Otto anni
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di Beppe Colli
Nov. 26, 2010
"A dirlo sembra strano, ma è possibile che quest’anno
escano più album di qualità che negli anni sessanta, ma dato che non rappresentano
un vero cambiamento forse non verranno ricordati." Ben Folds, da un’intervista
di James Medd apparsa su The Word, Issue 91, September 2010, con il titolo
di A Brill Building Of The Mind.
Strano ma vero, Clouds
and Clocks festeggia oggi il suo ottavo compleanno. E se il nostro combattivo
webzine sia giunto a questo traguardo fresco e pimpante oppure esausto e
con il fiato corto è cosa che ognuno dovrà decidere da sé. Da parte nostra,
come di consuetudine, approfitteremo dell’occasione per cercare di fare il
punto sul tortuoso cammino di quelle tre entità – prodotti, industria e pubblico
– al cui crocevia si situa il nostro lavoro. Sarà una lettura spinosa, da
cui la solita raccomandazione: astenersi impressionabili, e i bambini a letto.
Una domanda che ci poniamo
spesso? Questa: ma in Rete, oggi, c’è di più o di meno? Giustamente il lettore
potrebbe chiederci di specificare il termine di raffronto temporale: rispetto
a quando? Tre anni fa? Cinque? Otto? Ma come sarà chiaro tra breve la cosa
ci pare essere di non molta importanza, dato che non è il raffronto
"metrico" di per sé a interessarci, quanto la tendenza (termine
che va qui inteso nel suo senso più rigoroso) in atto. Più importante precisare
"più o meno, di cosa?". Un esempio dovrebbe rendere tutto più chiaro.
La scorsa settimana ci siamo trovati a leggere un bel profilo
di Tom Zé scritto da Robert Christgau per il sito della Barnes & Noble.
Diciamo subito che in quanto a gusti pochi critici sono tanto lontani da
chi scrive quanto lo è Christgau. Ma allo stesso tempo riconosciamo allo
statunitense una serietà professionale, un retroterra di ascolti e una cura
nel comunicare quanto si è pensato davvero poco comuni. Quindi è ovvio che
leggiamo Christgau: se esiste qualcuno in grado di farci apprezzare Tom Zé
– un genere di musica, lo diciamo subito, che non si situa affatto tra quelli
da noi preferiti – beh, quello è Christgau. E ovviamente per "aiutarci
ad apprezzare" qui intendiamo "fornirci una prospettiva e degli
strumenti interpretativi che sarebbero impossibili da ottenere mediante il
solo ascolto".
Ora le cose dovrebbero essere più chiare. E quindi ora è possibile
fornire una risposta alla domanda. Diamo per possibile un margine di errore
– la Rete è grande. Ma la risposta ci pare ovvia, e difficile da mettere
in dubbio: in Rete c’è sempre meno. Ed è parimenti ovvio che viene smontato
senza possibilità di ripensamento quel detto secondo il quale in Rete tutto
è movimento incessante, e per ogni cosa che chiude altre mille apriranno.
E’ ovvio che se ci riferiamo a cose di tipo diverso – disponibilità
(gratuita) di file audio e video, comunità, social network, modi di interconnessione,
banche dati, e ora le "nuvole" – la risposta potrà variare di molto.
Il problema che qui ci poniamo riguarda la sempre maggiore
scarsità di prodotti dell’ingegno del tipo suddetto, fenomeno dovuto a sempre
minori possibilità di remunerazione dotata di caratteristiche (che diremmo
normali) quali stabilità e adeguatezza. E’ ovvio che in Rete è possibile
trovare una enorme quantità di roba: siti creati da case discografiche o
da manager che non è detto si presentino come tali, recensioni scritte da
penne compiacenti o complici, giudizi interessati, interviste accomodanti,
oltre a semplice incompetenza allo stato puro.
Ne consegue che qualunque lettore che non possegga già dei
ferrei criteri di giudizio corre il serio pericolo (ma potremmo benissimo
parlare di triste certezza) di non poterne mai più sviluppare; va da sé che
un’infinità indifferenziata che si presenta come i granelli della sabbia
del deserto è per definizione "non interpretabile"; a queste condizioni,
la pretesa "ricchezza" della Rete si tramuta nella causa prima
di abbandono. Il che vale sia per gli utenti che per gli artisti.
Dando un’occhiata in giro ci rendiamo conto che luoghi e voci
che ci eravamo abituati a considerare parte del paesaggio non esistono più.
E qui possiamo solo immaginare il senso di solitudine e di frustrazione di
molti artisti che non sanno più "a chi" parlare, e – soprattutto
– "in che modo". Ci siamo trovati di recente a notare che un paio
di nuove uscite da noi possedute si presentavano come frutto di donazioni:
somme donate da ascoltatori e fan; ne esisteranno sicuramente altre di cui
non abbiamo notizia. Un fatto per noi strano, l’unico meccanismo similare
di cui abbiamo avuto esperienza diretta essendo il metodo di sottoscrizione
adottato molto tempo fa dalla Recommended Records allo scopo di finanziare
le nuove uscite. Ma erano altri tempi, e ben diversa era anche la proporzione
tra artisti e pubblico potenzialmente interessato.
Che il problema della "scarsità" da noi notato per
ragioni di contiguità di interessi non sia dovuto a dinamiche interne proprie
al solo mondo della musica è facilmente provato dalla scarsità parallela
che si verifica in tutti i campi dell’informazione. Il problema, quindi,
è altrove.
(I costi della carta aumentano, quelli di stampa pure, quelli
di distribuzione anche, le vendite – sia in edicola che in abbonamento –
calano, e così il prezzo della pubblicità per pagina. Ma mentre negli Stati
Uniti e nel Regno Unito le testate musicali muoiono come mosche, in Italia
tutto questo non sembra avvenire. Diremmo piuttosto che le vetrine delle
edicole pullulino di testate come non mai.)
Caduta in una profonda
recessione alla fine degli anni settanta, l’industria musicale si risollevò
davvero solo con l’avvento del CD, quando un’enorme quantità di pubblico
ricomprò "il catalogo" nel nuovo formato.
Non sono mancati nel recente passato tentativi di ripetere
l’impresa, innanzitutto con i formati (rivali) denominati DVD-A e SA-CD,
entrambi miseramente naufragati. Si riparla in questi giorni di formati audio
ad alta risoluzione, uno dei quali denominato Blu-ray (tecnicamente, Blu-ray
Disc, da cui la sigla, che è BD). Parlando lestamente, diremmo che le aspettative
qui riposte ci sembrano destinate a rimanere deluse, e per un motivo molto
semplice: il successo di massa del formato CD non fu principalmente dovuto
a un suono di qualità superiore, vero o presunto che fosse, ma a una maggiore
praticità d’uso (e a una più lunga durata in condizioni d’uso tipiche) rispetto
all’LP e alla cassetta; praticità e durata che trovarono il loro punto di
non ritorno quando il Discman sostituì il Walkman. Oggi la portabilità dei
file appare caratteristica universalmente irrinunciabile, con quel dialogo
costante tra la Rete, il computer e quegli apparecchietti di riproduzione
personale come l’iPod che, in auto o sui mezzi pubblici, costituiscono per
molti la modalità principale, quando non l’unica, di rapportarsi alla musica.
Logico, quindi, interrogarsi su tutta una serie di incognite.
Esisteranno ancora per molto tempo i supporti? Che ne sarà dei negozi fisici?
E di quelli online? E i modi di consumo prevalenti, renderanno ancora possibile
l’esistenza di "carriere"? Qui i punti di vista possibili sono
molteplici. Com’è ampiamente noto, Brian Eno ha parlato della fine di un’epoca
in cui la musica registrata ha costituito un modello (di consumo) tale da
garantire una remunerazione ai partecipanti, e della impossibilità di perpetuare
questo modello alle condizioni presenti. Le case discografiche sembrano indecise
tra l’adozione di un nuovo formato fisico e il traghettare tutto in Rete,
per motivi che diremmo facilmente intuibili. E mentre se si tratta della
sfera video il pubblico sembra pienamente in grado di apprezzare qualcosa
di tecnicamente superiore – da cui la corsa all’alta definizione e ai film
in 3-D, tutte cose per le quali si spera che l’utente sia disposto a pagare
un sovrapprezzo salato – l’esperienza passata ci dice che lo stesso non si
verifica per quanto riguarda la sfera audio.
Limitandoci alla musica diremmo che oggi il supporto fisico
non se la passa tanto bene, come provato dalla chiusura di moltissimi negozi
indipendenti e dal drastico restringimento dell’offerta in catene quali Wal-Mart,
Borders e Barnes & Noble. L’LP ha dato un’ultima chance di sopravvivenza
a tanti piccoli negozi a vocazione "indie" sparsi in giro per il
mondo, ma l’assenza di investimenti in nuovi stabilimenti di pressaggio e
l’usura accelerata dei macchinari dovuta (ironia della sorte!) proprio a
questo inatteso successo rendono il suo futuro oltremodo precario. Ma anche
il CD non gode di buona salute, e qui il colpo decisivo potrebbe venire dalla
sparizione dei lettori ottici da computer e automobili: in assenza di volumi
di produzione adeguati, una sopravvivenza parallela a quella avvenuta per
piatti e testine non sembra tecnicamente plausibile.
Frattanto per chi ancora si ostina a comprare CD frustrazione
si aggiunge a frustrazione. Non pochi CD che suonano "più forti del
dovuto", e vittime della compressione digitale, debbono ciò al fatto
che i loro brani, destinati a finire su iTunes, devono avere lo stesso livello
sonoro della musica alla quale verranno affiancati. Buffo notare che non
pochi album venduti in formato CD risultano privi di alcune tracce extra
reperibili solo… in Rete, con dei brani acquistabili esclusivamente su
Amazon e altri solo su iTunes; e qui diremmo che pagare un CD a prezzo pieno
per poi doverlo completare con altri brani extra a pagamento che avrebbero
potuto trovare facilmente posto sul CD stesso non ci pare un modo molto astuto
di scoraggiare la ricerca sui vari "torrents".
Le più accreditate "previsioni sul futuro" dicono
di sistemi di abbonamento a canone mensile senza limiti di utilizzo con possibilità
piene di trasferibilità e fruizione su apparecchi multipli. In questo scenario
il problema dello scarico illegale è semplicemente destinato a scomparire,
dato che esso risulterebbe meno conveniente dello scenario legale.
Resta aperto un problema non da poco: se sarà ancora possibile
per gli artisti – e gli studi, e i tecnici, e i fabbricanti di apparecchiature
necessarie a incisioni di qualità – concepire una professione "ad alto
grado di specializzazione" in uno scenario in cui il prezzo della musica
è destinato nel migliore dei casi ad approssimarsi allo zero. Uno scenario
che, com’è ovvio, non preoccupa affatto chi vende musica quale modo per vendere
gli apparecchi che servono a gestirla e riprodurla. E’ quindi altamente possibile
che la musica di ieri – i Beatles, Hendrix, Zappa, gli Stones e via dicendo
– resti in qualità di "capolavori del passato" (ma con quale suono?)
mentre per quella di oggi… si vedrà.
Qui occorre passare a un altro protagonista di questa triste
vicenda: il pubblico. Non prima di aver riflettuto su due fatti.
Il ritrovamento di uno scontrino fiscale risalente al 1996
ci ha ricordato quale fosse allora il prezzo di un CD: L. 40.000, ovvero
il corrispondente odierno di 20 euro. Il lettore è invitato a trovare un
altro oggetto il cui prezzo in termini monetari sia rimasto invariato nel
corso degli ultimi quattordici anni. Eppure la nostra percezione di quel
prezzo – quanto meno tollerabile allora, decisamente scandaloso adesso –
ci dice che molto è cambiato. Cosa?
Pochi giorni fa un intervento su un forum statunitense ci
ricordava quanto la nostra percezione della vecchia cassetta contenente musica
che un amico aveva registrato per noi fosse quella di "oggetto manchevole".
E questo non perché la sua qualità sonora fosse scadente, ma perché essa
mancava di tutto quello che rendeva "vero" un album, partendo da
copertina, testi, foto e quant’altro per arrivare alla qualità soggettiva
dell’esperienza. Ma oggi, e in maniera crescente (pensiamo a chi non ha mai
vissuto la musica come indissolubilmente legata a un supporto fisico), la
percezione della musica è solo quella di un file usa-e-getta di cui molto
probabilmente non resterà memoria. Ed è questa la differenza alla base della
diversa attribuzione di valore monetario al fatto di "possedere musica".
E adesso facciamo un bel respiro.
Intere biblioteche sono
già state scritte sulla situazione corrente, con acquisizioni che vanno da
"indizi" a "concause" a "variazioni concomitanti"
a molto prudenti tentativi di spiegazione "macro". Ci aspettiamo
quindi che il lettore sarà tanto gentile da non rimanere deluso (o sorpreso)
dalla pochezza di quanto segue.
Sappiamo tutti della crescente abitudine al multitasking,
della sempre maggiore importanza attribuita alla "soddisfazione istantanea",
della sempre più breve quantità di attenzione massima che risulta agevole
prestare. Qualunque la causa, il soggetto trova oggi normale essere bombardato
senza sosta da un numero enorme di informazioni puntiformi. Per contro, aumentano
le difficoltà quando si tratta di leggere e cogliere i nessi logici presenti
in un testo. Con l’ovvia eccezione di avvenimenti sportivi e di spettacoli
di intrattenimento dal contenuto elementare quali sitcom, reality show e
film di comprensibilità immediata, l’esperienza della durata che presuppone
un’attenzione costante è vista come qualcosa da evitare, mentre ciò che è
percepito come poco o nulla familiare, e quindi di per ciò stesso "di
ardua comprensione", viene immediatamente scartato. Facile ritrovare
in questo lesto abbozzo il ritratto di chi è stato allevato dalla moderna
televisione commerciale senza trovare anticorpi degni di questo nome: un
essere uso a essere imboccato con molli pappette che non richiedono alcuno
sforzo di masticazione.
Restiamo nel campo della musica: qui il soggetto si muove
in un eterno presente, dove tutto è contemporaneo e nulla viene indagato,
a partire dal viaggiare degli stilemi e dai collegamenti tra musicisti. Enorme
il numero delle contraddizioni irrisolte perché non percepite. Laddove la
preoccupazione per l’inquinamento ambientale e la tracciabilità dei cibi
può benissimo andare a braccetto al "turismo delle trentasei ore",
dove si prende l’aereo come fosse un autobus. E dove la rivendicazione della
più piena "libertà di azione" per chi vende e chi compra merci
contraffatte e di dubbia liceità si affianca alla vibrante pretesa di essere
pienamente tutelati al primo sentore di eventuali disturbi alla vista e di
allergie cutanee causati dalle merci "liberamente" messe in vendita.
Infinito il numero dei compiti ai quali vengono chiamati gli enti pubblici
nel mentre che si lamenta ogni imposizione fiscale quale "insopportabile
gravame".
Se gli esempi fatti finora dovessero sembrare poco allarmanti
possiamo dire di un sondaggio (ne riferiva il Guardian) secondo il quale
nel Regno Unito il 42% degli elettori laburisti considera quello conservatore
quale il partito più idoneo a fare ripartire la crescita economica; su linee
non divergenti argomentava Paul Krugman sul New York Times a proposito delle
credenze alla base del successo del cosiddetto Tea Party; ciò sebbene la
nuda realtà delle tabelle racconti una storia del tutto opposta; ma per sapere
le cose bisogna leggere, e leggere costa tempo e fatica e richiede un allenamento
costante.
La questione è resa ancor più complessa dal fatto che, come
è stato autorevolmente argomentato, oggi lo "schema Orwell"
(sorveglianza e penuria) è stato soppiantato dallo "schema Huxley"
(divertimento per tutti). E dal fatto che mentre una volta il ricco e il
povero vivevano in mondi separati oggi vivono nello stesso mondo: quello
del ricco. La sommatoria è che, in preda a mille distrazioni di natura piacevole
(e preoccupazioni ben sintetizzabili nell’immagine del laboratorio su ruote
che batte le campagne del Regno Unito per praticare iniezioni di botox ai
non abbienti che vivono lontani dai centri urbani), alla fine della giornata
non resta più tempo per altro.
Com’è evidente dal
nostro richiamo alla contrapposizione tra lo schema di George Orwell in 1984
e quello di Aldous Huxley in Brave New World, il nostro punto di vista presuppone
e fa sua l’analisi formulata da Neil Postman in Amusing Ourselves To Death:
Public Discourse In The Age Of Show Business (in italiano: Divertirsi da
morire).
Coerentemente con questa impostazione, il nostro tentativo
di "accendere un faro sulla qualità"
(fu questa l’espressione gentilmente usata da un musicista statunitense a
proposito del nostro sito appena nato) presuppone un impiego del tempo (di
chi fa questo sito, di chi fa la musica di cui qui ci occupiamo, di chi legge
quello che scriviamo e ascolta quello di cui scriviamo) che con un occhio
al calendario potremmo forse definire pre-moderno, o magari pre-televisivo.
L’impiego del tempo è una cosa sulla quale diremmo non si
riflette mai abbastanza, certe scansioni costituendo ormai una sorta di "pilota
automatico" che non ci accorgiamo nemmeno più di avere inserito. Ma
se l’attenzione che rivolgiamo alla musica (questa è ovviamente una considerazione
facilmente estensibile ad altri ambiti) è di tipo
"superficiale" allora sarà forte per chi la fa la tentazione di "metterci
dentro" solo quel che basta e nient’altro. Un motivo in più per guardare
con simpatia a chi cura il proprio lavoro in modi che nelle condizioni odierne
possono solo essere detti "economicamente irrazionali" – soprattutto
quando lo fa utilizzando il proprio denaro! Certo dobbiamo ammettere che
ci stupisce non poco vedere molti che si dicono perfettamente in grado di
cogliere la grandezza di tanti musicisti del passato brancolare nel buio
al momento di attribuire la stessa qualità al presente.
In chiusura, ci permettiamo di ricordare un fatto elementare:
nessuno farà mai la nostra parte; il lettore è pregato di tenerne conto ogni
volta che deciderà di (ri)ascoltare "un vecchio disco di quelli buoni".
© Beppe Colli 2010
CloudsandClocks.net | Nov. 26, 2010