Marilyn Crispell
Vignettes
(ECM)
Incredibile
ma vero, sono già passati diciott’anni dalla pubblicazione di Live In San
Francisco, il bell’album per solo piano che Marylin Crispell aveva inciso
una sera di ottobre del 1989. Ma non è in ragione della sua bellezza che
quell’album ci è tornato in mente durante l’ascolto di Vignettes, nuovo
lavoro in solo che qualcuno vorrebbe forse luogo di una "svolta lirica" nel
percorso artistico della pianista statunitense. Il motivo per cui ci siamo
ricordati di quell’album sono le note di copertina di Graham Lock (che
se ben ricordiamo fu tra i primi, e più accesi, sostenitori della musicista):
all’epoca la Crispell aveva già alla spalle una discografia di un certo
rispetto, e una non piccola notorietà dovuta principalmente al fatto di
essere stata parte essenziale dell’allora celebre quartetto di Anthony
Braxton. Cecil Taylor il pianista percepito quale stilisticamente più vicino,
John Coltrane (sicuramente non il sassofonista che indicheremmo quale migliore
esempio di economia espressiva) il musicista maggiore fonte di ispirazione,
tutto sembrava andare in favore di una certa torrenzialità espressiva.
Ragion per cui ci stupì non poco leggere che Taylor aveva definito la musica
della Crispell migliore esempio di "un nuovo lirismo": "una
definizione", ci diceva Lock, "che lei accetta, ma non senza
qualche riserva". "E’ un aspetto del mio lavoro, ma non lo ritengo
un aspetto primario."
A distanza
di tanto tempo possiamo dire che Taylor aveva visto giusto, ma che anche
la Crispell non aveva torto. (Si possono poi supporre motivi accessori
in favore di una certa cautela nelle definizioni, primo fra i quali il
giustificatissimo timore che un musicista non ancora pienamente percepito
quale entità stilisticamente autonoma nutre nei confronti della possibilità
che definizioni quali "il nuovo Cecil Taylor" o "il Coltrane
del pianoforte" ("il nuovo McCoy Tyner"?) vengano rimpiazzate
da
"il nuovo Bill Evans", o Paul Bley, o Keith Jarrett.)
Certo
è bello, con il senno di poi, rileggere l’ombra monkiana che fa capolino
nello standard When I Fall In Love, o il modo spigolosamente tayloriano
in cui la Crispell affronta la Ruby, My Dear di Monk: due esecuzioni cui
abbiamo affiancato l’approccio "lirico" con cui sull’album For
Coltrane la Crispell aveva riletto la celeberrima ballad coltraniana After
The Rain; solo ex post, però, dato che non potevamo conoscerla: registrato
due anni prima di Live In San Francisco, For Coltrane era infatti apparso
tre anni dopo.
E’ quindi
essenzialmente appropriato, diremmo, tracciare una linea ideale di sviluppo
che partendo dall’album dove la Crispell, Gary Peacock e Paul Motian rileggevano
le musiche di Annette Peacock (Nothing Ever Was, Anyway, 1997), passando
per quello successivo della stessa formazione (Amaryllis, 2001) e per quello
inciso dal trio Crispell, Motian e Mark Helias (Storyteller, 2004) giunge
oggi a Vignettes. E certo non saremo noi a sottovalutare l’influenza che
certi temi
"folk" di Motian potrebbero aver avuto nel far affiorare il
"lirismo" di cui sopra. A patto, però, di non dimenticare che la
Crispell ha fatto, e fa, anche altro. E che se Taylor aveva ragione, la Crispell
non aveva torto.
Quasi
settanta minuti di durata, Vignettes è album decisamente vario e composito
– anche se molte sono le "ballad" qui presenti, Ballads non sarebbe
stato certamente un titolo appropriato. Curioso però il fatto che il titolo
sia proprio Vignettes, considerando che i sette brani così intitolati,
quasi tutti di durata abbastanza breve, sono poi quelli che meno "pesano"
nell’economia complessiva del lavoro. Qui dobbiamo confessare che fra i tanti
itinerari possibili nell’esplorazione dell’album uno dei più frequentati
da chi scrive è stato quello ottenuto estrapolando le sette Vignettes dal
resto. E senza per questo voler a tutti i costi fissare delle regolarità
ferree, diremmo che – a onta della differenza stilistica esistente fra i
sette quadri – è l’uso paritario delle mani (un aspetto ben noto a chi ha
già familiarità con la musica della Crispell) la qualità che più differenzia
questi brani dai rimanenti. Mentre assolutamente magistrale dappertutto è
l’uso dei pedali.
L’album
è per gran parte decisamente accessibile, ma in considerazione della sua
lunghezza, e proprio al fine di evitare che i momenti più lirici e melodici
(c’è anche un brano che sarebbe del tutto plausibile qualora suonato dalla
fisarmonica di Lars Hollmer) corressero il rischio di scadere a funzione
di sottofondo abbiamo deciso di dividere il tutto in due "facciate" di
durata grosso modo equivalente, separando i primi nove brani dai rimanenti
otto.
Suono
nitido e "freddo" per l’iniziale Vignette I, dove la ripresa
microfonica accoppia un primo piano della mano destra sugli acuti a una
visione d’ambiente, con risultato davvero bizzarro. Bel tema composto,
Valse Triste ci introduce all’atmosfera che diremmo più "inusuale" dell’album,
con ricordi dei due Bley (Paul e Carla); parte da qui il ruolo di protagonista
della mano destra, impegnata a enunciare melodie con l’apporto discreto
ed essenzialmente
"di servizio" della sinistra: una caratteristica che ritroviamo
subito su Cuida Tu Espíritu, composto da Jayna Nelson. Il nuovo melodismo
connota anche Gathering Light, il cui carattere a nostro avviso non poco
bachiano vedremmo bene eseguito al clavicembalo. Vignette II vede l’esplorazione
diretta delle corde del pianoforte, e a onta della sua brevità, insieme alle
immediatamente successive III, IV e V, ben accoglie ascolti millimetrici.
A tratti lirica, a tratti tortuosa, la (relativamente) lunga Sweden chiude
bene questa prima parte.
Ballad
sentimentale ma non sdolcinata, Once apre la seconda parte, subito seguita
da un ricordo tayloriano come Axis e da due Vignettes, la VI e la VII,
dal carattere decisamente drammatico. L’album si "apre" nuovamente
con Ballade, proseguendo con Time Past e con la non poco folklorica Stilleweg,
il brano composto da Arve Henriksen che (in senso lato) ci ha ricordato
Hollmer; e sono tutti brani che lasciamo senz’altro all’esplorazione di
ciascuno. In chiusura, Little Song For My Father mette una tecnica assolutamente
strepitosa al servizio di un’espressione apparentemente elementare.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2008
CloudsandClocks.net | May 26, 2008