Beppe Colli:
The Covid Papers,
pt.2
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di Beppe Colli
Oct. 5, 2020
Prima decade di febbraio, e sfogliando il New York Times ci capita di leggere di una nuova e misteriosa epidemia che si
starebbe diffondendo nel territorio della città di Wuhan, in Cina. E dato che
la notizia ci preoccupa non poco, cerchiamo di saperne di più.
Alcune settimane più tardi, un conoscente ci dice che sì,
sembrerebbe esserci del vero, ma che la vicenda appare circoscritta e non
destinata a riguardarci. Ma le cose che leggiamo sul New York Times (siamo
abbonati) sembrano andare in tutt’altra direzione.
Giunti a questo punto i nostri ricordi in merito alla
cronologia degli eventi non sono molto precisi, e certo non immaginavamo di
doverne un giorno scrivere. Ma ci sentiamo di dire che passata ancora qualche
settimana l’edicola sotto casa diventa al mattino un luogo di incontri non
troppo piacevoli, data la qualifica di "cacasotto" implicitamente
attribuita a chi – esempio a caso, il sottoscritto – vede la faccenda in
termini drammatici.
"XX, primario del reparto di Malattie Infettive
dell’ospedale YY ha detto che questa non è altro che l’equivalente di una
banale influenza, e che non c’è alcun motivo di preoccuparsi. Basta con il
terrorismo!", ci urla contro – senza mascherina – con atteggiamento che
non ammette repliche un medico di nostra conoscenza. "A quanti vecchi
viene la polmonite, le complicanze, e poi muoiono?"
Da quale fonte il primario di Malattie Infettive avesse
appreso la notizia che "trattasi di banale influenza" non è dato
sapere. (E’ lo stesso soggetto che nel corso dei mesi ha anche affermato che
"il virus si è indebolito", che "è diventato più gentile",
che "non desta particolari motivi di preoccupazione", citando ogni
volta non meglio precisati "studi internazionali".)
A mo’ di confronto, lo scorso 3 ottobre abbiamo letto una
dichiarazione di Anthony Fauci secondo la quale "il virus è ancora
misterioso; ci preoccupano soprattutto le miocarditi che insorgono in soggetti
non più positivi a due mesi di distanza dalla guarigione".
Potremmo affermare che a circa un decennio dall’esplosione
della Grande Crisi Economica (statunitense, e poi mondiale – ricordiamo tutti
il fallimento della Lehman Bros, con quegli impiegati che lasciavano
precipitosamente gli uffici portandosi dietro grossi scatoloni) l’attuale
epidemia di Covid ci costringe nuovamente a fare i conti con il nostro sapere e
con il problema a esso collegato della bontà delle nostre fonti, problema che
diventa sempre più grave con la proliferazione dei "social media"
resa possibile dal basso costo della linea veloce Internet e la parallela crisi
economica che investe quotidiani e periodici, sia su carta che in Rete.
Importante per tanti
motivi – non ultimo tra i quali, che le ricadute negative in termini di
occupazione da essa derivanti pesano ancora oggi – la "crisi del
2008" fu un perfetto banco di prova delle teorie economiche, un
"esperimento naturale" che si verificava in tempo reale. La teoria
era dura, i grafici complessi. Ma come acutamente notò Paul Krugman, mentre un
tempo ogni brillante studioso avrebbe testato ipotesi e scritto un
"paper" da sottoporre ai colleghi, che avrebbero poi esaminato il suo
articolo su una rivista universitaria e così via – sarebbero trascorsi anni –
la Rete, i blog e la potenza di calcolo dei nuovi computer consentivano una
messa alla prova della modellistica e delle teorie e un affinamento delle
possibili soluzioni da sottoporre a chi di dovere.
E se il dibattito è serio, se è ben documentato, è sorprendentemente
lineare da comprendere. Ne restano tracce riscontrabili ancora oggi. Da parte
nostra, abbiamo recentemente rinfrescato due articoli dello stesso Krugman
dedicati alla vicenda, con l’addentellato della definizione dispregiativa di
"Sugar!" – come a dire, "è solo zucchero, piacevole al palato ma
privo di effetti durevoli" – data dal Segretario al Tesoro Tim Geithner
alla proposta di Christine Romer di aumentare di molto la grandezza
dell’"economic stimulus" che l’amministrazione Obama si apprestava a
varare quale misura a sostegno dell’occupazione. (Proprio in questi giorni
abbiamo letto per la prima volta un articolo apparso nel 2011 sul Washington
Post che ben illustrava l’episodio.)
Il salto tra le discussioni di cui s’è detto e quanto
pubblicato dai quotidiani italiani che ci capitava di leggere era angosciante:
non si capiva niente, e spesso sorgeva il sospetto che i "giornalisti
economici de noantri" non avessero fatto studi sufficienti a comprendere i
reali termini della questione. Questa impressione rimane ancora solida quando
la mente va all’indietro – a scelta: la stagflazione degli anni settanta, la
politica espansiva di Paul Volker che propiziò "l’espansione
reaganiana", l’espansione di Clinton (più lunga e duratura di quella di
Ronald Reagan), il problema del deficit federale e via dicendo.
Non vorremmo ridurre un problema di portata mondiale a un fatterello italico, anche in
considerazione del fatto che l’unica lingua che riusciamo a comprendere a un
discreto livello è quella inglese: ignoriamo quindi i misfatti perpetrati in
altre lingue.
Ma quando un quotidiano italiano ricorre a un parere di buon
livello tecnico (non scriviamo "autorevole" a bella posta, perché
molti pareri presentati quali autorevoli non sono molto più di carta straccia)
i conti tornano.
Resta il problema del perché molte firme prediligano il
"nulla", e perché le redazioni così impostino il prodotto editoriale.
Resta il mistero di un giornale che ospita spazi quali "il
retroscena", "il punto", "il dibattito", "l’analisi"
a proposito di fatti che sono non di rado fantasmatici. (Sfidiamo il lettore a
trovare un senso fattuale a un articolo che inizia così: "In ambienti bene
informati si mormora che il segretario avrebbe confidato ad alcuni dei suoi
fedelissimi (…)".
Le conseguenze per il rimbambimento dei lettori sono
devastanti. Facciamo un esempio: dopo una campagna elettorale sanguinaria,
Donald Trump fa un discorso presidenziale di lungo respiro. Giunge puntuale la
corrispondenza: "Giunto dove voleva, Trump ha capito che doveva dismettere
l’abito estremista per parlare al centro della Nazione (…)". Dopo alcuni
giorni, Trump fa un discorso di segno opposto. Corrispondenza: "Mentre si
rivolgeva al centro, Trump ha capito di dover dare un segnale alla destra che
scalpita e chiede che le vengano pagate le cambiali (…)." E così via,
tutto trova una logica spiegazione, ma solo il giorno dopo. Poi magari uno
muore e gli raccolgono gli articoli in un libro.
Dobbiamo deludere il lettore ammettendo che l’unico giornale
di cui conosciamo a fondo i difetti è la Repubblica, che leggiamo regolarmente
dal 1978. Se dovessimo descriverne il contenuto degli ultimi anni, prima della
svolta recente, diremmo "40% pastone politico, 30% cultura intesa come
libri e il rimanente, vario." A leggere il quotidiano ignorando tutto
dell’Italia si penserebbe al nostro Paese come un luogo che pullula di
formidabili lettori – soprattutto di romanzi, però, e già qui qualche sospetto
dovrebbe nascere.
Conseguenza drammatica, ogniqualvolta c’è un problema si
chiede un parere… a uno scrittore. Dal terrorismo in Francia alla Brexit nei
suoi vari addentellati politici, sociali ed economici gli unici numeri di
telefono internazionali in possesso della redazione sembrano essere di
scrittori. Economisti, sociologi, politologi, poco o niente. Ma tanti
scrittori, che da "profondi conoscitori dell’animo umano" si suppone
abbiano "il polso della nazione". Fatto molto curioso, quasi ogni
intervistato ha un libro in uscita, molto spesso in lingua italiana.
E si noti che, per quanti problemi abbia e a dispetto di
tutte le rubriche di sesso che mette in prima pagina come
"clickbait", il Guardian cose serie ne pubblica. Intendiamo, un
termine di paragone ormai dovremmo averlo. Il New York Times è su un altro pianeta.
Capita ogni tanto di
sentirci chiedere quali siano le nostra fonti di informazione. La risposta è
semplice: un quotidiano locale, uno nazionale, il Guardian (al quale non siamo
abbonati, ma a favore del quale a fine anno facciamo una discreta donazione) e
il New York Times (al quale siamo abbonati).
Spiace dirlo, ci capita spesso di sentirci rispondere
"Eh, beato tu che hai tanto tempo di leggere". Lasciando da parte gli
aspetti più miseri e volgari della questione, è evidente che ai nostri interlocutori
sfugge il punto cruciale: che non è quanti articoli si leggano, ma per quanto i
soldi che spendiamo possano tenere in vita delle fonti alle quali riconosciamo
indipendenza, competenza e onestà.
Non si tratta della perfezione o della "caccia all’errore"
– il Guardian ha una critica musicale molto spesso disumana, un misto tra The
Wire e The Face, con in più uno spruzzo di ideologismo che rivaleggia con
quello del Manifesto dei bei tempi andati (non lo leggiamo da secoli, scuse
anticipate nel caso il senno fosse stato alla fine ritrovato). Ma se è il
momento della Brexit – o del Covid – le competenze non si possono inventare
all’ultimo momento (va anche detto che per ciò che riguarda il Labour e
dintorni il Guardian offre spesso "otto pareri diversi otto", ma si
suppone che questo sia il tentativo di "accontentare tutti"
"come un quotidiano pluralista deve fare". Olé!)
Il fattore soldi è di primaria importanza. Quando Donald
Trump vinse le ultime elezioni presidenziali il New York Times – che certo della
vittoria di Hillary Clinton aveva immaginato una situazione "business as
usual" – si trovò a dover stanziare di tutta fretta un milione di dollari
e a spedire cinque giornalisti in più a coprire Washington. A oggi, i circa sei
milioni di abbonati consentono al quotidiano statunitense un minimo di
tranquillità, nonostante le condizioni economiche provocate dal Covid abbiano
ulteriormente falcidiato le entrate pubblicitarie.
Di tanto in tanto ci torna in mente il famoso "pipistrello infetto fuggito da un laboratorio
militare di Wuhan a diffondere il virus in tutto il mondo". Dobbiamo
ammettere che il numero di sciocchezze che abbiamo sentito a proposito del
Covid è alquanto basso. Il merito è della famosa "limitazione
naturale": non guardiamo mai la televisione, non sappiamo neanche come
accedere a Facebook e Twitter, limitiamo accuratamente il numero dei nostri
interlocutori. Siamo rassegnati al fatto che non capiremo mai niente di quasi
tutti i campi dello scibile, cerchiamo di capire come vanno costruiti i
fondamenti della comprensione.
Per motivi che non siamo mai riusciti a comprendere, alla
maggior parte delle persone sembra naturale "capire tutto" e
"riuscire a parlare con sicurezza di ogni cosa" in assenza di ogni
elemento di conoscenza in materia. Molti non sanno neppure argomentare
correttamente, da cui l’illusione che una pseudo-spiegazione basata su un
ragionamento circolare possa reggere.
Ricordiamo dialoghi quali "Perché il mare è
agitato?". "Perché Poseidone è adirato". Non c’è niente di male ad
ammettere di conoscere il mondo non molto meglio di come lo conoscevano gli
antichi Greci. Grazie al progresso scientifico e tecnico e alla
differenziazione sociale chiunque può oggi godere dei ritrovati ultimi.
Se vogliamo sapere a che punto è lo sviluppo del vaccino
anti-Covid diamo un’occhiata al New York Times e al Guardian, avendo ben
presente i tempi tecnici occorrenti per la sperimentazione, la preparazione e
la somministrazione all’intera popolazione mondiale. Si tratta di anni. Ci
sfugge quindi il senso di titoli quali "Il vaccino a novembre",
"Il vaccino disponibile in primavera" e cose simili.
In parallelo a quanto
accaduto con la "Grande Recessione" del periodo post-Lehman Bros, il
problema presentato dal Covid è anche un’opportunità per la comprensione
scientifica (e per una più stretta integrazione delle nazioni).
A oggi, la scienza è il sapere maggiormente verificabile e auto-correttivo
tra quelli a nostra disposizione. Qualità che non sono automaticamente
trasferibili ai singoli scienziati, che possono benissimo possedere quelle
caratteristiche poco invidiabili – vanità, invidia, disonestà – che
caratterizzano figure appartenenti a qualsiasi professione.
Purtroppo le ragioni di autocorrezione che
contraddistinguono le affermazioni scientifiche sono ormai opache a un pubblico
convinto che "ogni opinione ha uguale dignità". Da cui la
cancellazione di ciò che rende ben fondata un’asserzione.
(Ricordiamo di passata un ministro – Maria Elena Boschi? –
replicare all’asserzione "Ci sono tanti professori universitari di nome
che trovano molte pecche nel vostro progetto di riforma costituzionale"
con la frase "E noi abbiamo tanti bravi giovani ricercatori che la pensano
in modo opposto". All’epoca ci siamo chiesti come pensassero di risolvere
il dilemma, forse a colpi di bastone?)
Su queste credenze che finiscono per segare il ramo su cui
si è seduti si è proceduto per decenni, con i talk show a fare ascolti facendo
accapigliare chi passava di lì. Per somma disgrazia, ci dicono, nei mesi scorsi
valenti virologi sono andati ad accapigliarsi anche loro sul piccolo schermo,
certo non rendendo un buon servizio alla causa della verità. I quotidiani
nazionali, ritenendo probabilmente poco "emozionante" una discussione
pacata sulle cose importanti, hanno offerto il microfono a chiunque avesse una
bocca. E la cosa grave è che molto spesso si aveva l’impressione che chi faceva
l’intervista avesse preparato delle domande ma non fosse in grado di valutare
la correttezza – neppure quella logica – delle risposte.
A noi sono toccate le mezze figure cui la stampa locale ha
regalato l’apparente rivincita su vite che si indovinano non poco fantozziane.
(Una delle poche volte in cui abbiamo davvero desiderato che l’unico giornale
locale rimasto ancora in vita mordesse la polvere.)
In teoria, è ben
possibile che il tipo di conoscenza necessaria a preparare il contrattacco nei
confronti del Covid (che, detto tra parentesi, a dispetto del pandemonio
sociale che sta provocando non è certo il più temibile dei virus capaci di fare
il salto tra l’animale e l’uomo) taciti per un certo periodo la babele dei
linguaggi "aventi tutti pari dignità" che a livello di massa ci
affligge ormai da svariati decenni, complice la schiera di medici che avendo
sottoscritto il "Giuramento d’Ipocrita" prescrivono a man bassa
rimedi omeopatici e integratori a go-go.
Ma non è detto che le cose vadano lisce. Panico di massa,
calcoli politici errati, un tornaconto commerciale miope le cui conseguenze
negative non è certo si possano controbilanciare in tempo utile, molto congiura
a far pendere il piano inclinato in direzione del disastro.
Storia recente, William Hanage, professore di epidemiologia
ad Harvard, ha affidato al Guardian – Britain’s failure to learn the hard
lessons of its first Covid surge is a disaster – la sua preoccupazione per il
modo inadeguato in cui la nazione sta affrontando l’epidemia, ricordandoci nel
frattempo che com’è naturale per qualcosa che impariamo a conoscere a poco a
poco la lista dei sintomi del Covid continua a crescere (altro che "è solo
come una banalissima influenza"!).
Ma va sempre tenuto presente che quanto discusso al bar non
è la stessa cosa della (perfettibile) conoscenza scientifica. Un buon esempio è
l’articolo di Melinda Wenner Moyer – Biden tested negative. He could still have the Coronavirus – apparso
pochi giorni fa sul New York Times.
Due passi
cruciali: "Negative tests are tricky in part because of the issue of
timing. After people are exposed to the coronavirus, they incubate it for
several days before testing positive or showing symptoms". "There’s
virtually no chance a test will work in the first day or two after exposure,
when the false negative rate is really high – somewhere between 60 and 100
percent".
Che è cosa molto diversa dal dire "Gli è uscito
negativo e poi ha infettato a tutti".
© Beppe Colli 2020
CloudsandClocks.net | Oct. 5, 2020