Donald Fagen
Morph The Cat
(Reprise)
Non
abbiamo alcuna difficoltà ad ammettere che quando, qualche mese
fa, abbiamo appreso dell’imminente pubblicazione di due nuovi album
solisti di Walter Becker e Donald Fagen – meglio conosciuti ai più
sotto il nome del "gruppo" di cui sono titolari, Steely Dan
– il primo pensiero che ci è venuto in mente è stato:
"ma come, così presto?". Poi, riflettendo sulla circostanza
che Two Against Nature – il disco del "grande ritorno" dopo
vent’anni di silenzio discografico – risaliva al 2000, e che il suo
successore, Everything Must Go, era stato pubblicato nel 2003, abbiamo
dovuto ammettere che la nostra era indubbiamente una reazione all’insegna
di una nervosa apprensione, e non certo di un sollievo ricco di anticipazione.
Un atteggiamento, il nostro, senz’altro da indagare.
C’era
stato ovviamente un tempo in cui gli Steely Dan – come normale per tutti
i gruppi rock del Giurassico – avevano pubblicato un disco all’anno.
Le enciclopedie dicono di un esordio discografico datato 1972, Can’t
Buy A Thrill (con i successi Do It Again e Reeling In The Years, a tutt’oggi
sempre presenti in ogni programma radiofonico di Classic Rock che si
rispetti), dei successivi Countdown To Ecstasy, Pretzel Logic, Katy
Lied, The Royal Scam e del grande successo di Aja; passano poi tre anni
perché appaia l’ultimo album del gruppo, Gaucho. Allora un album
all’anno non era certo sembrato troppo: perché le idee erano
nuove; perché da un disco all’altro si erano meglio precisati
gli obbiettivi e accresciute le forze per raggiungerli; perché
un lavoro di composizione, arrangiamento, esecuzione e registrazione
sempre più meticoloso (gli Steely Dan essendo un gruppo dal sudore
innanzitutto mentale) aveva reso i brani delle vere miniature ricche
di segreti pronti a essere (molto piacevolmente) indagati. E se è
senz’altro vero che ogni album ha molto da offrire, è difficile
non indicare quali vette quei titoli incisi quando il gruppo era ormai
tale solo di nome, essendo divenuto nulla più che il variabile
assemblaggio dei migliori strumentisti reperibili negli Stati Uniti:
The Royal Scam, apice del periodo chitarristico; Aja, dove meglio figuravano
i fiati; Gaucho, dove imperava la secchezza quasi meccanica dei groove.
Diremmo
che furono molti, e complessi, i motivi per i quali Becker & Fagen
decisero di mettere la sigla a riposo per un certo tempo. E crediamo
di poter affermare che per un po’ Fagen trovò più facile
continuare a muoversi che fermarsi. Il risultato fu The Nightfly (1982),
un album solista – un po’ un Gaucho in minore – che manteneva molte
delle coordinate di base Steely Dan, dalla tipica "complessità
nascosta" alle classiche armonie che guardavano alla "età
d’oro del jazz", da Count Basie a Duke Ellington; era invece il
racconto – qui piano, leggibile e personale – l’elemento che maggiormente
divergeva da quanto precedentemente inciso dal duo. Poi anche Fagen
decise di prendersi un periodo di riposo.
Fagen
tornò con Kamakiriad (1993), prodotto da Becker. I groove si
erano definitivamente asciugati, mentre armonie e melodie restavano
immutate – forse troppo? Se l’album piacque senza entusiasmare, 11 Tracks
Of Whack (1994) – primo lavoro solista di Becker, qui al suo esordio
assoluto come cantante – lasciò perplessi i più (chi scrive
poté acquistarlo "usato come nuovo" non molto tempo
dopo l’uscita). E’ in realtà un album dai molti pregi (un discorso
che andrà ripreso non appena verrà pubblicato il suo nuovo
lavoro), la cui sottovalutazione pressoché universale – leggendaria
la pausa "bibita e bagno" che il pubblico riservava all’unico
brano cantato da Becker durante i concerti degli Steely Dan degli anni
novanta – fa sorgere molti dubbi su parecchie cose.
Two
Against Nature fu ovviamente salutato come "il grande ritorno".
Chi scrive non ne apprezzò il suono digitale troppo freddo –
un fattore di gran lunga migliorato nelle opere successive – e i groove
meccanici: una caratteristica, questa, destinata a rimanere pressoché
immutata. Detto di una preferenza per i groove r&b "elastici
ma fissi" (diciamo più dalle parti di Al Jackson della Stax
che di Roger Hawkins dei Muscle Shoals), il duo ha evidentemente preso
gusto – o forse solo trovato più semplice – ad assemblare dei
groove su cui successivamente costruire i pezzi. (Va anche tenuta in
debito conto la "catastrofe meccanica" che ha decimato le
file dei musicisti in carne e ossa.) A paragone del precedente, Everything
Must Go passò quasi inosservato (gli "eventi" sono
per definizione unici, e la stampa di oggi questo sembra orientata a
dare), pur se per certi versi poteva essere considerato l’album superiore.
Ma il dubbio restava: poteva ancora suonare fresco un idioma ormai tanto
"classico"?
Contro
tutte le aspettative (innanzitutto quelle di chi scrive), dopo più
di una settimana di ascolti la risposta può esser detta affermativa:
con Morph The Cat Fagen è riuscito nella difficile impresa di
svecchiare un linguaggio che cominciava a dare segni di irrigidimento.
Come? La risposta è certamente complessa, ma è possibile
abbozzare una spiegazione. Quelli di Morph The Cat sono indubbiamente
pezzi ai quali Fagen teneva molto; il poterli realizzare in maniera
autonoma, senza che fosse necessario doversi confrontare con un "pari
grado", sembra aver donato una scioltezza da cui il disco ha tratto
gran beneficio. Non sono ovviamente estranee quantità e caratura
dei musicisti coinvolti: se l’ottima sezione fiati, sottile e musicale
– dal flauto al sassofono, dalla tromba (sovente sordinata) al clarinetto
basso – rimanda spesso ad Aja, è il numero dei chitarristi presenti,
e la varietà che ne consegue, l’elemento decisivo nell’accrescere
la quantità di colori timbrici a disposizione; e posto che il
timbro chitarristico prediletto da Becker (diciamo Sadowsky più
Bogner) è senz’altro bello, personale e riconoscibile, esso è
pur sempre uno; e qui "molti è meglio".
Fagen
ha detto di un disco che chiude una trilogia – e di un trittico che
dovrebbe essere venduto in un unico box – riferendosi alle tre "età"
narrate dai suoi rispettivi album in solo: la giovinezza di The Nightfly,
la maturità dell’età di mezzo di Kamakiriad, il confronto
con la mortalità di Morph The Cat. Non ha altresì negato
che gli scenari – sia personali che politici – del post 11/9 abbiano
una parte nel tono e nelle vicende dell’album. Album che è comunque
vario, e che non si presta a troppo facili letture: ne fanno fede l’ambigua
figura di Morph The Cat (e il brano ha una piccola ripresa a chiudere
il CD), la natura oscura degli esseri di Mary Shut The Garden Door,
il destino aperto che attende la protagonista di The Night Belongs To
Mona, la storia dai molti buchi di H Gang. Non mancano momenti leggeri
(l’amore che nasce tra un passeggero e un’addetta alla sicurezza dell’aeroporto
LaGuardia in Security Joan: "perquisiscimi adesso"), intimi
(il tentativo di costruirsi un rifugio fatto di affetti in The Great
Pagoda Of Funn), fonetici (lo scat di Brite Nightgown, brano che risulta
leggero a onta dell’argomento), o davvero bizzarri anche per uno Steely
Dan: si veda il dialogo tra un giovane Fagen e il fantasma di Ray Charles
in What I Do.
Come suona? Siamo oltremodo coscienti che un disco come questo corre
il rischio di suonare anacronistico. E sappiamo già che chi va
sempre di fretta potrà spendere al massimo un "dischettino,
poppettino", con o senza l’aggiunta dell’espressione "di classe".
Da parte nostra diremmo che – ritmica asciutta, ma con bel basso – Morph
The Cat va ascoltato con un amplificatore caldo al punto giusto e a
volume non da sussurro, sì da permettere al prezioso apporto
dei fiati di apparire in tutti i suoi colori. Fagen canta bene, con
punte davvero da antologia (What I Do). Facile suggerire qualche momento
felice fra tanti. La sezione "B" avvolta dai fiati di Morph
The Cat, brano dall’andamento cantilenante ma tutt’altro che lineare
con bella tromba sordinata e begli assolo di chitarra (Jon Herington)
e sax tenore (Walt Waiskpopf). L’attacco di chitarra e il solo (ancora
Herington) di H Gang. L’azzeccatissimo solo di armonica (Howard Levy)
di What I Do, dove il bel piano elettrico è suonato da Ted Baker.
Il solo di chitarra di Wayne Krantz su Brite Nitegown, che diremmo frutto
(anche) di un plug-in, poi avvolto dai fiati. Il ritornello di The Great
Pagoda Of Funn, brano che con fiati e campanelli sembra rimandare a
Aja (il pezzo), con begli assolo di chitarra (ancora Krantz) e di tromba
(è Marvin Stamm, godibile nel sordinato su tutto il disco). Il
bell’organo (Fagen) e il grintoso assolo di chitarra (Ken Wessel) su
Security Joan. I fiati e l’armonica di The Night Belongs To Mona, una
delle vette del disco. Il groove teso di Mary Shut The Garden Door.
Diremmo che può bastare.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2006
CloudsandClocks.net | March 24, 2006