Disastro all’italiana
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di Beppe Colli
Aug. 11, 2011
Un recente numero del
settimanale The Economist dedicava la copertina alla crisi dell’Euro. Sotto
il titolo di On the edge, l’Euro si trovava in equilibrio precario sull’orlo
di un abisso. Aggrappata disperatamente al ciglio del burrone, con poche
possibilità di farcela, l’Italia si offriva allo sguardo come un personaggio
da cartoon, con Sicilia e Sardegna già in procinto di precipitare alla velocità
della luce verso il fondo del canyon. Com’era stato possibile ridursi così?
Nella sua miscela di dramma e comicità, quest’immagine ci
ha riportato alla mente un episodio autobiografico: la prova scritta dell’esame
di Lingua Inglese I da noi sostenuta qualche decennio fa. Il titolo del tema
che ci era stato chiesto di svolgere recitava pressappoco: "Come un
pugile barcollante, malfermo sulle gambe, l’Italia sembra sempre essere sul
punto di cadere, ma all’ultimo momento, quando tutto ormai sembra perduto,
riesce a rimanere in piedi." Fu argomento che trattammo estesamente.
(Senza vocabolario. Come avrebbe mai potuto essere valutata la nostra conoscenza
della lingua inglese se ci fossimo portati dietro un vocabolario da consultare?
Questo il nostro lucido ragionamento. Grande la nostra sorpresa nel vedere
che nessun altro dei partecipanti all’esame ne era privo.)
Va da sé che sul Caso Italia esistono intere biblioteche.
Il che dimostra che per molti un "Caso Italia" esiste: normalmente
non ci si chiede perché una cosa va bene. Due volumi che tornano periodicamente
alla ribalta: Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy di
Robert D. Putnam (del 1993, tradotto un paio d’anni più tardi in italiano
con il titolo di La tradizione civica nelle regioni italiane) e lo studio
di Edward C. Banfield intitolato The Moral Basis of a Backward Society (del
1958, è apparso diverse volte in traduzione italiana con il titolo di Le
basi morali di una società arretrata) cui dobbiamo la fortunata definizione
di "familismo amorale" quale tratto culturale alla base di tanti
comportamenti diffusi. (Non sorprendentemente, un’analisi che il volume di
Putnam presuppone.)
Raramente una discussione sull’Italia sfugge a un ricordo
dei tanti "caratteri eterni" già trattati da Machiavelli, Leopardi,
Manzoni e via dicendo. Da parte nostra ci limiteremo a ricordare quale figura
tipica l’Azzeccagarbugli, dal quale traiamo di solito l’ovvio insegnamento
di un sapere giuridico venduto al potente di turno al quale il giurista s’inchina.
E non è che questo aspetto manchi di attualità. Per quanto ci riguarda preferiamo
però sottolineare un’altra derivazione: quella di un Diritto che in fondo
è sentito come "opinione", lontano dall’impostazione
"oggettiva" di un Kelsen o un Weber.
Saremmo curiosi di sapere quale sia la caratteristica il cui
mutare il lettore giudica importante per lo stato attuale delle cose italiane.
E’ ovvio che molte sono le candidate, e tutte a buon titolo. Da parte nostra
offriamo al lettore questo elemento: la scomparsa dei fatti, cioè a dire,
della verità. Va immediatamente precisato che qui l’opposto della verità
non è la menzogna (una cosa alla quale si pensa immediatamente in quello
che è il paese dei misteri: gli Stati Uniti ne hanno uno, noi un’intera collezione),
ma l’opinione.
Un buon esempio ci è offerto dalla dichiarazione di un noto
politico da noi ascoltata qualche giorno fa alla radio mentre ci recavamo
al mare. Il noto politico leggeva da un foglietto (si sentiva chiaramente
il rumore della carta) una dichiarazione con ogni evidenza scritta da qualcun
altro e della quale il noto politico capiva ben poco. A una seconda domanda
faceva seguito una risposta "spontanea" dalla logica imbarazzante.
Ma anche la risposta già preparata, al momento di dar conto dei fatti e della
adeguatezza dei provvedimenti a risolvere i problemi, faceva acqua da tutte
le parti. Qui la prima cosa che viene in mente è: "ma allora che ci
sta a fare il conduttore?", con tutto quel che segue. Va però notato
che anche in trasmissioni "a pluralità di voci" quello che il conduttore
quasi sempre fa è porre una domanda a chi la pensa in maniera opposta, chiedendogli
"la sua opinione".
Qui ci concediamo una pausa di riflessione.
Alcuni mesi fa, in seguito a una dichiarazione del Presidente
degli Stati Uniti Obama nella quale si sottolineava l’estrema importanza
di investire nell’istruzione quale mezzo per avere un maggior numero di posti
di lavoro caratterizzati da remunerazioni elevate, quindi elemento chiave
verso la prosperità di una nazione, si è svolto un acceso dibattito (transnazionale).
E chi mai potrebbe dirsi contrario all’aumento delle risorse per l’istruzione
(quale elemento chiave eccetera)?
Qualche giorno dopo, un intervento di Paul Krugman sul New
York Times (che vale la pena di leggere per intero: intitolato Degrees and
Dollars, è apparso in data March 6, 2011) illustrava la falsità di tale assunto
("l’idea che mandare più ragazzi all’università possa ridarci la società
caratterizzata da una classe media prospera è illusoria") per motivi
che hanno a che fare con l’automazione e l’informatizzazione dei compiti.
Se vogliamo creare una società prospera, dice Krugman, dobbiamo crearla direttamente: "Dobbiamo
ripristinare quel potere di contrattazione che il sindacato ha perso negli
ultimi trent’anni." (…) "Dobbiamo garantire l’essenziale, innanzitutto
l’assistenza sanitaria, a ogni cittadino."
Ma per gli scopi della presente discussione è un’altra la
frase di Krugman che va sottolineata: "L’idea" (…) "può
anche essere prevalente nella discussione popolare, ma in realtà è superata
da decenni". Detto con altre parole, esistono opinioni false. Che può
apparire una conclusione di sconcertante banalità, ma così non è.
Per tutta una serie di questioni cui si accennerà tra poco,
si è creata una combinazione esplosiva di due credenze: a) ogni opinione
ha uguale dignità; b) un’opinione diversa è diversa perché diverso è il modo
di pensare di chi quest’opinione professa. Detto altrimenti, è scomparso
ogni accenno ai fatti. Ovviamente i fatti necessitano di competenze, e altrettanto
ovviamente ciascuno di noi è privo di competenze su quasi tutto. Come ben
sappiamo, ciò non è di alcun ostacolo per la nascita e la proliferazione
di discussioni al bar, il cui rigore logico è oggi rinvenibile quale modello
nella maggior parte delle discussioni pubbliche su qualsiasi argomento.
E senza distinzioni di bandiera. Chi scrive ha seguito per
circa due anni il blog tenuto da Concita De Gregorio quale direttore del
quotidiano L’Unità. E’ ovvio che a un blog su un giornale di quel tipo si
chiede essenzialmente di fungere da termometro, non certo di avere un valore
di verità. Pure, non avremmo potuto contare le volte che abbiamo letto espressioni
quali
"Ma che fa Napolitano? Perché non interviene?" o "Stavolta
Napolitano mi ha deluso" o "Finalmente Napolitano si è svegliato!" pronunciate
da persone le quali non avevano la benché minima idea di quali siano le prerogative
che la nostra Costituzione assegna al Presidente della Repubblica.
La stessa disinvoltura nei confronti delle competenze si riscontra
nella maggior parte dei dibattiti televisivi. Qui una cosa va detta: un confronto
tra Paul Krugman e Alan Greenspan sulla giustezza del downgrading operato
da S&P nei confronti del debito degli Stati Uniti passerebbe irrimediabilmente
sulla testa di oltre il 99% dei possibili telespettatori. Quindi, niente
grandi ascolti, niente grandi introiti, niente grandi remunerazioni né celebrità
spendibile. Detto altrimenti, niente. Questo ovviamente non spiega perché
la maggior parte del pubblico si appassioni a dibattiti dove le urla e i
pesci in faccia sono la norma e il livello di istruzione richiesto non è
in grado di fare sentire nessuno a disagio; spiega solo la loro proliferazione
a scopo di lucro.
La cosa alla quale non facciamo però neanche più caso è che,
mentre troveremmo "autoritaria" un’impostazione di dibattito che
presentasse un solo punto di vista, troviamo segno di civiltà che una trasmissione
offra pari dignità a qualsiasi punto di vista, comunque argomentato. Dove,
per dirla in soldoni, i sostenitori della Terra Piatta hanno la stessa dignità
di quelli della Terra Tonda, chi offre antibiotici vale quanto chi propone "il
magnete" e un giurista di levatura internazionale può essere "messo
in difficoltà" da un esponente politico che offre il rigore logico di
una lavandaia, con prevedibile contorno di applausi. Dove impera un errore
micidiale: considerare il
"relativismo" (con quel che segue) quale rimedio all’assolutismo,
senza nemmeno sospettare l’esistenza del "fallibilismo", con le
sue regole e il suo legame con i fatti.
Un concetto che, mai troppo popolare in Italia, sembra oggi
quasi scomparso è quello di "accountability", che renderemmo come
"il poter essere ritenuti responsabili di quanto si è detto o fatto".
Ed è ovvio che quanto più è concesso di poter esprimere il proprio pensiero
in una maniera fumosa o che prescinde totalmente da quelli che chiamiamo "i
fatti" (si tratti dei sostenitori della Terra Piatta, del magnete, o
delle più balzane teorie economiche) tanto meno alla fine si riuscirà a venire
a capo di alcunché e a poter considerare qualcuno come "accountable".
Ma che tipo di Paese può permettersi di considerare il non
essere "accountable" come normale? Chi può impunemente praticare
l’indifferenza per i fatti? Chi, per tornare al nostro tema di inglese di
decenni fa, "non può fallire"? (Espressione che qui certamente
non è da intendersi nel senso di "non cogliere l’obiettivo", ché
anzi quello viene mancato spesso e volentieri.) Proviamo a tratteggiare alcune
precondizioni, sia pure con il pennello grosso, e vediamo cosa succede quando
certe cose diventano costume diffuso.
Ricordiamo lestamente la condizione geopolitica dell’Italia
alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Paese-baluardo che va difeso ad
ogni costo, ha quale partito di governo una formazione politica dal retroterra
confessionale che non brilla certamente per modernismo industriale; il principale
partito d’opposizione è il più grosso partito comunista d’occidente. E’ chiaro
che la prima non ha alternative, il secondo non ha speranze. E’ quindi ovvio
che qualunque errore venga fatto chi governa non ne pagherà il prezzo, con
ciò accentuandone l’indifferenza nei confronti dei fatti. Mentre chi è all’opposizione
non si troverà mai nelle condizioni di dover mettere alla prova la più balzana
delle teorie professate allo scopo di scaldare i cuori. (Un lascito d’ignoranza
e di indifferenza per lo studio che arriva fino ai giorni nostri, con dichiarazioni
quali "Sono favorevole a inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione",
detta all’ora di pranzo tanto per dire qualcosa.)
La perdita di competitività delle merci viene compensata agendo
sui cambi, con ricorrenti svalutazioni. L’aumento delle spese necessario
a comprare il consenso viene aggirato stampando denaro, operazione sempre
più inflattiva quanto più ingenti sono le forze che è necessario associare
alla compagine governativa. Il disavanzo aumenta, ma il Paese "non può
fallire". L’industria chiede, e ottiene, altre svalutazioni.
Le correnti costano, e richiedono spazio, anche sui media.
Si rifletta sul numero di pagine "vuote", ancorché piene di inchiostro,
che un giornale come la Repubblica dedica ancora oggi quotidianamente a politici
le cui dichiarazioni sono opinioni che non hanno alcun legame con la realtà,
intesa come fatti (una circostanza che il solo Sandro Viola ha ripetutamente
connotato come assurda). Il risultato è la politica come rissa da bar, con
lo stesso rigore concettuale e rispetto della logica e dei fatti proprio
delle risse da bar. Un modello che è poi tracimato ovunque.
Funziona?
E’ con un certo imbarazzo
che ci apprestiamo a dire male (si intenda: molto male) di Riccardo Bertoncelli,
o per meglio dire della sua "produzione storica"; espressione con
la quale indichiamo essenzialmente quanto da lui scritto negli anni settanta.
Due i motivi che ci inducono a limitarci a quel periodo; innanzitutto ragioni
di economia: l’estetica sottesa ai pezzi di quel tempo rappresenta al suo
meglio l’approccio critico di cui si dirà tra breve – e se fosse successivamente
cambiata si tratterebbe di altro critico, il cui lavoro non interesserebbe
prendere qui in esame; poi, banali ragioni di
"competenza selettiva": il cumularsi degli effetti nefasti conseguenti
alla "sparizione dell’oggetto" fu motivo sufficiente a indurci
a cambiare letture e lingua di riferimento non appena ci fu possibile, nei
primi anni ottanta.
Facile motivare l’imbarazzo di cui sopra. Non sono pochi i
nostri conoscenti di buon intelletto che hanno (ancora!) un "forte debole" per
le passate imprese di questo opinionista, e mentre scriviamo ci pare quasi
di vedere le loro teste ondeggiare in segno di pacata disapprovazione. C’è
poi da aggiungere l’opera di modernizzazione (di cui vedremo tra un istante
tempi e modi) messa in atto nei primi anni settanta, con un lavoro al quale
chiunque fosse allora interessato a una musica "non di consumo" deve
qualcosa.
Sarebbe improprio contrapporre un Bertoncelli
"americano" a una critica italiana "filo-britannica".
Beatles e Stones in testa, il Beat inglese aveva avuto larga diffusione in
Italia, ma la programmazione radiofonica del tempo non aveva certamente lasciato
in ombra Dylan, Byrds e Doors, con le finestre "underground"
a occuparsi di Blue Cheer, Spirit e Vanilla Fudge. E da Woodstock in poi
si aprirono i cancelli, Santana e Chicago in testa. Mentre alcune sottovalutazioni
sembrano da addebitare a banali motivi di mancata distribuzione discografica,
Jefferson Airplane in primis (ricordiamo distintamente la scritta 2/70 che
compariva in un riquadrato sull’etichetta di quello che dovrebbe essere il
primo album del gruppo stampato in Italia, Volunteers). E Bertoncelli fece
opera meritoria recuperando i "minori" dell’English Blues e accendendo
i riflettori su quei nomi "canterburiani" che ancora oggi usiamo
indicare con quella bizzarra etichetta.
La non piccola soddisfazione derivante dallo scoprire nomi
che non è detto ci sarebbero diventati noti a quel tempo non ci impedì di
accorgerci che Pop Story – il volume del ’73 che costituiva la summa del
pensiero bertoncelliano – presentava delle caratteristiche che trovavamo
disturbanti. Innanzitutto lo stile, sommamente barocco e con prosa immaginifica
il cui scopo principale sembrava essere quello di riprodurre sulla pagina
estasi e vertigini della musica. Poi, una forte propensione a
"tradurre" una musica in un personaggio, e di quello occuparsi,
lasciando la musica in secondo piano. In ultimo, una scarsa predilezione
per quelle musiche la cui complessità era maggiormente visibile e non
"compensata" da fattori "extramusicali": schematicamente,
King Crimson, Gentle Giant ed Henry Cow rispetto a Frank Zappa e Captain
Beefheart.
La cosa maggiormente curiosa fu accorgersi che, man mano che
la produzione discografica veniva esaminata "in tempo reale" invece
che sistematizzata ex post, gli album recensiti da Bertoncelli su riviste
quali Muzak e Gong non sembravano assomigliare in alcun modo a quelli da
noi ascoltati, pur se si trattava degli stessi titoli. Per chi scrive fu
una scoperta decisamente sconcertante, ché fino ad allora le "divergenze"
tra i recensori e noi avevano riguardato quasi esclusivamente quello che
sbrigativamente potremmo definire "la valutazione" o "il giudizio".
Qui si trattava invece di quegli "elementi costitutivi" che facevano
l’oggetto quel che esso era.
Un parallelo interessante può essere quello con il lavoro
di Robert Christgau dei primi anni settanta. Non certo per somiglianza di
stile, ché quello del critico statunitense è sì denso e strutturalmente contorto
ma sempre concreto e funzionale. Piuttosto per l’atteggiamento di Christgau
nei confronti della musica complessa, che molto spesso – nonostante l’amore
per il jazz da lui più volte manifestato – sembra collocarsi ben al di là
delle sue capacità di comprensione e che costituisce una minima parte della
musica da lui presa in esame. (Il lettore eventualmente interessato può fare
riferimento al praticissimo database consultabile in Rete contenente l’opera
omnia di Christgau.)
Per contro, lo stile di Bertoncelli è profondamente
"antidemocratico", e non certo perché di ardua comprensione: lo
è perché il contenuto di quello stile presenta un alto grado di "aleatorietà"
e un bassissimo grado di contenuto musicale propriamente detto intersoggettivamente
riscontrabile. E’ un’altra faccia di quella propensione all’affabulazione
che costituisce una delle "invarianti" italiane nel senso dell’Azzeccagarbugli
di cui sopra. Una concezione che "inventa"
un oggetto secondo impressioni soggettive sempre cangianti e le trasmette
mediante la creazione di un racconto fantastico il cui contenuto di verità
è nel migliore dei casi un sottoprodotto casuale la cui esistenza è meramente
accessoria per il successo (artistico e mondano) del lavoro del critico.
E se Christgau trovò nel mainstream e nella "semi-popular
music" (espressione di cui detiene i diritti) materiale a sufficienza
per proseguire il proprio lavoro, il destino diede a Bertoncelli una mano
ben strana: un panorama editoriale dove le musiche più audaci diventavano
moneta (relativamente) diffusa. Altri si sarebbero rotte le gambe, ma il
critico superò brillantemente la prova mediante un semplice aggiornamento
del metodo sino ad allora impiegato: fare del musicista (adesso Sun Ra, Derek
Bailey, Han Bennink) un personaggio, azzerare il contenuto propriamente musicale,
rinfrescare il linguaggio con alcune immagini di nuovo conio (chi potrà mai
dimenticare "l’esile vescica" di Steve Lacy?).
In senso storico Bertoncelli ha interpretato alla perfezione
l’atteggiamento consistente nel considerare quanto immaginato come la realtà,
essendo al contempo schermati dalle conseguenze spiacevoli e dannose del
nostro operare. Un atteggiamento favorevole a ideare film (ma non a fare
cinema), a guardare paesaggi dai ponti (ma non a costruirli), a inventare
sintetizzatori (mettendoci dentro i chip giapponesi), a vivere al di sopra
dei propri mezzi senza curarsi delle conseguenze.
Si discusse a lungo, in tempi ormai lontani, dell’influenza
di Bertoncelli, col che intendendo dire: i dischi e lo stile. Possiamo ora
dire che, diversamente dai deliri postmoderni propri a quelle università
dove si insegna che il mondo è solo interpretazione e si formano persone
che a loro volta insegneranno le stesse cose se qualcuno pagherà loro lo
stipendio per farlo, la critica musicale "rock" italiana ha incarnato
il postmodernismo "de noantri": buono a tradurre le teorie della
"civiltà dell’immagine" di The Face, incapace di raggiungere le
vette strutturaliste alla francese di The Wire (post-jazz), ma puntuale all’appuntamento
con la recensione non pagata che nessuno legge.
Ignoriamo quanto conosciuto
sia oggi il nome del filosofo ungherese György Lukács (1885-1971), studioso
il cui lavoro più celebre e discusso è stato per lungo tempo quell’arduo
e intricato volume che porta il nome di Storia e coscienza di classe: un’opera
che tentammo (inutilmente) di espugnare pur mancando del tutto di un retroterra
appropriato. Ma i lavori di Lukács che leggemmo con più profitto – spinti
da motivazioni decisamente concrete – furono quelli dedicati al rapporto
tra la teoria politica e la letteratura, soprattutto i Saggi sul realismo
e Il marxismo e la critica letteraria. E cosa mai ci aveva indotto a prendere
in mano quei libri?
Fan del rock trasmesso per radio, al momento in cui ci capitò
di prendere confidenza con brani quali Satisfaction dei Rolling Stones e
Mr. Tambourine Man nella versione fattane dai Byrds non ci eravamo certo
chiesti se i suddetti brani avessero o meno una "coscienza di classe":
avevamo dieci anni! Mancammo quindi la polemica tra Dylan e i "puristi" del
folk, "Giuda!" incluso, ma arrivammo in tempo per avere un lontano
sentore delle discussioni che accompagnarono due dei più clamorosi successi
del 1968: Revolution dei Beatles (la facciata B di Hey Jude) e Street Fighting
Man dei Rolling Stones.
La questione dei rapporti tra Rock e Rivoluzione diventò allora
per noi ineludibile, e in un certo senso "drammatica": mentre da
parte nostra eravamo già contenti a sufficienza per il fatto che questa musica
esistesse (stranamente: solo all’estero), ci veniva fatto osservare che trattavasi
in fondo di "Musica dell’Imperialismo". E qui, contro le corpose
collane dei Dischi del sole e dei Dischi del gallo (per tacere del maestoso
Coro dell’Armata Rossa), lavori pur pregevoli – e a parer nostro
"politici" – quali Volunteers dei Jefferson Airplane e Monster
degli Steppenwolf si trovavano in netta minoranza.
Cercammo la soluzione un po’ a tentoni, innanzitutto negli
scritti di Lukács. Più pragmaticamente, resisi conto che le musiche in loro
possesso non garantivano risultati apprezzabili in "quei momenti",
i nostri colleghi chiesero aiuto alle sorelle, razziandone senza pietà le
collezioni di 45 gg.
Questo lungo e doloroso preambolo dovrebbe essere sufficiente
a spiegare perché leggere, una quindicina d’anni dopo, un saggio scritto
da Chris Cutler (uno dei nostri batteristi preferiti) intitolato Progressive
Music – Progressive Politics (nel volume miscellaneo che porta il titolo
di File Under Popular) ci ricordò lontane questioni. Questioni che poi avevamo
risolto
"nella prassi", decidendo che i termini con cui ci eravamo posti
i problemi erano erronei e comportandoci di conseguenza.
Dall’alto (o dal basso) della nostra indagine su tempo
e tonalità dei due assolo di chitarra di Robert Fripp su Easy Money dei King
Crimson (dall’album Larks’ Tongues In Aspic, 1973) ci accorgevamo nel frattempo
che le due posizioni più diffuse che ci pareva di scorgere intorno a noi
fossero riassumibili così:
"W i Led Zeppelin, però gratis" e "W La Musica Popolare, purché
ritmata". Assistemmo con sconcerto al riproporsi di antiche usanze ("La
Vanoni deve fare il sound-check") (ma ci sia concesso un momento di
nostalgia per la Vocale Semprini).
Dovessimo sintetizzare due posizioni opposte diremmo che se
da parte nostra c’era forse un’allegra noncuranza per fattori quali modi
di produzione (che non fossero quelli interni a una sala d’incisione), credo
e colore dei musicisti, coscienza politica e atteggiamento nei confronti
della ricchezza (chiedere a qualcuno se è interessato alla ricchezza non
ci è mai parso il modo migliore per ricevere delle risposte veritiere) accoppiata
a un’attenzione massima per la costruzione musicale, dall’altra parte era
tutto il contrario. E la cosa non si rivelò ininfluente per la realtà concreta
delle cose allorquando nel 1975 il più grande partito comunista dell’occidente
face un inatteso balzo in avanti nelle elezioni amministrative, elezioni
che lo portarono al potere locale in un certo numero di regioni e comuni
d’Italia. A questo punto, per un partito che già dai tempi di Togliatti si
era caratterizzato per il fatto di praticare un saggio pragmatismo, si pose
il problema di cosa fosse la "cultura di sinistra". E pragmatica
fu la risposta, a partire da quella Grandiosa Invenzione che fu l’Estate
Romana.
Se dovessimo citare un episodio che a parere di chi scrive
sembrò segnalare che la razionalità era volata via dal nostro Paese sceglieremmo
il momento in cui Tony Manero – l’indimenticabile personaggio (interpretato
da John Travolta) protagonista di quel successo planetario che fu il film
La febbre del sabato sera – venne acclamato quale "eroe proletario" (su
Lotta Continua? qui la memoria ci fa difetto), dando inizio a quel movimento
epocale che ebbe come suo slogan "Riprendiamoci il Divertimento".
Questioni di spazio ci costringono a un lesto schematismo.
Applicando lo schema "fattori esterni" ecco i "generi"
accolti a braccia aperte dalla sinistra (non vorremmo svilire la questione
ricordando che generi e artisti hanno agenti e cachet).
Il Jazz è la musica dei neri, popolo oppresso. OK.
Chi fa musica Folk testimonia di un popolo oppresso. OK.
I Cantautori personificano la Canzone D’Autore di qualità
che si oppone a quell’Industria della Canzonetta che bada solo al profitto.
OK.
I gruppi Punk si ribellano, pur se confusamente, a una società
che li emargina e li condanna, e sono contro la Thatcher. (E anche Dean era
un Ribelle, e anche Presley, prima dell’imborghesimento.) OK.
I Rasta sono un popolo oppresso, e portatori di una cultura
del fumo che è il simbolo etnico della ribellione all’efficientismo della
cocaina che caratterizza il mondo capitalista. OK.
Il mondo delle discoteche di Tony Manero è espressione di
una ricerca confusa di riscatto nella sola maniera che resta al proletario
altrimenti senza speranze. OK.
Bruce Springsteen, il Woody Guthrie dei nostri giorni. OK.
I Rapper sono l’espressione dell’alienazione nera. I Gangsta-Rapper
sono le Pantere Nere dei nostri giorni. OK.
La musica classica moderna e i festival di ricerca sono un
prezioso baluardo contro lo strapotere della televisione.
Eccetera.
Il punto cruciale è che mentre era convinta di "aprirsi
al mondo" da una posizione di forza la sinistra ne è stata invasa. Da
cui la lenta ma inesorabile fine di giornali un tempo gloriosi che diventano
luoghi dove si pratica lo "scarico" delle copie omaggio e che presumibilmente
attendono da un telefono che squilla la prova
"obiettiva" della loro esistenza in un mondo in cui la "qualità"
testimonia un’irrimediabile marginalità.
Vedere Concita De Gregorio che con il più smagliante dei suoi
sorrisi annunciava un Diario di Jovanotti – Cinque Giornate a New York ci
ha riempito di stupore. Evidentemente non abbiamo più molta confidenza con
quelli che una volta erano i giornali italiani di sinistra.
© Beppe Colli 2011
CloudsandClocks.net | Aug.
11, 2011