Nick Drake
Bryter Layter
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di Beppe Colli
May 14, 2013
Come normalmente accade
a tutti gli artisti che nell’arco di una breve carriera hanno realizzato
un numero relativamente esiguo di album di studio – e se questo è vero di
nomi come Doors e Jimi Hendrix, che sul palco aggiungevano alla musica una
dimensione specifica ed esclusiva, lo è ancor di più per musicisti come Drake,
i cui concerti effettuati in vita si contano sulle proverbiali dita – anche
l’arte di Nick Drake viene periodicamente rimpacchettata e presentata ai
nuovi acquirenti con un aspetto fresco, con i pochi inediti esistenti di
volta in volta variamente rimescolati e i (soli) tre album di studio offerti
con caratteristiche nuove, marginali o importanti che siano, tali da giustificarne
un riacquisto.
L’anno scorso è stata la volta del box contenente Pink Moon,
che oltre a essere l’ultimo album inciso da Drake è anche quello che oggi
è considerato dai più quale l’unico in grado di rappresentare "il vero
Nick Drake", in una versione in vinile 180gr. derivante dai nastri analogici
originali, più altri oggetti o gadget in grado di arricchire quello che è
a tutti gli effetti un "pezzo da collezione".
E mentre già sappiamo che Five Leaves Left, l’album di esordio,
dovrà essere forzatamente ristampato partendo da file digitali, ecco apparire
l’album di mezzo – Bryter Layter – in un box contenente oggetti vari e inoltre
– e si spera che questa venga considerata la caratteristica più importante,
ma dobbiamo ammettere di non esserne affatto sicuri – un bel vinile 180gr.
derivante da una matrice analogica: una
"copia" (un "dub") che il tecnico John Wood aveva riversato
all’epoca e che era poi rimasta in suo possesso.
Com’è nostra abitudine, ci siamo trovati a seguire in Rete
vicende e apprezzamenti concernenti la nuova masterizzazione, e come spesso
accade ci siamo ritrovati sul forum di Steve Hoffman, dove lo scorso anno
proprio John Wood – l’uomo che insieme al produttore Joe Boyd è sicuramente
il primo responsabile degli album di Drake – aveva annunciato il "piano
dell’opera" e le caratteristiche delle ristampe.
Un paio di settimane fa ci siamo trovati a leggere questi
interventi:
"Shaffer: l’altro giorno su Sound Opinions ho ascoltato
un’intervista a Joe Boyd che parlava degli album di Nick Drake. Boyd diceva
delle molte lettere irate che riceve dai nuovi fan di Drake, che gli chiedono
di ripubblicare i primi due album togliendo le orchestrazioni.";
"back2vinyl: qualità sonora a parte, devo dire che più
sento questo disco e meno mi piace. Credo che il lavoro di produzione sia
davvero inappropriato, e posso capire perfettamente quelli che, come già
detto sopra, hanno chiesto di poter ascoltare l’album senza i fiati e gli
archi. C’è la voce di Nick Drake, piccola e da artista folk che canta in
un mezzo-sussurro da ragazzino sperduto, falso-naif, contrapposta a un’intera
orchestra rock completa di archi e ottoni e in un pezzo perfino le voci di
P.P. Arnold e di Doris Troy che urlano in sottofondo – una cosa totalmente
incongrua che a mio parere suona assurda. Invece Pink Moon funziona alla
perfezione – quel piccolo mezzo-sussurro è perfettamente accoppiato a una
chitarra disadorna e essenziale, e la cosa produce un’esperienza musicale
incredibilmente affascinante e intima.".
Beh, a ben considerare sappiamo già come suona un pezzo di
Bryter Layter senza l’orchestrazione: l’album di inediti intitolato Time
Of No Reply (1986) presentava infatti una versione del 1969 della celeberrima
Fly in una registrazione casalinga per sola chitarra e voce effettuata dallo
stesso Drake, quindi priva del basso elettrico di Dave Pegg e soprattutto
del lavoro di clavicembalo e viola di John Cale. Il quadro mostra già il
caratteristico andamento delle due parti vocali che si alternano su registri
contrapposti e la ben nota figura discendente eseguita sui bassi della chitarra
acustica. Domanda: vorremmo davvero che questa figura – mantenuta bassa sul
canale sinistro nella versione definitiva apparsa sull’album – fosse l’unico
contrappunto alla voce di Drake?
Questa discussione mostra come meglio non si potrebbe il proverbiale
nido di vespe. Come al solito, il lettore è invitato a fare un bel respiro.
Parlare di "artista
sconosciuto" e di
"artista di culto" è affare sempre relativo. Avendo conosciuto
la musica di Nick Drake da vivo, non ci siamo mai ritrovati a pensare a lui
come
"artista di culto". "Artista per pochi" – nel senso di
"apprezzato da pochi", non di "la cui musica è fatalmente
destinata a pochi" – sì, ma con quale termine di paragone? Che dire
di Joe Byrd e dei suoi United States Of America? (Un solo album.)
Freschi arrivati a Londra, estate del ’75, acquistammo la
nostra prima copia di Rolling Stone, mai visto prima d’allora, e lì trovammo
ad attenderci il necrologio di Tim Buckley, morto per overdose. E non un
necrologio lungo o particolarmente denso di particolari, né uno più lungo
e completo era destinato a giungere nel numero successivo. E Tim Buckley
era allora un vero e proprio "artista di culto": non solo lo sperimentatore
di Starsailor o Lorca, ma anche l’esponente della controcultura degli album
precedenti.
Entrati nella filiale della Virgin Records di Marble Arch,
in Oxford Street, trovammo in vendita perché invendute copie d’importazione
U.S.A. di Starsailor di Buckley, dell’album di esordio degli Stooges su Elektra,
di White Light White Heat dei Velvet Underground (quella, per intenderci,
con la copertina tutta nera con il teschio attraversato dal coltello) accanto
alla stampa inglese (quella con i soldatini), invenduta anche quella (e Lou
Reed era già celebre e già post-Transformer, Sally Can’t Dance e Rock ‘n’
Roll Animal).
Non abbiamo idea di
quanto Nick Drake abbia venduto ai tempi, certamente non molto. Ma se oggi
dovessimo chiederci il perché diremmo senz’altro a causa del suo (rispettabilissimo,
e a ben considerare non poco giustificato) rifiuto di suonare dal vivo unito
alla sua poca disponibilità a fare interviste, non certo per una supposta
difficoltà della musica, che era discretamente accessibile e che non richiedeva
all’ascoltatore alcun "atteggiamento speciale" per entrare in sintonia
con essa.
E’ opinione di chi scrive che la musica di Syd Barrett richieda
uno "sforzo di adattamento" o una "empatia" decisamente
maggiore di quanto richiesto dalla musica di Nick Drake. Ci si potrebbe –
giustamente – ribattere che priva della leggenda di "figura irregolare" la
musica di Syd Barrett non avrebbe mai ricevuto la stessa quantità di attenzione,
e siamo perfettamente convinti che sia proprio così. Ma la stessa cosa vale
per Nick Drake, la cui storia dolente e la cui morte prematura hanno creato
nel tempo un culto di massa al quale solo la mancanza di testimonianze visive
rende impossibile rivaleggiare con quello di un Jim Morrison.
Negli anni successivi
alla sua morte (1974) Nick Drake restò per chi scrive una presenza discreta,
Bryter Layter l’album che frequentavamo più spesso e che maggiormente apprezzavamo.
E che la nostra predilezione per quest’album non fosse dovuta a preferenze
di natura personale è agevolmente dimostrato dalle recensioni (poche) e dalle
"enciclopedie" (piccole) dell’epoca (qui in Europa, ché negli Stati
Uniti a Drake non venne mai riservata attenzione alcuna – il che costituisce
un perfetto contraltare a quanto avvenuto dopo), nonché dal fatto che la
presenza della musica di Nick Drake nella programmazione delle "radio
di qualità"
in FM sorte in Italia a metà degli anni settanta fosse piccola ma costante,
con Bryter Layter a precedere di alcune lunghezze l’esordio di Five Leaves
Left.
Il lettore potrà facilmente immaginare la nostra sorpresa
quando ci accorgemmo che il nome di Nick Drake cominciava a essere citato
con una certa frequenza da musicisti (diremmo in gran parte statunitensi)
la cui musica si collocava per originalità e qualità molte miglia al di sotto
di quella di Drake, che a questo punto pareva essere diventato il classico "nome
giusto da citare". E fin qui si parla
"solo" di migliaia di copie. La nostra sorpresa si tramutò in incredulità
quando ci fu detto che, utilizzato come colonna sonora di una pubblicità
(!) di un modello cabriolet (!) della Volkswagen, Pink Moon era diventato
un brano di successo tale da trascinare con sé in classifica (!) l’album
al quale dava il titolo.
La nostra esperienza personale – che ovviamente non riteniamo
esaustiva della molteplicità delle ipotesi possibili e che non esclude affatto
la possibilità di un gradimento casuale – ci dice di un "accostamento" di
Drake a "generi"
cantautorali "elementari" che sconfinano in quello che viene solitamente
denominato "lo-fi". Giunge poi puntuale l’effetto
"palla di neve" per un artista che mai aveva avuto successo. Alla
base resta l’idea che la musica eseguita in maniera "intima" –
cioè a dire, con sola chitarra e voce – mostri "l’essenza" di un
artista, la sua "vera" arte.
Com’è ampiamente noto,
sentiti i risultati prodotti dall’arrangiatore prescelto Nick Drake s’impuntò.
E fece bene, come ben dimostra la versione di I Was Made To Love Magic con
l’orchestra arrangiata da Richard Hewson apparsa sul già citato Time Of No
Reply. A prescindere da considerazioni sulla qualità del brano, l’arrangiamento
e l’interpretazione vocale sembrano andare in direzione di quello che Drake
non avrebbe mai potuto essere: Scott Walker. Ed è all’intelligenza di Joe
Boyd produttore che dobbiamo la mossa che fece dell’esordio di Drake quello
che è: scegliere il giovane Robert Kirby quale autore delle parti orchestrali.
L’ascolto di Five Leaves Left ci dice – ma lo diceva già allora
– non solo di un album del suo tempo, ma che partecipa a esso. Nomi quali
il chitarrista Richard Thompson e il contrabbassista Danny Thompson rimandano
a gruppi "folk-rock" quali i Fairport Convention e i Pentangle,
mentre qua e là affiorano lontani echi della Incredible String Band – ignota
oggi, decisamente celebre e influente (!) allora. E se le melodie non necessitano
certo di alcuna presentazione, va sottolineata la fresca complessità del
lavoro chitarristico di Drake, che già sarebbe stato degno di nota nelle
mani di un musicista più avanti negli anni.
Chi scrive non ha mai trovato di proprio gusto gli interventi
al piano di Paul Harris, le cui estrapolazioni "americane" ci sembrano
sottolineare elementi armonici tutto sommato secondari nell’estetica di Drake.
Ma potrebbe benissimo trattarsi di un giudizio personale. Certo è che, pur
tecnicamente meno rifinito, il pianoforte suonato dallo stesso Drake nella
conclusiva Saturday Sun appare molto più pertinente.
Dieci e lode invece all’orchestra di Kirby e all’unico arrangiamento
opera di Harry Robinson, al contrabbasso di Danny Thompson, alle percussioni
di Rocki Dzidzornu, alla voce e alla chitarra di Nick Drake.
Notissimi i pezzi, con Time Has Told Me, River Man, Three
Hours, Way To Blue, Day Is Done, Cello Song, The Thoughts Of Mary Jane, Man
In A Shed, Fruit Tree e Saturday Sun a segnare i capitoli di un lavoro dal
clima austero ma certamente comunicativo.
Qualsiasi cosa avesse
ingerito, Neil Young sarebbe sempre stato in grado di eseguire Old Man e
Out On The Weekend. Esistono invece impianti strumentali che necessitano
di un controllo muscolare di prim’ordine per figurare come dovrebbero. E
qui diremmo che cose come l’alcol, i sonniferi e gli antidepressivi fanno
a gara per ottundere la percezione del musicista (il lettore è invitato a
comparare, se vuole, il vibrato della chitarra di Paul Kossoff su Tons Of
Sobs o Fire And Water e quello su Free At Last o Heartbreaker).
Nel tempo intercorso tra la pubblicazione di Bryter Layter
e quella di Pink Moon molte cose devono essere accadute a Nick Drake. E’
facilmente avvertibile una certa semplificazione del linguaggio, che in alcuni
momenti dell’album – pensiamo a Road – ricorda il Donovan più accessibile.
E anche lo svolgimento di Things Behind The Sun – brano che Joe Boyd ha asserito
essere già composto al tempo di Bryter Layter – risulta meno chiaro proprio
a causa della condotta chitarristica. Non siamo ancora alle difficoltà esecutive
dei quattro brani incisi nel febbraio del ’74 e che al tempo del loro ritrovamento,
post-mortem, fecero gridare al capolavoro una critica forse un po’ troppo
ancillare, ma resta il dubbio se – nonostante l’avesse già annunciata con
largo anticipo – l’intenzione di Drake di incidere un album così disadorno
sarebbe rimasta immutata se il Joe Boyd produttore e garante non si fosse
nel frattempo trasferito per lavoro negli Stati Uniti.
Prescindendo da cose
quali l’apprezzamento personale – sappiamo che esistono
musicisti amanti di Debussy che considerano Five Leaves Left quale un apice insuperabile, mentre
c’è chi ne ritiene insuperabile la freschezza tipica di un esordio – diremo
che almeno in una cosa Bryter Layter è senz’altro l’album migliore
di Drake: nel suo essere un lavoro dal senso compiuto come un tutto,
nel suo possedere quella non comune caratteristica che fa sì che ogni brano
confluisca nel successivo con spiccato senso formale dell’armonia. Una caratterista
che diremmo propria soprattutto agli album incisi a cavallo tra i sessanta
e i settanta, quando la musica aveva preso coscienza di se stessa e si disponeva
nella durata che ha nell’idea di "facciata" dell’album in vinile
il suo metro.
Ma c’è un altro elemento che rende Bryter Layter l’album superiore:
la spiccata individualità dei contributi strumentali – il piano di Chris
McGregor, la viola e le tastiere di John Cale, il sax e il flauto di Ray
Warleigh, le sezioni ritmiche che vedono protagonisti Dave Pegg, Dave Mattacks,
Ed Carter e Mike Kowalski (bellissime le parti da lui eseguite con le spazzole),
le orchestrazioni di Robert Kirby e il piano di Paul Harris, perfetto nel
segnare il ripetersi e il mutare delle cose su One Of These Things
First – che avrebbero reso piccolo il contributo vocale e compositivo
di un artista meno dotato di Drake.
Suono e produzione perfetti, che Joe Boyd e John Wood ritennero
contraddistinguere il loro lavoro migliore.
Ci capita abbastanza
spesso di sentirci chiedere perché in vita Nick Drake sia stato così poco
apprezzato. Fermo restando quanto detto in precedenza, c’è da dire che alcuni
intervalli – per esempio, le tipiche "settime" che contraddistinguevano
musiche quali quelle sudamericane – venivano a quel tempo molto spesso percepiti
quali un corpo estraneo da orecchie avvezze a gustare il
"rock" nella sua accezione più "elettrica". E’ possibile
che il pubblico odierno sia più "aperto" – o più
"indifferente".
Ci sentiremmo però di aggiungere dell’altro.
Ormai da tempo costruzioni fantasmatiche si sono sostituite
alla realtà, e chiedono conto e ragione di cose mai avvenute. In questa cornice,
la domanda sul come la musica di Nick Drake non sia stata ricoperta di onori
implica in realtà una visione in cui ascoltatori ciechi – oltreché sordi
– non si accorgono di una presenza tanto ovviamente dotata di talento superiore
che si staglia solitaria in mezzo a un deserto.
Le cose però non stanno affatto così.
L’epoca alla quale si fa riferimento ha visto un’esplosione
di talento e di innovazione strumentale e tecnica che a livello di massa
non ha (mai più) avuto eguali. E in quella cornice il lavoro di Nick Drake,
ovviamente notevolissimo, non si staglia con la stessa nettezza che la cornice
attuale gli consente.
Sperando che i numerosi estimatori di questi due musicisti
non se ne abbiano troppo a male, l’epoca in cui lavora Drake è l’epoca in
cui le mezzecalzette portano nomi quali Cat Stevens (con dietro l’apporto
chitarristico di Alun Davis) e James Taylor. E in cui, presupponendo i Beatles
e Dylan, debuttano Paul Simon, Leonard Cohen e Joni Mitchell e si liberano
energie contenute in gruppi quali Byrds e Buffalo Springfield: parliamo di
Stephen Stills (e qui basta dire di 4 + 20), il David Crosby di If I Could
Only Remember My Name e Neil Young. Mentre nomi "sotterranei" quali
Bert Jansch e la già citata Incredible String Band fanno da apripista a Richard
Thompson e John Martyn.
E poi, ovviamente, c’è Donovan. Se oggi c’è un nome che
a nostro avviso dimostra lo strabismo di massa nei confronti di quel periodo
è quello di Donovan, che in album quali Sunshine Superman, Mellow Yellow
e Hurdy Gurdy Man, oltre che in una dozzina di singoli in grado di contraddistinguere
un’epoca, crea un corpus di indubbia sostanza. Album compositi e vari (una
caratteristica che oggi ci pare essere spesso vissuta come un difetto, dato
che
"ogni pezzo è diverso da quello precedente"), una caratura strumentale
di prim’ordine (il basso di Danny Thompson, il flauto di Harold McNair, batterie
e percussioni tra le quali riteniamo di poter annoverare Phil Seamen, sax
e clarinetti, le chitarre e il sitar di Shawn Phillips), un’influenza enorme
sulla musica di quel tempo, a partire dalla (una volta) celebre e per più
versi storica Sunny Goodge Street (’65).
E qui deve forzatamente
concludersi il nostro discorso.
Vogliamo però concluderlo con una domanda: se Pink Moon
è un capolavoro, Songs For A Taylor e Harmony Row di Jack Bruce cosa sono?
© Beppe Colli 2013
CloudsandClocks.net | May 14, 2013