Donovan
Retrospective

(Salvo/Union Square Music)

Primi anni ottanta, e Frank Zappa aggiungeva un nuovo bersaglio alla lunga lista di "oggetti culturali" sui quali riversare il suo puntuto sarcasmo: la "nostàlgia" per gli anni sessanta e gli "eroi" di quel tempo, sfruttamento post-mortem incluso. Il brano che meglio illustra l’atteggiamento zappiano è ovviamente We’re Turning Again (una canzone che con i dovuti adattamenti verrà mantenuta in repertorio per tutto il decennio), ma riferimenti in proposito non mancano in canzoni quali Tinseltown Rebellion e The Blue Light.

Fu certamente strano, per chi scrive, imbattersi in queste parole: "You remember Atlantis/ Donovan, the guy with the brocade coat/ Used to sing to you about Atlantis" (…) "That was back in the days when you used to/ Smoke a banana".

Preciso come d’abitudine, Zappa ricordava "il soprabito di broccato" e la diffusa credenza dell’epoca secondo la quale fumare l’interno della buccia di banana fatta seccare propiziasse lo "sballo". Va da sé che a questo punto scattava l’associazione di idee con la misteriosa (ma in realtà non correlata) "electrical banana" co-protagonista del celeberrimo hit Mellow Yellow.

Da accaniti fan zappiani quali eravamo raccogliemmo l’invito a ripensare l’"oggetto culturale". Più che su Atlantis, fu su Donovan che ci interrogammo: Chi, ormai, si ricordava più di Donovan? Chi mai lo ascoltava ancora? Certamente, chi scrive – e dato che il periodo di odio per gli "hippies" propiziato da "Punk" e "New Wave" non era passato invano, proprio in quegli anni riuscimmo ad acquistare a poco prezzo delle belle copie statunitensi in vinile di tutti i suoi album fondamentali su Epic. Più una stampa originale italiana del 1968 di quello che è da sempre il nostro album preferito del musicista scozzese: Mellow Yellow. Ovviamente tra gli sguardi di malcelato scherno di chi allora assistette all’acquisto di quella musica così fuori moda (gran bella cosa, saper ragionare con la propria testa!).

E quale era stata l’ultima volta in cui ci era capitato di vedere qualcuno riprendere Donovan? Nel 1976, quando Steve Hillage aveva aperto il suo secondo album solista, L (prodotto da Todd Rundgren), con una riproposizione della celeberrima The Hurdy Gurdy Man.

Da allora quello di Donovan è il nome che più spesso ci torna in mente tra quanti attendono, per un motivo o per l’altro, di essere "riscoperti". Che è una questione complessa, e di non facile decidibilità. Va da sé che – proprio come avviene con gli esseri umani – semplicemente "non c’è spazio" a sufficienza per mantenere in vita tutti gli oggetti culturali del passato. E però il caso di Donovan è molto diverso da quello, per esempio, dei Blood, Sweat and Tears. Chi, oggi, si ricorda più di loro? Chi supporrebbe che quella miscela strumentale sia stata un tempo considerata "trendy"? Chi crederebbe che ai tempi del secondo, omonimo, album il gruppo sia stato una delle attrazioni meglio pagate di Woodstock, sullo stesso piano di Jimi Hendrix e dei Creedence Clearwater Revival?

E però il caso di Donovan è del tutto diverso. Per un momento tutt’altro che breve – il periodo 1965-1969 – il cantautore fu una celebrità mondiale, un trend-setter, un nome al contempo "underground" (per lo spessore della musica su album, per lo spirito "controculturale" della proposta, per un artigianato strumentale che accoglieva importanti contributi esterni e allargava a dismisura la tavolozza dei colori, con echi che è possibile ritrovare nella produzione dei primi Traffic, per tacere di Nick Drake) e "mainstream" (con una dozzina di canzoni ai primi posti delle classifiche di tutto il mondo e amici che si chiamavano Beatles, un Greatest Hits da un milione di copie e concerti statunitensi da 15.000 spettatori).

Il doppio CD intitolato Retrospective prova a fare il sunto della storia degli anni che contano, diremmo con successo. Cento minuti di musica scelta personalmente dall’artista, nastri e masterizzazioni che non prestano il fianco a vere critiche (un aspetto su cui torneremo più estesamente in chiusura di recensione), note ai brani scritte dallo stesso Donovan. Il tutto a un prezzo contenuto che dovrebbe far perdonare la pressoché totale mancanza di informazioni su "chi suona cosa e dove" e una veste grafica che più che spartana è assolutamente ingannevole, essendo limitata al primissimo periodo, quello della "canzone di protesta" con chitarra malconcia e il classico berrettino (sia detto di passata: un abbigliamento – quello di Donovan del 1965 – che abbiamo visto riproposto tale e quale un paio d’anni fa da un giovane musicista inglese in un servizio che sulle prime scambiammo per un articolo su Donovan).

Ascoltata oggi, la musica di Donovan non suona certamente "fuori epoca" (di certo, non come quella dei Blood, Sweat and Tears). E se dobbiamo considerare la schiera di cantautori che abbiamo avuto occasione di ascoltare negli ultimi anni (qui un nome che ci pare di grande influenza è quello di John Martyn) diremmo che il momento per un apprezzamento più ampio della produzione migliore di Donovan potrebbe essere giunto. D’altra parte, esistono sorprese maggiori – chi mai avrebbe creduto a un Nick Drake celebrità mondiale grazie alla pubblicità di un’automobile?, la sola idea sembrando uno scherzo di cattivo gusto.

(Scendendo su un piano volgare, ci è capitato a volte di pensare – fermo restando il piacere che si prova nello scoprire qualcosa che i nostri predecessori avevano ingiustamente ignorato – che la mancata riscoperta di Donovan e la contemporanea scoperta di "leggende ingiustamente dimenticate" possa avere a che fare anche con il prezzo da svendita di certi diritti e con la facilità con la quale è possibile stampare e distribuire 2.000 copie in vinile di album dall’incerta paternità legale.)

Il primo Donovan è quello "della protesta", "l’anti-Dylan", il ragazzino che nel 1965 canta dal vivo nello storico Ready, Steady, Go! londinese presentato da Cathy McGowan. Forse il brano più puntuto del suo repertorio, Universal Soldier è in realtà dovuto alla penna della cantautrice canadese Buffy Sainte Marie. I grandi successi del periodo si chiamano Catch The Wind e Colours, ballad acustiche che diventano presto dei "modelli" per uno stile strumentale ancora fresco e nuovo accanto a titoli quali Ballad Of Geraldine, Turquoise, Summer Day Reflection Song. Contenuta sul secondo album, Fairytale, la celebre Sunny Goodge Street porta a maturazione l’aspetto "classico" cantautorale mentre si apre a un’orchestrazione più ampia che anticipa per più versi quel che di lì a poco verrà. Il brano è anche un importante spartiacque in senso culturale, con quei versi – "A violent hash-smoker shook a chocolate machine/ Involved in an eatin’ scene" – divenuti celeberrimi.

La prima cosa di Donovan che salta all’orecchio è – ovviamente – la voce. Una voce riconoscibilissima, sorprendentemente duttile sol che la si ascolti con attenzione. Piana e propizia al racconto e alla narrazione, dai primi brani "folk" al "mito moderno" di Atlantis alla "lettera sonora" di To Susan On The West Coast Waiting, si apre all’allarme e all’isteria della celeberrima Season Of The Witch. Ma si ascoltino l’affastellarsi di sillabe di Hey Gyp (Dig The Slowness) e di Barabajagal (con immortale introduzione chitarristica di Jeff Beck), l’elasticità metrica di Three King Fishers, la duttilità con la quale vengono affrontate il calypso di There Is A Mountain e lo swing di Wear Your Love Like Heaven.

A fianco, una morbidezza e un atteggiamento che diremmo innovativi: l’adottare un’alternativa vocale alla grinta "macho" di derivazione blues apre le porte a un’estetica non legata al modello Donovan ma che non ne potrebbe prescindere. Si pensi a Ray Davis, a Syd Barrett, a Nick Drake – ovviamente! – ma anche a musicisti come James Taylor e Elton John. Un punto sul quale il lettore è invitato a riflettere.

Violini, clavicembali, organi e pianoforti, sassofoni, flauti e clarinetti, per non parlare di batterie e contrabbassi (uno strumento, quest’ultimo, che è raro ascoltare con tale chiarezza da protagonista nella produzione discografica del periodo; si ascolti a mo’ di esempio quella Get Thy Bearings che i King Crimson accolsero nel loro repertorio). Detto dell’apporto di un Jimmy Page futuro Led Zeppelin, ai tempi session man, della batteria di Tony Carr, del contrabbasso di Danny Thompson, del sassofono e flauto di Harold McNair, della chitarra e del sitar della futura stella Shawn Phillips, resta la curiosità di sapere se è davvero Jim Gordon l’autore di quelle bellissime coloriture sui tom che arricchiscono To Susan On The West Coast Waiting, e se è davvero Gabriel Mekler, importante collaboratore di Donovan in quel periodo, al pianoforte e all’organo su Atlantis. Quel che è certo è che a partire dall’album Sunshine Superman la produzione del musicista si regge su un invidiabile equilibrio, con l’apporto decisivo dell’arrangiatore John Cameron e del produttore Mickie Most, il cui occhio "commerciale" si astiene dal far diventare ogni album una sequenza di potenziali singoli.

La lettura della lista dei brani contenuti in Retrospective ci ha sulle prime indotto a nutrire qualche dubbio: quante volte avremmo potuto ascoltare cento minuti di brani che conoscevamo pressoché a memoria? Con nostra grande sorpresa, la nostra frequentazione di questa musica è stata motivo di grande e reiterato coinvolgimento. La giustapposizione di atmosfere e una sequenza ovviamente diversa dagli album originali ci ha consentito un nuovo apprezzamento di cose a noi estremamente familiari.

Parte integrante delle canzoni, la chitarra acustica di Donovan si riallaccia idealmente alla tradizione folk statunitense, alla complessa eredità personificata da nomi quali Davey Graham, Martin Carthy, Bert Jansch e alle suggestioni modali e orientali che costituivano una linea di confine in quel periodo (l’album intitolato The Hurdy Gurdy Man presenta pagine che offrono più di un punto di contatto con la formazione al tempo celebre denominata The Incredible String Band). Arpeggi che diventano parte dell’orchestrazione complessiva sugli album successivi all’esordio ma che a tratti riaffiorano in superficie, due begli esempi essendo la malinconica Writer In The Sun e la tesa Hampstead Incident, qui posti magistralmente in chiusura di raccolta.

Un solo brano inedito, la recente e spiritosa One English Summer.

A noi è mancata la Teen Angel già retro del singolo The Hurdy Gurdy Man, e quella Sand And Foam che metteremmo ai primi posti di un’ideale classifica ("As I dug you diggin’ me in Mexico").

Fonti ben informate ci dicono di un utilizzo di nastri originali e di "safety copies" in analogico, mentre nulla sapremmo dire del processo di masterizzazione (un aspetto a proposito del quale il libretto è reticente). C’è un po’ più di volume di quello che avremmo voluto, e qualche volta il basso ci è parso un po’ "pompato" (Superlungs (My Supergirl)). Sui primi singoli, e in generale sui brani del ’65, ci è parso di sentire un po’ di "ambiente digitale" in più di quello che diremmo plausibile. E la versione di The Hurdy Gurdy Man ci pare mettere il Tampura (uno strumento a corde che chi scrive scambia sempre per un Sitar) in una posizione di missaggio molto arretrata rispetto al 45 giri originale che suoniamo spesso… nella nostra memoria. Tutte avvertenze di poco conto se la nostra preoccupazione principale è quella di godere di cento minuti di musica in grado di offrirci tanto senza mai stancarci le orecchie.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2015

CloudsandClocks.net | Aug. 2, 2015