Ani
DiFranco
Knuckle
Down
(Righteous
Babe)
Una grande
curiosità cui andava ad aggiungersi (e ne eravamo perfettamente consapevoli)
più di un pizzico di trepidazione: questo l’atteggiamento di chi scrive
alla notizia dell’ormai prossima pubblicazione di un nuovo CD di Ani DiFranco.
Al nuovo lavoro di quella che viene ancora (affettuosamente) chiamata "la
piccola folksinger" ma che ormai da tempo è una delle più
solide realtà del songwriting contemporaneo spettava infatti un non
facile compito: quello di testimoniare della bontà del nuovo corso
intrapreso dall’artista dopo la separazione dall’ottimo gruppo di musicisti
che per tanto tempo era stato al suo fianco (un cammino di cui Evolve, due
anni or sono, aveva costituito il bel capitolo conclusivo) e dopo la non velleitaria
dimostrazione di completa autosufficienza – anche tecnica – rappresentata
dal CD intitolato Educated Guess. La pubblicazione di Knuckle Down era stata
preceduta di qualche mese dall’apparizione di Trust, un DVD-V che si era incaricato
di mostrare la nuova versione di Ani DiFranco in concerto, con il contrabbassista
Todd Sickafoose quale partner principale sul palcoscenico. (Chi ha già
familiarità con il DVD ritroverà su Knuckle Down i tre brani
inediti lì apparsi per la prima volta.)
L’ascolto
dell’album – dodici canzoni per quasi un’ora di durata – ci ha sulle prime
non poco spiazzato. Il brano posto in apertura, Knuckle Down, con solo voce,
chitarra e contrabbasso, appare quasi come un’ideale appendice delle sonorità
essenziali proprie di Educated Guess e come una proiezione della scarna formazione
vista su Trust. Ma il resto – complice la strumentazione prescelta – sembrava
immergersi in atmosfere (cowpunk? alt.country?) che per chi scrive risultavano
poco convincenti. A questo punto ci siamo però ricordati dell’impressione
tutt’altro che entusiastica destata inizialmente in noi da pressoché
tutti gli album della DiFranco – una reazione a ben vedere non troppo dissimile
da quella suscitata in chi scrive dai singoli storici dei Rolling Stones degli
anni sessanta, così stranamente dissonanti al primo ascolto eppure
così stranamente coinvolgenti. Abbiamo concluso che era senz’altro
il caso di continuare a investigare l’album dedicandogli un bel po’ della
nostra attenzione indivisa.
Fatto
storico, l’album vede un’altra persona – un musicista, Joe Henry – in veste
di co-produttore. Knucke Down è stato registrato e missato da Husky
Hoskolds negli studi denominati The Sound Factory, a Los Angeles. Il suono
complessivo è senz’altro molto "live", decisamente comunicativo
e ben in linea con lo stile dei pezzi. Con una buona fedeltà, ma con
un’attenzione particolare al suono complessivo dell’ambiente, dove la batteria
è spesso "presenza" e il contrabbasso ha da essere "percepito"
come un tutto fisico: non sempre è agevole (né, a ben vedere,
indispensabile) distinguere le singole note. I musicisti appaiono disposti
in un luogo fisico, con la chitarra ritmica della DiFranco così indispensabile
come traino dei pezzi. Non si tragga da questa svelta descrizione un’impressione
di tirato via! Si ascoltino quale esempio le parti vocali.
Todd Sickafoose
è musicista di ottima levatura. Senz’altro buono l’apporto del batterista
e percussionista Jay Bellerose, preciso nell’accompagnamento in Studying Stones
e Recoil, nei groove di Modulation e Seeing Eye Dog, nelle spazzole di Callous,
nel contagioso levare ritmico di Lag Time, forse la cosa più simile
al vecchio gruppo. Ci è parso solo discreto il chitarrista elettrico
Tony Sherr, presente su alcuni brani: forse siamo di quelli proverbialmente
troppo difficili da accontentare, ma trentacinque anni dopo Clarence White
avremmo gradito delle soluzioni chitarristiche meno "generiche".
La vera sorpresa strumentale del disco è data dal violino di Andrew
Bird (anche al glockenspiel e al fischio!) e dalle tastiere di Patrick Warren.
Un CD da titolare del primo, Weather Systems, un paio di anni fa, non ci aveva
granché convinto; il suo violino effettato risulta invece qui pertinente
(Studying Stones, Recoil); originale l’apporto fischiatorio (Manhole, Callous).
Al piano Patrick Warren è sempre incisivo senza mai invadere; buono
l’apporto al Chamberlin (un antecedente del Mellotron: sampler ante litteram
basato su nastri), originale la coda di Lag Time. Inconfondibile su Minerva
la melodica della vecchia conoscenza Julie Wolf, qui ospite.
La DiFranco
si riconferma con questo album cantante assolutamente strepitosa e incredibilmente
versatile (lasciamo i testi all’esplorazione di ciascuno). Il disco contiene
quattro brani destinati a rimanere indelebilmente impressi nella memoria già
al primo ascolto: Studying Stones, Sunday Morning, Lag Time e Recoil. Ma molte
sono le sfumature che è possibile cogliere solo dopo esplorazione attenta:
nei brani già citati e in molti altri tra i quali ci piace citare i
bluesati Modulation e Seeing Eye Dog, la spoken-word Parameters e le agghiaccianti
Callous e Minerva, che a parere di chi scrive costituiscono le vette dell’album.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net
| Jan. 23, 2005