Doom
—————-
di Beppe Colli
Jan. 1, 2012
Occupazione mai del
tutto esente da rischi, stilare un bilancio di fine anno ha raramente costituito
una fonte di stress paragonabile al momento in cui ci siamo voltati indietro
a osservare l’anno appena trascorso. In ordine sparso, un paio di guerre,
qualche terremoto di quelli che passano alla storia, una crisi nucleare in
grado di lasciare tracce per decenni e una tempesta economico-finanziaria
che ci induce a pregare che coloro i quali sono in grado di fare molti danni
si limitino a farne il meno possibile. (Sperando di non dover essere un giorno
costretti a scegliere tra una fine spaventosa e uno spavento senza fine:
sapremmo fare la scelta giusta?)
Al piano basso dei problemi minimi le cose sono nel frattempo
andate come si supponeva che andassero, e cioè male. Ci riferiamo qui ai
notissimi trend che in più modi coinvolgono il triangolo musicisti-critica-pubblico.
E se è vero che l’ormai famoso pronunciamento di Brian Eno ospitato sulle
pagine del Guardian (e cioè che il modello di remunerazione che per un secolo
e mezzo aveva consentito a un flusso di danaro di tenere in vita la musica
e i musicisti come noi moderni li conosciamo era da ritenersi ormai defunto
senza alcuna possibilità di resurrezione) lasciava ben poco spazio alla speranza,
pure "toccare il fondo" è espressione in grado di rivelare nuove
e inattese profondità. E infatti, con l’intervento pubblico distolto da ben
altri problemi, saprà il singolo vedere le "esigenze dell’arte" come "oggetto
culturale" degno di essere tenuto in vita con i propri soldi ora che
nuove e pressanti priorità bussano alla sua porta?
Forse a causa di un’antica
miopia, il cinema non è annoverabile tra le nostre più brucianti passioni.
La qual cosa non ci impedisce di leggere con interesse le recensioni e gli
articoli di A. O. Scott e Manohla Dargis sul New York Times. Fedeli alla
consuetudine che impone di stilare un bilancio di fine anno, i due hanno
dato vita a uno stimolante dialogo, apparso in data December 14, 2011 con
il titolo di Old-Fashioned Glories in a Netflix Age.
Ma la futura possibile sparizione del film come noi lo conosciamo
– cioè a dire, proiettato in una grande sala, su un grande schermo e fruito
contemporaneamente da una pluralità di soggetti – e il prendere piede di
formule quali "video on demand"
e proiezioni via cavo non possono che rendere più drammatico il problema
(che altri chiamerebbe "l’opportunità") dato dal moltiplicarsi
delle fonti di informazione conseguente all’assottigliarsi del "middle
layer"
critico (nel senso di lavoro ad alto grado di specializzazione e conseguente
adeguata remunerazione).
Scott cita quello che lo psicologo Barry Schwartz ha chiamato "il
paradosso della scelta", e così argomenta: "Con così tanto tra
cui scegliere, come può il singolo decidere quello che vale la pena vedere,
e come riuscire a misurare il valore estetico o l’importanza culturale di
un dato film?".
Mentre la Dargis afferma:
"Non riesco a immaginare di vedere War Horse in televisione, e ancor
meno su un iPhone: è un film consapevolmente girato all’antica, su pellicola,
che merita di essere proiettato su un grande schermo e non come un ‘digital
cinema package’ (termine che gli studi usano per indicare i file digitali
compressi e criptati che usano per immagazzinare e distribuire contenuti,
cioè a dire, i film)."
Un dialogo per molti versi interessante e che vale la pena
di leggere per intero. (Ci siamo chiesti quanti tra i recensori di cose musicali
abbiano chiaro il parallelo tra il discorso attinente al cinema e quello
che riguarda la compressione e l’immiserimento di file musicali, siano o
meno essi relativi ad album storici.)
E qui, per associazione di idee, abbiamo deciso di andare
a vedere se J. Hoberman lavorava ancora al Village Voice.
Quello di J. Hoberman
è un altro nome che leggiamo volentieri se si tratta di cinema, ed è soprattutto
per leggere lui che di tanto in tanto siamo soliti dare un’occhiata al Village
Voice. Hoberman c’è ancora – o almeno, c’era ancora in data Wednesday, Dec
21 2011, quando abbiamo letto la sua recensione doppia intitolata Spielberg
and Fincher: Taming Creatures – WWI gets Spielberg’d; Fincher’s new girl
in town.
Ma dato che è a cavallo tra la fine di un anno e l’inizio
del successivo che vengono tradizionalmente pubblicati i Poll abbiamo provato
a vedere se Francis Davis – perché è lui che coordina il Poll di Jazz per
quella storica testata – dava già segni di vita.
Brutta sorpresa: Davis c’era – e abbiamo letto con molto interesse
la sua recensione multipla intitolata Up-and-Coming Players from 2011, the
Year of the Tenor, apparsa in data Wednesday, Dec 21 2011. Però lo scritto
si concludeva con un triste annuncio: dopo aver occupato per otto anni il
posto ereditato da Gary Giddins quello era l’ultimo suo scritto destinato
ad apparire sul Village Voice. E il referendum jazz? "I risultati verranno
pubblicati su rhapsody.com subito dopo l’inizio dell’anno."
Ma che vuol dire?
Come già detto in altra
occasione, il blog intitolato Do The Math – opera di Ethan Iverson, il pianista
del trio jazz denominato The Bad Plus – è un luogo dove ci piace andare.
Di tanto in tanto Iverson lancia un argomento "scottante", e sotto
la sigla Forumesque invita i lettori a inviare i loro pareri. Com’è ovvio
dato il tipo di argomenti discussi, chi interviene è con tutta probabilità
un musicista o un critico, e non potrebbe essere diversamente. E sospettiamo
che anche molti tra i lettori
"silenziosi" condividano questo identikit.
Ma c’è un ma, ben illustrato dal seguente aneddoto. All’incirca
dieci anni fa – facevamo parte di un forum in Rete moderato dal tecnico e
produttore George Massenburg – ci capitò di parlar bene di un nome a noi
caro, e a questo punto un collega del forum ci comunicò di avere visto un
(ottimo) concerto del nome in questione proprio la sera prima, in California,
aggiungendo "eravamo in venti, tutti musicisti". Dobbiamo confessare
di esserci rimasti davvero male. Venti sono davvero pochi – si consideri
che la musica alla quale ci riferiamo è leggera e accattivante – ma quello
che ci impressionò fu il fatto che la stessa professione fosse condivisa
da tutti gli spettatori presenti: "musica per musicisti".
La (relativa) facilità della musica era tale da farci escludere
un effetto "tieniti lontano, tu che ami le cose semplici!". Ne
deducemmo che il problema principale fosse quello relativo al canale di informazione.
Ed è qui – si ricordi quanto detto da A. O. Scott – che si
spalanca il problema. Con la moltiplicazione dei canali – e a differenza
che in passato, quando era quanto meno possibile ipotizzarne l’incontro –
chi cerca "lo sguardo approfondito" e chi cerca "la soddisfazione
istantanea" non condivideranno mai la stessa piattaforma, e lo stesso
vale se parliamo di quotidiani e periodici. Il "salto" nella comprensione
(parallelo a quello tanto sbeffeggiato perché di carattere "ingenuamente
evoluzionistico" riguardante la musica ascoltata) non potrà avvenire
se non per motivi "extra".
Non sappiamo quanti
fra i lettori abbiano confidenza con la serie di volumi a cadenza annuale
di origine statunitense denominata Best Music Writing. L’idea è presto riassunta:
tramite processo di selezione, e con l’assistenza di un "curatore" la
cui identità varia di anno in anno, vengono raccolti in volume scritti in
lingua inglese che hanno per oggetto la musica, siano essi provenienti da
carta, Rete, blog e via dicendo. Chi scrive ha acquistato i volumi degli
ultimi anni, più per curiosità che per vero entusiasmo, complice il prezzo
decisamente abbordabile. Quest’anno però la nostra fonte (europea) ci diceva
che la nostra copia già prenotata non sarebbe stata disponibile presso quella
fonte.
Di lì a poco lo scritto di Robert Christgau intitolato The
Future of Best Music Writing, pubblicato in data December 11, 2011 su ARTicles,
il blog dello statunitense National Arts Journalism Program, ci informava
del fatto che dopo il volume del 2011 (quello da noi mai visto) la famosa
casa editrice specializzata denominata Da Capo aveva decretato la fine della
serie. Spunta qui l’idea di una sottoscrizione – somma iniziale necessaria
all’impresa: 30.000 dollari – destinata a far ripartire la cosa, sia in forma
cartacea che – ahi! – digitale. Se ne occupa Daphne Carr (la "series
editor" dal 2006 a oggi).
Come finirà? Verrà accentuato quel carattere da "vanity
press"già non assente? Qualcuno – oltre i contributors, e i loro parenti
e amici – leggerà mai quei pezzi? Ci sarà una distribuzione in libreria?
Esisteranno ancora le librerie?
Uno dei formati in cui
viene (ancora) venduta la "buona vecchia musica" è quello rappresentato
dalla "deluxe edition" o dal (più o meno ricco, e costoso) "box
set": il "cofanetto".
Nel tentativo di rendere maggiormente appetibili le nuove
edizioni – e qui lasciamo da parte tutte le serie e ovvie questioni riguardanti
la loro aderenza filologica agli originali – si è di recente fatto spesso
ricorso a un’opera di rimissaggio a partire dai nastri originali, saltando
ogni tentativo di "abbellire" e di "rendere moderno" il
lavoro a partire dal due piste finale.
Uno dei nomi più noti in questo campo è quello di Steven Wilson,
già apprezzato musicista in proprio e con una serie di sigle, la più famosa
delle quali è senz’altro quella dei Porcupine Tree. Tra gli altri, Wilson
ha rimissato album dei King Crimson e dei Caravan, mentre l’ultimo suo lavoro
in tal senso al momento in cui scriviamo è quello relativo al rimissaggio
dello storico album dei Jethro Tull intitolato Aqualung, a quarant’anni di
distanza dalla pubblicazione dell’originale.
E’ ragionevole supporre che i "dibattiti pubblici"
concernenti la valenza estetica di questi lavori vengano giocoforza inquinati
da fattori "esterni" quali la circostanza che chi critica il
nuovo lavoro possa essere il possessore di una pregiata edizione in CD
la cui quotazione su eBay si situa tra i 600 e i 1.000 dollari. E, per
contro, che chi magnifica la nuova edizione ne abbia già da parte un cospicuo
numero da vendere in futuro proprio su eBay. Ma gli odierni mezzi a disposizione
di chiunque abbia un computer e il software adatto consentono di identificare
con precisione cose quali "compressione", "dinamica",
"frequenza" e via dicendo, consentendo di ridurre grandemente la
quantità di "soggettivismo", sia esso interessato o meno, di queste
discussioni.
Però questo genere di questioni è del tutto assente dalla
maggior parte delle trattazioni che appaiono sulla stampa, a partire dall’edizione "celebrativa" di
Nevermind dei Nirvana. Perché?
© Beppe Colli 2012
CloudsandClocks.net | Jan. 1, 2012