Curlew
Mercury
(Cuneiform)
Forse
un po’ sopravvalutato ai tempi della connessione con musicisti trendy
quali Bill Laswell e il Fred Frith in versione newyorkese (per tacere
del fantomatico "Knitting Factory Sound"), il collettivo dalla
formazione mutevole che va sotto il nome di Curlew sembra oggi dimenticato
ben oltre misura. Eppure il catalogo regge, a partire da quel North
America (1985) recentemente ristampato su CD, con la personalissima
batteria di J. Pippin Barnett (ma che fine ha fatto?), il violoncello
e le composizioni del compianto Tom Cora e il sassofonismo ibrido –
parte free, parte r’n’b – del primus inter pares George Cartwright,
passando per Bee (1991), con la bella chitarra di Davey Williams, e
giungendo infine all’atipico A Beautiful Western Saddle (1993), con
le sue canzoni e la bella voce di Amy Denio. C’è chi dice che
la storia dei Curlew – quella che conta – si ferma qui. Da parte nostra
ci permettiamo di dissentire. E crediamo proprio che un album come Fabulous
Drop (1998), con le chitarre di Williams e di Chris Cochrane a fare
bel contrasto e l’agile e versatile asse ritmico Ann Rupel/Kenny Wolleson,
sia in grado di dimostrarlo.
Grande
fu però lo sconcerto di chi scrive nell’ascoltare Meet The Curlews
(2002), un album la cui mediocrità era difficilmente giustificabile
e che si reggeva principalmente grazie all’apporto chitarristico di
Davey Williams. Il fatto è che le composizioni di Cartwright
ricordano più lo sviluppo "da club" che l’architettura
– insomma, non è un Wayne Horvitz – e più di altre necessitano
quindi di musicisti provvisti di un linguaggio (e relativa pronuncia
strumentale) poco ortodosso, sì da impedir loro di scadere nell’ordinario.
Che è proprio quello che accadeva in Meet The Curlews, e principalmente
per colpa dei nuovi membri: se il basso di Fred Chalenor era solido
com’era lecito aspettarsi, la batteria di Bruce Golden e le tastiere
di Chris Parker (principalmente un insipido piano acustico) viravano
verso un jazz ortodosso già sentito almeno mille volte.
Mercury
segue a poca distanza e risulta privo di Williams, sostituito da Dean
Granros. Va meglio? Diremmo di sì, anche se qui il gruppo sembra
avere barattato il jazz ortodosso dell’album precedente con una specie
di fusion riveduta e corretta (ma nemmeno tanto), con chitarra arrabbiata
e un synth con timbro solista da oscillatori in "sync" – una
mossa di cui tra l’altro non riusciamo a individuare i possibili (e
sperati?) sbocchi commerciali. La cosa davvero buffa è che la
parte migliore del disco è la seconda: quella che pochi ascolteranno
(il secondo brano, Funny Money, è davvero in grado di scoraggiare
esplorazioni ulteriori). There Is ha un bel tema e un andamento poco
scolastico, la Ludlow firmata Chalenor risulta fresca e fa tesoro di
un semplicissimo interludio piano&basso, Small Red Dance (con chitarra
quasi-Clapton ai tempi dei Cream) è non poco spigliata e la conclusiva
Song Of The New sfodera il bottleneck per un blues comunicativo. Ci
risentiamo al prossimo disco?
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2004
CloudsandClocks.net
| Jan. 3, 2004