a tutti i musicisti (di quanti di loro possediamo i dischi!) che vediamo
costretti a fare concerti davvero poco coerenti con la loro storia. Per tacere
di quegli squallidi personaggi che per i motivi più vari si trovano a gestire
somme appannaggio di enti pubblici e con i quali, facendo di necessità virtù,
tanti musicisti sono spesso costretti a venire a patti.
Insomma, la situazione
non è rosea. E pare ormai indubitabile il carattere di "singolarità"
di quegli "anni sessanta" (diciamo il decennio ’64-’74) che alcuni
vollero primo capitolo di una storia tutta da venire.
Chiusura malinconica, scenario difficile. Ma nessuno ci
aveva garantito che sarebbe stato facile, giusto?
© Beppe Colli 2006
CloudsandClocks.net | Nov.
24, 2006