Criticism, 2017
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di Beppe Colli
Nov. 12, 2017
Un puzzle vasto e
complesso che è impossibile comprendere nella sua totalità con un unico colpo
d’occhio. Molte parti dovranno essere di necessità colte per implicazione,
quindi ci sforzeremo di esporre con chiarezza quanto esplicitamente trattato.
Il lettore
probabilmente conosce già – se ne è discusso tanto, in Rete, all’incirca un
mese fa – l’episodio e le cifre di cui andiamo a dire, ma crediamo sia
necessario iniziare mettendo dei punti fermi.
Lo scorso 14 settembre, Rodney Jerkins – musicista, autore e
produttore che diremmo non necessiti di particolari presentazioni – ha parlato
a una platea losangelina composta in gran parte da suoi pari. Trascrizioni del
suo intervento sono apparse un po’ dappertutto, con il titolo "I Wrote a
Hit Song with Justin Bieber. Want to See My Royalties?".
La persona che ha scritto un mega-hit con Justin Bieber è il
norvegese Andre Lindall, trasferitosi negli Stati Uniti per seguire la sua musa
di autore. C’è quasi subito un bel colpo, il brano As Long As You Love Me, un
Top Ten di cui Lindall è autore per il 20%.
Ecco il dettaglio delle somme percepite da Lindall quale
autore di quel 20%:
$149.000 quale totale dei diritti girati all’autore dalla
BMI (l’equivalente della nostra SIAE);
$53.000 il compenso per i soli passaggi radiofonici, in
numero di 347.820;
$765 per i passaggi sulla web radio Sirius XM, in numero di
1.509;
$258 per i passaggi su Pandora, in numero di 38.225.700;
$218 per i passaggi su YouTube, in numero di 34.220.900.
Per sintetizzare, con i proventi dei diritti provenienti dai media tradizionali un co-autore al 20% di un successo di Justin Bieber – l’equivalente del classico "biglietto vincente della lotteria" – è in
grado di comprarsi una casa; con quelli derivanti dai "new media
digitali" – che, come si vede a occhio nudo, corrispondono a un numero
enorme di passaggi – sarà (forse) in grado di acquistare una bicicletta.
Tutto ciò è perfettamente legale, e conseguenza del fatto
che le case discografiche hanno negoziato i diritti per sé e per gli altri,
lasciando agli "altri" somme tanto minuscole da non poter in alcuni
casi neppure essere erogate.
Cosa accadrà quando i media tradizionali avranno lasciato
definitivamente il campo ai "new media" digitali?
A partire dai giorni
di Napster un numero infinito di interventi ha ripetuto con forza che "la
musica gratis per tutti" era solo una naturale conseguenza della Storia, e
che era ora che i musicisti si arrangiassero come potevano. Ricordiamo tutti
l’invito a sopravvivere vendendo magliette.
Viene adesso strombazzato il ritorno del vinile, vero
"salvatore dell’industria".
In realtà un esame dei conti ci dice che negli accordi con i
media digitali le case discografiche hanno potuto fissare un prezzo che se pur
basso è ugualmente profittevole in considerazione delle spese sostenute,
incomparabilmente minori che in passato in ragione della sparizione del
"supporto fisico" e di tutto quanto era ad esso collegato:
fabbricazione, trasporti, rese, percentuali a grossisti e negozi e così via.
La cosa strana è che i vociferi critici delle case
discografiche non sembrano (finora?) voler spendere il loro fiato per criticare
un oligopolio enormemente più ristretto di quello delle tanto detestate case
discografiche di ieri. Nessuna parola viene spesa per criticare accordi di
dubbia liceità costituzionale che compensano in modo ridicolo perfino l’autore
di un hit di Justin Bieber.
Non ci voleva molto a
capire che il rimpicciolirsi delle somme che il "supporto fisico"
metteva in circolazione avrebbe travolto anche i giornali e la critica.
Niente pubblicità, niente carta, niente stipendi, niente
critica. E le cose non sembrano certo migliorare nel passaggio alla Rete,
laddove – in parallelo con quanto accaduto alla "musica solida" – a
fronte di minori esborsi c’è una tendenza delle entrate a convergere verso lo
zero, il lettore/ascoltatore esprimendo l’esigenza di essere
"divertito" a poco prezzo piuttosto che "informato".
"La critica come un passatempo di ricchi" è stato
in tempi recenti lo spauracchio del "Decano dei Critici Rock
Americani" Robert Christgau, che nella sua autobiografia ha provato a
tracciare un parallelo tra "professione" e "funzione" nel
panorama sociale statunitense del suo tempo.
La critica sembra resistere, per un motivo facilmente
intuibile che – all’interno del quadro corrente, e finché dura un atteggiamento
che diremmo senz’altro "vecchio stile" – è facile suntare con
l’espressione: "il bisogno di un parere obiettivo"; se l’attributo
"obiettivo" pare troppo, diciamo pure "un parere esterno",
che equivale a dire "l’opinione di qualcuno che non è sul libro paga di
chi fabbrica il bene di cui si parla".
Se per il pescivendolo il pesce è sempre fresco, per il
ristoratore la cucina sempre sana, gustosa e stimolante, per il regista il film
sempre altamente creativo, per il musicista la canzone sempre accattivante ma a
ben vedere profonda, occorre un parere esterno.
Ovviamente il "parere esterno" può anche essere
"il parere degli altri", e non necessariamente un "parere
professionalmente qualificato". E come ben sappiamo, se "tutti"
la vedono allo stesso modo, che pretese può avanzare "un" critico? E’
un atteggiamento tanto più diffuso quanto più "tattile" è la
dimensione dell’artista e della musica.
Per un coinvolgimento "vecchio stile", di tipo
innanzitutto alfabetico, resta ancora impareggiabile l’apporto del critico
"tradizionale", cartaceo o meno che sia. Sorge qui la disturbante
sensazione che i "vecchi media" siano tenuti in vita artificialmente
al solo scopo di poter vendere oggetti di fruizione tradizionale per i quali il
"parere dei pari" sulla Rete è una debole fonte di legittimazione e
un povero incentivo all’acquisto.
Nello
"strizzamento verso il basso" che ormai travolge anche ruoli una
volta specializzati e compensati con redditi da "classe media" il
critico guarda con nostalgia ai $100 a recensione di un mensile come Blender e
all’epoca tanto vicina ma ormai lontanissima in cui ci si accapigliò su un film
quale Almost Famous e sull’utilizzo di una figura simbolica come quella di
Lester Bangs.
A leggere non poche recensioni di box mastodontici e di
"ristampe filologicamente corrette" sorge sovente il sospetto che
quegli oggetti non siano realmente stati nella disponibilità di chi ne parla,
quanto meno non nel tempo utile a rispettare la scadenza di consegna di uno
scritto. Comprensibile che una settimana di tempo non sia sufficiente per
rendere conto di un cofanetto contenente l’equivalente di 2.8 giorni di
concerti, in vari formati.
Difficile supporre che un recensore che non ha mai visto né
sentito l’originale di un album la cui versione "uguale
all’originale" si trova adesso di fronte possa avere altra scelta che
tirare a indovinare e sperare per il meglio.
Se si tratta di suoni c’è – ovviamente! – chi si fa schermo
di cose quali "soggettività" e "spaccare il capello in
quattro", anche se diremmo che ricevere file compressi non sia l’ideale
per poter giudicare un’edizione che viene presentata come "audiofila".
Parliamo allora di cose che – letteralmente – "balzano
all’occhio" quale il numero di pixel che rende "sbiadite" le
copertine di una gran quantità di ristampe oggi in commercio.
Chi scrive ricorda – inseriamo un momento di levità in una
trattazione estremamente dolorosa – la copertina di una ristampa in vinile del
celeberrimo Exile On Main Street dei Rolling Stones dove la famosa immagine era
più piccola del formato 12" dell’album che doveva adornare, con il
risultato che a un certo punto a destra l’immagine ripartiva dall’inizio, con
duplicazione di alcuni quadri.
L’elaborata copertina di Their Satanic Majesties Request dei
Rolling Stones nella versione della recente ristampa è stata esaminata con
cura, rivelando goffi interventi di "copia & incolla" in
Photoshop mirati a mascherare l’assenza delle immagini originali. Fa quindi un
po’ ridere leggere di "una stupenda veste grafica che rispecchia in tutto
e per tutto l’originale".
Le innovazioni del
"mondo moderno" consentono però cose una volta impensabili. Per esempio,
la Rete rende possibile l’esistenza di forum transnazionali dove i tanti
possono dare ognuno il proprio contributo, per quanto piccolo esso sia.
Capita così di poter leggere che negli anni settanta
"Babylon by the Bay" designava la città di San Francisco, notizia che
getta luce sul brano degli Steely Dan chiamato Babylon Sisters e che viene resa
nota da qualcuno che in quegli anni abitava proprio lì.
Queste comunità dove la partecipazione è di natura
strettamente volontaria possono essere considerate un equivalente collettivo
del lavoro un tempo svolto dal critico.
Ma la natura non retribuita della partecipazione ha (almeno)
un grosso inconveniente: che quanto più larga è la comunità degli appassionati
tanto più interessanti saranno le risultanze finali. E’ altamente probabile che
una discussione che vede la partecipazione di una mezza dozzina di competenti
non darà risultati altrettanto interessanti.
Se ci poniamo
nell’ottica di chi ha a cuore fenomeni altamente minoritari – e la "musica
difficile" è senz’altro tra questi – la scomparsa delle riviste
"serie & di massa" ha delle conseguenze alle quali non pare oggi
possibile porre rimedio.
Accettata per comodità di argomento l’idea che la moderna
critica rock nasce cinquant’anni fa con il quindicinale statunitense Rolling
Stone, la circostanza che "il nuovo" e "l’industria"
camminano di pari passo non dovrebbe di per ciò stesso indurci a sostenere che
le acquisizioni critiche vengano "sporcate" dalla prossimità.
La possibilità odierna di leggere interi archivi ci consente
di vedere come Jon Landau e Stephen Holden indagassero in profondità un artista
come Paul Simon. Se la musica diventava ardua la possibilità di errore
aumentava in maniera esponenziale, e anche qui gli esempi non mancano.
C’è un passaggio cruciale: la possibilità di operare
una distinzione tra un giornale serio e uno che lo è meno o per nulla. Sappiamo
bene che c’è chi mette in dubbio la sola possibilità di operare una
simile distinzione. Sappiamo anche che è probabilmente qualcuno che scrive cose
scadenti per un giornale scadente.
Per scendere nello specifico, avere sullo stesso giornale
articoli seri su Metallica, Richard Thompson e Henry Kaiser o sullo studio
personale di Sting, Phil Collins e R. Stevie Moore rende economicamente
possibile parlare di Richard Thompson, Henry Kaiser e R. Stevie Moore.
La circostanza che giornali e riviste di qualunque tipo e
tiratura dedicano da tempo un enorme spazio alla musica rende problematica e
residuale l’esistenza di un giornale "dedicato", se non per quegli
artisti "di nicchia" che attirano un pubblico "altamente
specializzato". Potrà un giornale simile pagare i propri collaboratori?
Restano in campo nel
panorama internazionale figure singole che all’interno della propria area di
competenza sono in grado di gettare luce su quanto trattato. Un nome che viene
in mente è quello di Paul Zollo, di cui ricordiamo il volume Conversations with
Tom Petty, edito nel 2003.
In seguito alla morte di Petty, Zollo ha ricordato – sul
sito della rivista American Songwriter, in data October 6, 2017, con il titolo
di On The Life And Times Of Tom Petty – che nella introduzione scritta per quel
volume il musicista non aveva mancato di notare che Zollo si era tanto
preparato per discutere quelle canzoni da avere imparato a suonarle.
"Ed era vero" scrive oggi Zollo, "dato che
conoscere quelle canzoni per come sono fatte e capire la loro ingegnosa
architettura è il solo modo di discutere davvero la totalità di una canzone con
il suo autore."
Il lettore che ha
avuto la pazienza di giungere fin qui avrà senz’altro notato che finora la
nostra attenzione si è concentrata su cose che potremmo definire "ostacoli
di natura esterna" per la buona salute – per i più pessimisti, la
sopravvivenza – della critica (musicale).
Ma c’è un altro aspetto, qualcosa che – novello Cavallo di
Troia – penetra in un ambito della critica che diremmo "interno" e
"costitutivo" e che finisce per creare dei "simulacri" di
oggetti critici.
Per motivi di cui si dirà tra breve, questi
"simulacri" tendono gradualmente a sostituirsi alla critica,
togliendo a essa spazio e ossigeno, diventando a loro volta parte di quella
sfera di "ostacoli di natura esterna" di cui si è detto.
Complicato, difficile? Niente affatto, come dimostreremo tra
un istante.
Proviamo a prendere i
nomi di tre architetti famosi a piacere – per esempio, Renzo Piano, Rem
Koolhaas e Thom Mayne. A dispetto di ogni differenza stilistica, filosofica, di
atteggiamento, tra i loro edifici esiste una somiglianza fondamentale: non
crollano.
Possiamo provare a dividere i prodotti umani in "cose
che se fatte male crollano" e "cose per le quali questo criterio non
è applicabile".
La società "sceglie" e "decide" quali
ambiti sottoporre a controllo: non è possibile esercitare la professione medica
senza aver prima superato determinate prove, costruzioni quali palazzi e ponti
devono essere adeguatamente testate, e lo stesso vale per i farmaci e le
autovetture.
La recensione di un album non può "crollare", e
l’ambito critico è uno di quelli che la società ha "scelto" di non
"regolare".
Possiamo dire che
l’arpeggio iniziale di (Don’t Fear) The Reaper dei Blue Öyster Cult ricorda i
Byrds. Tempo fa, il chitarrista del gruppo, Donald Roeser, compositore del
brano, disse che in realtà l’arpeggio era quello iniziale di Born On The Bayou
dei Creedence Clearwater Revival, ma accelerato. E i conti tornano. Quindi
possiamo ancora dire che l’arpeggio somiglia ai Byrds, ma che in realtà
l’ispirazione fu altra. Ma dire che la condotta chitarristica del brano
somiglia ai Led Zeppelin è falso, ed è una falsità "eterna" che
rimane intatta nel tempo.
Per chi ama esempi meno "pop", possiamo dire che
la parte di sintetizzatore creata da Brian Eno messa a cappello del brano dei
Matching Mole intitolato Gloria Gloom somiglia non poco alla musica di Tod
Dockstader, in particolare alla sua composizione Quatermass. Possiamo mettere i
due brani a confronto e trarre le nostre conclusioni. Potremmo telefonare a
Brian Eno e chiedere delucidazioni. Quello che non possiamo dire è che il pezzo
di Eno somiglia a Touch di Morton Subotnick, perché non è vero. E il fatto che
è falso è dimostrabile.
Proviamo adesso ad
immaginare un continuum che ha da un lato asserzioni quali quelle appena
esposte, dall’altro asserzioni come quelle che seguono.
"Il nuovo album di ZX è un urlo di libertà più
devastante di tutto quello che il rock più sporco e maledetto ha finora
vomitato."
"Il nuovo album di XZ annulla i limiti già porosi della
cantante, che qui sceglie la fluidità identitaria mentre non rinnega il passato
nel suo senso liminale."
Per molto tempo abbiamo considerato questo tipo di scrittura
solo come il paravento dietro il quale si nasconde l’incompetenza o il dover
produrre uno scritto senza aver "fatto i compiti".
Va da sé che queste asserzioni sono letteralmente
inconfutabili, nonché insensate.
E’ chiaro che nessuna
società potrebbe sopravvivere lasciando la briglia sciolta a "libertà
interpretative" come quelle da noi abbozzate poc’anzi se queste
tracimassero oltre misura.
Ci sono quindi ambiti del sapere – per esempio, dove si
inventano i chip o si cerca di escogitare il modo in cui una ricerca forense
possa essere effettuata da una macchina – in cui "non si gioca".
E altri – per usare un esempio noto a tutti, l’ambito detto
delle "humanities" – in cui si può perfino asserire che gli asini
volano.
Possiamo anche individuare giornali dove è diffusa l’arte di
commentare gli eventi più disparati con elucubrazioni interpretative al riparo
da qualsiasi possibilità di confutazione. E intere nazioni o strati sociali che
si dedicano a più o meno simili occupazioni.
A volte l’indifferenza per la logica tracima, e ci si ritrova
con la Brexit e con Trump presidente.
Se è lecito tornare
per un istante a tempi lontani, quando ci capitò di ascoltare per la prima
volta (in un negozio, o alla radio) il suono che apre il celeberrimo brano di
Emerson, Lake & Palmer intitolato Take A Pebble pensammo subito "che
cos’è?". Ed è da simili interrogativi che parte e migliora la comprensione.
Non useremo l’espressione "oggettivo", ma quella
di "interno" all’oggetto. Le categorie possono essere variabili, ma
il senso della musica è da ricercare "dentro" la musica.
La tendenza oggi più diffusa – innanzitutto negli Stati
Uniti, anche se potremmo dire che le radici del fenomeno vanno ricercate
altrove – è quella di vedere la musica come espressione di un’altra
"cosa", e questa investigare. E la prima cosa da investigare oggi
riguarda "l’identità".
I confini – ahem – porosi di questi articoli consentono di
scrivere cose "insensate" – la sommatoria dei saperi più vari nella
loro forma più grezza – da piazzare su tutta la stampa del globo, cosa che
toglie spazio e "ossigeno" ad articoli sensati che hanno la musica al
primo posto.
Il lettore provi ora a immaginare dei corsi universitari
dove si insegnano "i modi giusti" di trattare le arti, e un manipolo
di laureati a contendersi i pochi posti disponibili nei giornali che ancora
pagano, e una cricca di colleghi che si dicono bravo l’un l’altro, e un tour in
cui si presenta un libro sulle "identità porose". E’ già successo.
Anche se Ann Powers
non è mai stata tra i nostri critici musicali preferiti, la saltuaria
frequentazione dei suoi scritti ha suscitato in noi una seria preoccupazione,
con una progressione lenta ma decisa da qualcosa che poteva ancora essere
riconosciuto come frutto di un lavoro critico a una dimensione che potremmo
definire con qualche sofferenza come "culturale".
La Powers è stata generosa nel rilasciare interviste
promozionali in occasione della recente uscita del suo ultimo libro – Good
Booty: Love and Sex, Black & White, Body and Soul in American Music – con
un intero capitolo disponibile in Rete. E se è lecito giudicare il tutto dalla
parte, lo diremmo simile a quei libri che nei racconti dell’orrore rendono
folle chi li legge.
Ma abbiamo sempre ritenuto che la Gold Medal di questo
presunto nuovo tipo di critica andasse alla Prof. Amanda Petrusich della
newyorchese Gallatin University, staff writer del New Yorker, collaboratrice di
un’infinità di riviste che ancora pagano – da Pitchfork a Esquire – nonché
autrice di tre "apprezzatissimi volumi".
A noi l’onere della prova.
Dobbiamo
immediatamente precisare che il pezzo di cui si dirà tra breve non è stato
scelto quale peggiore esempio disponibile – le interviste che la Petrusich
generosamente concede sono peggio – ma solo perché recente e rappresentativo.
Ovviamente non abbiamo scelto a bella posta le frasi più
insensate. Il pezzo è a ogni modo facilmente accessibile sul sito del New
Yorker con il titolo Free Falling with Tom Petty, la data è quella del October
3, 2017.
Si suppone che il necrologio di un artista famosissimo dica
l’essenziale e offra delle chiavi di lettura.
Ecco un passaggio chiave:
(…) "and I’ve often wondered if the verse that opens
the song "Free Falling" (…) "was in some small way an
accounting of his own beginnings".
Che è un bell’interrogativo. Che purtroppo rimane senza
risposta. Sappiamo che la Petrusich si è posto l’interrogativo.
La prima strofe della canzone, riporta la Petrusich, recita
"She’s a good girl/Crazy ’bout Elvis/Loves horses/and her boyfriend,
too". (…) "A list of the things that he thought should matter, the
things that could get a kid through." Questo è sicuro. Ma per la ragazza
della canzone o per Tom Petty? La distinzione è importante, la risposta non
arriva. La Petrusich si è comunque posta l’interrogativo.
Tom Petty è stato un artista importante, anche in senso
quantitativo. Quale il suo lascito?
"Surveying the work now, it’s hard to surmise a single
narrative, or to properly quantify exactly what he meant to rock and
roll."
Capiamo bene che ipotizzare un unico tragitto narrativo è
difficile. E anche quantificare in modo esatto e ponderato.
Tutto quello che resta è un interrogativo:
"How do you sum up that kind of career, draw
conclusions?"
Un interrogativo che chiunque scriva un necrologio si pone
prima di scriverlo, e al quale dà poi risposta. L’immensità del compito si erge
poeticamente di fonte alla Petrusich, lasciandola letteralmente senza parole.
Fortunatamente è lo stesso Petty a fornire dall’oltretomba
una chiave di lettura appropriata:
""You don’t know how it feels to be me", he
cautioned on "You Don’t Know How It Feels", from 1994."
Che però non sembra un’osservazione pertinente
all’interrogativo che era in discussione.
Andando a memoria, nella stessa canzone Petty dice anche
pressappoco: "So let’s get to the point/Let’s roll another
joooooint…." – forse un suggerimento su un modo appropriato per trovare
finalmente una risposta ai tanti interrogativi?
(Non sappiamo se risponda a verità, ma c’è chi racconta che
quando John Lennon compose I Am The Walrus la cuoca di casa iniziò a servirgli
pesciolini crudi portati dentro un secchio di metallo e scagliati da una certa
distanza, avendo confuso quanto asserito nella canzone con la vita vera. Seguì
licenziamento.)
Una notazione di enorme importanza sbuca dal nulla, nascosta
da vesti verbali modeste:
"Yet I’m fairly certain Petty knew how it felt to be
us."
La cosa è destinata a sollevare tanti dubbi. Noi non
sappiamo come ci si sente a essere Petty, quanto meno quello della canzone. Ma
sappiamo bene che lui sapeva come ci sentivamo noi. E come facciamo a saperlo?
Eqqueqquà! Dopo un’espressione colloquiale – "what
kills me" – che sta a dirci che chi conosce la parola "liminale"
non snobba di certo "the streets", la Petrusich sgancia la bomba:
"Petty understood how to address the liminal,
not-quite-discernible feelings that a person might experience in her lifetime
(that’s in addition to all the big, collapsing ones – your loves and losses and
yearnings)."
A prenderla sul serio, l’asserzione ricorda "la prova
ontologica dell’esistenza di Dio", sulla quale un certo Kant ebbe qualcosa
da dire (chi ricorda "la prova dei cento talleri?").
Ma perché Petty sarebbe l’unico a possedere questi
requisiti? Che diciamo a quelli che stanno ancora leggendo questo necrologio?
Abbiamo una risposta!
"I can’t think of another songwriter as tuned in to
these in-between, transitional moments – to the blank spaces between our
catastrophes and triumphs, when we are desperately trying to sort out what
comes next. When we take to running."
Sulla parte del mettersi a correre non sapremmo che dire, ma
la faccenda di cercare disperatamente di capire che succede dopo ci ricorda
qualcuno.
Ci avviamo alla conclusione, ed ecco finalmente un argomento
solido.
"I have, at various points in my life, cited Tom Petty
and the Heartbreakers’ "Greatest Hits" as my favourite record of all
time. He’s such a distinctive singer, with his own syntax and emphasis and
tone, and that mysterious patois; I loved his work enough to love him,
too."
Che dire? Bravo! A parte il "mysterious patois",
che vorremmo meglio definito, se non fosse per il fatto di essere misterioso.
Ma citare un album quale "il nostro preferito di
sempre", e averlo detto "in vari momenti della vita" può essere
la scritta posta sulla lapide eretta su un illustre settimanale degli Stati
Uniti?
Non è con gioia che
abbiamo scritto questo pezzo, e neppure la conclusione. Ma crediamo che un
critico debba difendere la razionalità.
Il dilagare sulle riviste di articoli come questo mostra la
tragedia che viviamo e quella che ci attende.
L’esercizio della critica come esplorazione di "qualcosa"
"out there" che è intersoggettivamente discutibile viene spodestato
da una miscela da disturbati mentali che mescola confusamente quanto è creduto,
spezzoni casuali di testo, paralleli impropri tra il proprio vissuto e la
narrativa altrui come soggettivamente ricostruita, in un esercizio critico che
riserva per sé la libertà della narrativa mentre pretende di essere una
descrizione vera del mondo.
Sarebbe già grave se la cosa fosse confinata a un’aula
universitaria. Se questa barricata salta non ci sarà futuro.
© Beppe Colli 2017
CloudsandClocks.net | Nov. 12, 2017