Ani DiFranco
¿Which Side Are You On?
(Righteous Babe)
"Nel
2012 si vota per le presidenziali, e la bambina ormai ha cinque anni, quindi
è giunto il momento di fare un nuovo album e un nuovo tour."
Ovviamente
non è così che è andata (o almeno, così crediamo); ed è ragionevole supporre
che la gestazione del materiale, incisione inclusa, abbia necessitato di
un lasso di tempo discretamente lungo (anticipiamo le conclusioni: ne è
valsa la pena); leggiamo che buona parte del materiale era già stato eseguito
sul palco lo scorso anno.
A oltre
tre anni di distanza da Red Letter Year, il nuovo CD di Ani DiFranco si
presenta con un volto dichiaratamente "politico", assumendo quale
titolo e manifesto un vecchissimo brano folk reso popolare da Pete Seeger,
che ritroviamo qui attivissimo ultranovantenne a dare l’attacco con il
suo banjo. Va da sé che il testo è stato "attualizzato" dalla
cantautrice, che – qui come sempre – è attenta a coniugare gli aspetti
politici della vita associata e i suoi lati più "personali".
Dobbiamo
ammettere di avere atteso questo lavoro con una forte dose di ambivalenza,
tanto i cambiamenti nella vita "personale" (per la DiFranco,
"politici") della musicista (nell’ordine: maternità e matrimonio,
stavolta con "l’uomo giusto") ci sembravano avere modificato profondamente
l’ordine di priorità di una vita vissuta "oltre i margini". Per
dirla tutta, a questo punto ci aspettavamo anche una
"svolta religiosa", se non nel senso della Patti Smith della fine
degli anni settanta, quanto meno in chiave di religiosità panteistica giocata
in chiave femminista, cosa in fondo del tutto logica per un cammino culturale
come quello della DiFranco (e a ben vedere, non era già stato The Atom, su
Red Letter Year, una possibile finestra su una modalità del vivere fino ad
allora nascosta alla nostra vista?).
Nel privarci
della possibilità di ricevere il CD nei tempi e nei modi più normali, lo
sciopero con modalità "a gatto selvaggio" che durante la seconda
metà di gennaio ha allietato la vita della fetta d’Italia in cui viviamo
ci ha però reso possibile leggere "al buio" alcune recensioni
statunitensi dell’album trovate in Rete (poche, e di certo meno ancora
di un tempo: per chi scrive rimane sempre un mistero il motivo per cui,
passata la breve fase in cui era anche un personaggio di moda – si affaccia
qui alla memoria una copertina di Spin in cui la musicista ci appare retrospettivamente
simile al personaggio interpretato da Noomi Rapace nella ben nota trilogia
cinematografica – la DiFranco goda di così scarsa copertura da parte della
stampa); ed è ben strano notare che mentre alcuni colleghi statunitensi
hanno trovato scritti "in pilota automatico" i pezzi politici,
e freschi e nuovi quelli di carattere
"amoroso", altri hanno invece trovato questi ultimi alquanto naïve,
e profondi quelli politici.
E adesso
parliamo di musica.
Red Letter
Year era stato (anche) una illustrazione di una delle possibili vesti di
una Ani DiFranco non più chitarrista. Una grave condizione di sindrome
del tunnel carpale sembrava infatti avere interrotto per sempre quel rapporto
tanto vitale tra la voce e la chitarra della DiFranco, rapporto visto operante
per l’ultima volta su Knuckle Down (2005 – e qui quello che viene alla
mente è l’agilissimo interscambio che movimenta il brano intitolato Lag
Time). E se Reprieve (2006) aveva tentato – e con successo – la carta del
"minimale", confermando al contempo il contrabbassista e polistrumentista
che di Reprieve era stato la maggiore sorpresa, Todd Sickafoose, Red Letter
Year era apparso come un buon album dove però il tutto risultava sensibilmente
inferiore alla somma delle parti.
E non
certo per una eccessiva "eterogeneità di stili", quanto per un
problema del tutto nuovo: su cosa "poggiare" la vocalità e come
rendere maggiormente "regolari" quelle linee melodiche così frammentate
e dalla scansione imprevedibile che nascevano da un interscambio tra voce
e chitarra a metà strada tra il blues di Robert Johnson e la musica africana.
C’era a tratti la percezione di un "troppo" – un quartetto d’archi,
e un basso elettrico, e una batteria "pompata", e questo e quello
– originariamente inteso a prendere il posto di una chitarra, insostituibile
proprio perché "fondativa".
¿Which
Side Are You On? si presenta oggi come una diversa approssimazione alla
soluzione dello stesso problema.
Diremmo
che la DiFranco e Mike Napolitano, qui produttori, abbiano fatto centro,
per quanto è possibile nella nuova situazione. Si sente chiaramente un
elemento di
"appoggio" chitarristico, e la DiFranco sembra ritornata attivamente
allo strumento. Le pennate furibonde, va da sé, sono un ricordo del passato,
ma ciò non è necessariamente un male: un intelligente lavoro di orchestrazione
vivacizza e sottolinea con modi timbricamente vari. Dati i tempi, il suono
della musica ha quasi del miracoloso: vario e non stancante, se non proprio
"naturale", abita ovviamente più dalle parti del numero infinito
di piste su Pro Tools che non in un unico ambiente dove i musicisti si guardano
negli occhi; la voce comunque ci suona più naturale e gradevole che su Red
Letter Year, con la parziale eccezione dei primi versi del brano di apertura,
dove in più punti l’attacco della nota avrebbe potuto essere meno istantaneo,
e quindi più naturale.
Un’occhiata
veloce ai brani.
Bellissima
apertura, Life Boat è una ballad "bluesy" con chitarre varie
– la DiFranco è a quella baritono – e voce rilassata, in contrasto con
il tema del testo (i senzatetto), cantato "in character"; ci
sono due bassi, gli accordi del piano elettrico Wurlitzer di Todd Sickafoose,
e una buona chitarra elettrica distorta, di Adam Levy.
Unworry
è buono ma non memorabile, con ottima performance vocale e un groove nervoso
– è la batteria di Andy Borger, giocata sulla coppia charleston-rullante
– un ottimo contrabbasso, timpani, chitarra elettrica, e il Mellotron,
il piano e il clavicembalo a coprire l’area di quello che una volta sarebbe
stato un arpeggio di chitarra acustica.
¿Which
Side Are You On? – con il banjo di Pete Seeger a introdurre in solitudine
– è un inno di natura politica a più temi, una chiamata alle armi in un
anno elettorale, con un’interpretazione vocale tiratissima e la nervosissima
chitarra della DiFranco, e poi batteria, rullanti, cori e il Mellotron
di Todd Sickafoose; a circa 4′ entrano i fiati in stile street parade di
New Orleans, a sottolineare il carattere corale e concitato del brano;
ottimo contrabbasso sul finale.
Splinter
ha un’introduzione di chitarra acustica, un bel groove di basso elettrico,
la chitarra elettrica, e una pedal steel a dare un’aria rilassata e
"fumata" – un quasi calypso, con un’interpretazione vocale
"pacifica" nonostante il tema serio; bell’uso del vibrafono e delle
campane tubolari (è Mike Dillon, il cui apporto all’album è poco appariscente
ma essenziale), e uno stranissimo intermezzo "filmico" completo
di Theremin (solenne come I dieci comandamenti!).
Promiscuity
è un pezzo dal groove magistrale – contrabbasso, e la batteria di Allison
Miller, con un groove più chiaro, e a chi scrive più gradito, di quello
del nuovo batterista – che ci è parso molto simile in spirito ai momenti
più gioiosi e comunicativi del classico di Joni Mitchell Court And Spark
– si ascolti l’emissione della parola "wide" a 58"; c’è
il vibrafono a ingentilire il tutto, e la chitarra elettrica (con plug-in?)
a fare vibrato nella sezione B; senz’altro un’interpretazione vocale da
antologia.
Albacore
è un pezzo "romantico", quasi una melodia popolare in ¾ dal
sud dell’Italia per mandolini, con la chitarra e i synth della DiFranco,
con contrabbasso, pianoforte e sintetizzatore sk1 (era forse un monofonico
della Casio?) di Sickafoose, e inoltre batteria e chitarra elettrica, per
un grande arrangiamento dal carattere decisamente "understated".
J ha un
groove in levare che si discosta da quanto è possibile ascoltare sul resto
dell’album, con Cyril Neville alla batteria e Ivan Neville al basso tastieristico
e a un fantasioso sintetizzatore, e un clavicembalo suonato dalla DiFranco
ad aggiungere varietà timbrica; è un groove caraibico con una sezione B
quasi da ballata popolare.
If Yr Not
ha un bel groove bluesato, con basso elettrico e batteria, chitarra elettrica
cadenzata della DiFranco in apertura e in tutto il brano, e ottimi sax
tenore, trombone e tuba a eseguire un’aria quasi "dirge", con
voce filtrata a ricordare un canto funebre.
Hearse
è una ballad sottile, non lontanissima dal Neil Young di After The Gold
Rush, con le campane di Sickafoose, l’acustica della DiFranco, il contrabbasso
suonato con l’arco a sviluppare armonici, e organo e pianoforte a entrare
gradualmente e a impreziosire il tutto.
Mariachi
ha un agile groove chitarristico tipico della DiFranco, un ottimo contrabbasso,
un bel rullante con cordiera e spazzole di Allison Miller, il vibrafono
di Mike Dillon, poi il pianoforte di Sickafoose, una piccola parte melodica
di solo basso, è un momento leggero e appropriato.
Per chi
scrive Amendment è l’unico passo falso dell’album: caricato, con un’atmosfera
quasi da horror movie, echi, voci multiple, chitarre a go-go, effetti,
un assolo di sax tenore stridente e una finestra "paradisiaca" nella
sezione B, con un vibrafono involontariamente caricaturale nella parte
finale.
Zoo ha
un’introduzione di chitarra acustica della DiFranco, voce pulita e malinconica,
basso elettrico all’unisono con l’acustica nei passaggi intermedi, effetti
di sottofondo, e il Wurlitzer.
Beppe
Colli
© Beppe Colli 2012
CloudsandClocks.net
| Feb. 2, 2012