eBraam
3

(BBB)

Ricordiamo ancora perfettamente il piacevole senso di sorpresa da noi provato quando, all’incirca quattro anni or sono, ci capitò di ascoltare per la prima volta l’album del Wurli Trio intitolato Non-Functionals! (album che la copertina del CD attribuiva in realtà al Michiel Braam’s Wurli Trio, dal nome del leader nonché compositore unico della formazione).

Come estesamente argomentato in sede di recensione, l’ascolto diretto (di una formazione da noi mai ascoltata in precedenza) ci disse di una "fusion elettrica di tipo non volgare" (una definizione che, ce ne rendiamo conto, per qualcuno suonerà come un ossimoro). Mentre il nome del trio derivava dal diminutivo affettuoso solitamente attribuito allo strumento il cui suono costituiva il collante sonoro del lavoro: il modello 200A del piano elettrico Wurlitzer.

Ad aggiornare la vicenda giunge adesso 3, che seppur attribuito a una formazione che prende il nome di eBraam conferma la squadra precedente: Michiel Braam alle tastiere (qui indicate genericamente come "keys"), Pieter Douma ai bassi elettrici e Dirk-Peter Kölsch alla batteria. Anche stavolta le composizioni sono tutte del tastierista. La registrazione è stata effettuata da Marcel van de Beeten, Dirk-Peter Kölsch si è occupato di "editing and programming", il missaggio è a cura di van de Beeten e Pieter Douma, la masterizzazione è opera di van de Beeten e Jos van de Broek.

Dopo averci comunicato che eBraam è la continuazione del Wurli Trio, il foglio di accompagnamento posto a corredo del CD ci dice che 3 trova ispirazione nel terzo album dei Soft Machine, intitolato per l’appunto Third. E che il tema 3 fa capolino nelle composizioni e nei loro titoli.

"Influences of Soft Machine, Ten Years After and George Duke can be heard throughout the music" è però un’affermazione che diremmo vada presa con tutte le cautele del caso: se qualche traccia di George Duke permane (pur non enciclopedica, la nostra conoscenza della musica dei Ten Years After dovrebbe essere però sufficiente a farci sorgere più di un dubbio a proposito di una supposta correlazione), diremmo che l’affermazione riguardo ai Soft Machine di Third necessiti di una precisazione. E’ vero che non ascoltiamo Third da (almeno) vent’anni, però ci sentiremmo di dire che, con un paio di eccezioni di cui si dirà, l’album esplicita una forte influenza hopperiana, con più di una situazione sonora a rimandare alle parti più "funky" dell’album che segnò la definitiva maturazione (e forse il punto più alto) dell’Hopper post-machiniano: Hopper Tunity Box – pensiamo a brani quali Gnat Prong e Mobile Mobile, dove il basso del leader è affiancato dalle tastiere di Dave Stewart e dalla batteria di Mike Travis e di Nigel Morris.

Volendo allargare il giuoco delle parentele diremmo piuttosto che nei momenti che uniscono il funk allo spaziale il pensiero va all’album di esordio (omonimo) dei Vida Blue (2002), gruppo che vedeva il tastierista dei Phish Page McConnell coadiuvato dal bassista Oteil Burbridge e dal batterista Russell Batiste. (Ma potrebbe benissimo trattarsi di una somiglianza casuale.)

Ci pare invece che molto ci sia da dire sulla parte sintetico/generativa del lavoro (opportuno fare qui un bel respiro).

Stante la denominazione generica di "keys", la quantità e la varietà di timbri sintetici da noi incontrati su quest’album (nonché i nostri dubbi concernenti l’autenticità di suoni che la nostra memoria attribuisce ancora a Hammond, Leslie e Mellotron) ci ha spinto a interrogarci sulla loro identità. In qualche punto un timbro che accoppiava la rotondità del Minimoog alla grinta tagliente di un ARP Odyssey ci ha suggerito il nome Clavia (il cui modello denominato Nord Lead avevamo avuto più volte occasione di ascoltare sugli album di Wayne Horvitz con gli Zony Mash). E qui una rapida occhiata al sito di Michiel Braam ci ha detto di un Clavia Nord Stage EX.

E così, durante l’ascolto, ci siamo trovati quasi inconsapevolmente a ragionare di "virtual analog", di "split point", di "multi-timbrality", di "attack velocity" e così via. E la gustosa lettura di pagine di Wikipedia, nonché di approfondite recensioni apparse su riviste quali Sound On Sound e Keyboard, ci ha consentito di procedere a una frequentazione più consapevole dell’album.

(Oltre a far sorgere in chi scrive un dubbio: posto che estratti concertistici da noi visti in Rete mostrano uno strumento che senza dubbio alcuno è un Wurtlitzer 200A, ci pare possibile che il timbro del 200A apparso su Non-Functionals! sia in realtà una simulazione proveniente da un Clavia, ché dobbiamo ammettere che la risposta della tastiera e la velocità di attacco ci avevano in quell’occasione fatto pensare a un Fender Rhodes ben coadiuvato da un’aggiunta "custom" quale il Dyna-Mo Piano.)

Pur perfettamente consapevoli che quanto stiamo qui dicendo sarà per molti l’equivalente di un invito al sonno, vorremmo mettere in chiaro quanto segue: bello (e vario, e vivace, e sorprendente, e così via) di suo, 3 ci riporta a un tempo in cui i tastieristi erano riconoscibili – anche nella loro esplorazione della sintesi. Nella varietà di approcci al filtro e alle "rotelle", Keith Emerson, Jan Hammer, Josef Zawinul, George Duke, Roger Powell e il primo Brian Eno con VCS3 avevano il "loro" suono. Dando per scontata una situazione generale che scoraggia le sperimentazioni, è possibile che l’incremento di complicatezza degli strumenti che chiamiamo "tastiere" abbia spinto i più all’utilizzo (principale o esclusivo) di "preset". E la dimensione odierna del "plug-in" non spinge certo il musicista in direzione di una maggiore individualità.

Diamo una veloce occhiata ai pezzi.

1B44, Please ha un inizio a stacchi, con "Hammond", poi echi hopperiani da Hopper Tunity Box con Dave Stewart, momenti "funky"/"English Jazz", basso hopperiano; la seconda parte riporta alla mente lo scattante George Duke zappiano, dalle parti di Roxy & Elsewhere. Tema e chiusa.

The Pindaric Ode comincia per solo synth, diremmo un glide più un ring modulator (o una cross modulation degli oscillatori? Tempo di soffiare via la polvere dal volume The Complete Synthesizer), un effetto che potremmo affiancare al Brian Eno che provava a rifare Tod Dockstader. Stacco, attacco poderoso della ritmica, melodia tastieristica con sotto un "micro-robotico". Bell’assolo. Elemento "sintetico". A partire da 5′ ca. un pedale di note tenute a metà strada tra un Mellotron e il Prophet 5 con il filtro modulato mentre la ritmica assume una bella e appropriata fissità quasi techno. Ottimo rullante "secco", charleston/hi-hat sferragliante.

Augmented Seconds ha un inizio melodico quasi hopperiano, e gioca sul tempo: accelerati e ritardati, poi il brano si stende su un mid-tempo "funky". Bel tema con "Hammond", à la Dave Stewart. A partire da 3′ ca. una frase "ripetitiva" di marca Terry Riley rimanda alle figure iterative che su Third dei Soft Machine aprono e chiudono Out-Bloody-Rageous, il lungo brano che occupa la quarta facciata dell’album.

Pythagorean Theorem offre un tema malinconico di matrice hopperiana. Bei piatti suonati con l’arco, a sprigionare armonici. Per certi versi rimanda a M C da Fifth dei Soft Machine, con la batteria con le spazzole e le pelli risuonanti di Phil Howard. Qui belle spazzole sul rullante con cordiera, e basso profondo. Assolo di basso (semi-acustico?).

Triple Jump ha un tema "circolare" del synth, con "metal sheet" percosso. Mellotron/Prophet di sottofondo, parte solista di synth "capriccioso" con modulazione del filtro. Basso "ripetitivo".

Triad è un pezzo cadenzato, con "Hammond" gonfio di "Leslie" più vibrato. E’ un "Hammond on steroids" che combina parecchie cose (Brian Auger! Mike Ratledge! Ray Manzarek!). Appropriata figura ritmica, agile, sui tamburi.

The Mind è composita, molti suoni si intrecciano: percussioni, rullante, piano elettrico, rumore bianco, batteria "etnica" percussiva. Forse il pezzo più "astratto" dell’album. A partire da 3′ 10" ca. una triste melodia "francese" da fisarmonica, che diremmo "wyattiana", da Volume II.

3 Sheets To The Wind si apre con una lunga introduzione con glide e animazione del vibrato che richiama decisamente Quatermass di Tod Dockstader. Tema. Ingresso ritmica cadenzata. Assolvenza di tastiere. Tema sornione per "Hammond", poi esplodono "Leslie" e vibrato. Assolo di organo che rimanda a Jimmy Smith, Larry Young e (!) allo Steve Winwood della facciata live di Last Exit dei Traffic.

A Certain Kind. Sorprendente ripresa del pezzo firmato da Hugh Hopper posto in chiusura della prima facciata dell’album di esordio (omonimo) dei Soft Machine, inciso quando Hopper non ne faceva ancora parte, in un arrangiamento che riporta il brano – in quell’occasione cantato da Robert Wyatt – alla sua dimensione di "Soul Ballad" anni sessanta. Voci (di Pieter Douma e Marcel van de Beeten), e una bella dimensione strumentale dove l’arpa di Ulrike von Meier si affianca a un synth quasi Theremin. Apertura e chiusura "bachiana", come da copione.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2013

CloudsandClocks.net | Apr. 22, 2013