Ben Folds
Songs for Silverman
(Epic)
Curioso
e non poco stimolante riflettere sul tragitto dello strumento pianoforte
nel corso del 20° secolo, e poi notare che la progressiva eclisse
dello strumento va di pari passo (o è rispecchiata da, o si trova
in rapporto di reciproca implicazione con) con l’appannarsi di quelle
tradizioni musicali il cui linguaggio passava attraverso le mani di
chi quel pianoforte suonava. Classica e jazz, ovvio. Ma anche il blues,
Otis Spann, Little Richard e Jerry Lee Lewis, New Orleans, il gospel,
Ray Charles e Aretha Franklin. E poi le sintesi dei Beatles, le melodie
di Bacharach, l’America vista dagli UK degli Stones e di Nicky Hopkins,
le miscele progressive, i cantautori e via dicendo. E poi i miglioramenti
dell’amplificazione del pianoforte dal vivo, i microfoni a contatto
e i tentativi di onorevole compromesso (qualcuno ricorda lo Yamaha CP80?).
Mentre
gli anni settanta possono senz’altro essere definiti il decennio del
pianoforte, negli anni ottanta del Fairlight e delle drum machine Bruce
Hornsby è in fondo un caso isolato. E negli anni novanta – decennio
(chitarristico) di Nirvana e Soundgarden – il trio piano, basso e batteria
curiosamente denominato Ben Folds Five è poco più di una
curiosità a onta di un discreto (ma fuggevole) successo. Potremmo
dire che è a questo punto che il linguaggio del piano si "femminizza"
– citiamo qui per brevità le sole Tori Amos, Sarah McLachlan
e Fiona Apple. Scioltisi i Ben Folds Five all’indomani di quello che
è forse il loro disco più maturo – The Unauthorised Biography
Of Reinhold Messner (1999) – abbiamo perso di vista il tutto. E dobbiamo
confessare che ci è sfuggita l’esistenza di Rockin’ The Suburbs, esordio solista del leader nel 2001.
"Concept" decisamente sui generis (ma va notato che il
brano di chiusura del disco sembra connettersi con elegante circolarità
a quello di apertura), Songs For Silverman è un lavoro decisamente
riuscito dal linguaggio compositivo vario e stratificato che solo a
uno sguardo frettoloso e superficiale potrebbe apparire di scarso spessore
(crediamo sia l’unico punto di contatto tra la musica di quest’album
e quella degli Steely Dan). Ovviamente il fattore "conoscenza selettiva"
fa sì che il primo (e a volte l’unico) nome citato a proposito
di Ben Folds sia quello di Elton John, qui rinvenibile solo nell’apertura
pianistica di Landed, brano che fa presagire un maestoso arrangiamento
orchestrale di Paul Buckmaster (poi assente). I riferimenti, ovviamente,
non mancano: Joe Jackson (You To Thank, Gracie); il Paul McCartney del
periodo Revolver/Sgt. Pepper’s…/Magical Mystery Tour (il piano e il
basso di Trusted); i Beach Boys (l’inciso di Sentimental Guy, con voci,
contrabbasso e French Horn); sotto questo aspetto la cosa più
curiosa è senz’altro Prison Food, una strana via di mezzo tra
gli Who di Who’s Next e i 10cc – e qui la frase ripetuta sul pianoforte
sembra proprio una citazione di Lazy Ways, da How Dare You! (ma non
è forse vero che One Night In Paris era già stata citata
su Last Polka?). Non si tragga da quanto appena detto l’impressione
di un che di scarsamente personale; è il linguaggio che ha una
storia.
L’album è molto ben registrato (è gradito un amplificatore
caldo al punto giusto) senza giungere al maniacale (ci sono anche delle
"p" derivanti dall’effetto prossimità); il trio funziona
a puntino, e fa piacere poter dire che Ben Folds ha trovato nel batterista
Lindsay Jamieson e nel bassista Jared Reynolds due musicisti sciolti
e abilissimi: si ascolti la naturalezza del primo nei generi più
disparati e la versatilità del secondo – "tuba" e fuzz
su Bastard, arpeggio veloce sul ritornello di Jesusland. Si aggiungono
in qualche brano violino e violoncello, pedal steel, contrabbasso e
qualche strumento stranamente non accreditato: uno strumento a fiato
(su Bastard), un paio di chitarre acustiche, quello che ci è
parso un Hammond B-3 (su Jesusland, Landed, Late). Belli i cori, ottimo
il piano (un Baldwin) e bello qualche raro tocco di produzione – vedi
il rumore di macchina fotografica sull’ultimo brano (a 3’02" e
4’10").
Il leader fa senz’altro una bella figura: pianista sciolto e versatile,
buon cantante e compositore non banale (molto buoni gli incisi) di brani
dall’interpretazione tutt’altro che agevole. Bella l’apertura di Bastard,
l’ottima Jesusland è forse il momento che sulle prime coinvolge
di più; Landed è il classico brano in grado di fare un
figurone per radio, mentre Give Judy My Notice è senz’altro il
momento più debole. Ottimo il quartetto posto in chiusura: Late
(dedicata a Elliot Smith); Sentimental Guy, con gli accordi ritardati;
Time, dall’interessante sviluppo melodico; e Prison Food, di cui si
è già detto.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net | May 8, 2005