Beppe Colli:
The Covid Papers,
pt.1
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di Beppe Colli
Sept. 27, 2020
Prima decade di
febbraio, una mattina ci capita di notare sul New York Times – siamo abbonati –
una notizia non poco allarmante: in un luogo a noi sconosciuto di nome Wuhan,
in Cina, sembra essere apparso un misterioso virus, con conseguenze tutte da
decifrare ma che appaiono da subito altamente drammatiche.
Per tutta una serie di motivi su cui sarebbe inutile
dilungarsi, ci troviamo a ripensare all’epidemia di SARS di una ventina d’anni
or sono, quando – ancora semi-freschi dell’acquisto del nostro primo computer e
della conseguente connessione Internet dial-up – passavamo mattine colme
d’angoscia a seguire quell’epidemia su un quotidiano canadese in lingua
inglese. Non era un bel leggere, con quei sintomi drammatici e quella
sproporzione tanto inusuale tra personale medico-infermieristico – venti unità
– e singolo malato; per non parlare dei sofisticati sistemi di filtraggio
dell’aria e delle tute che ricordavano quelle degli astronauti. Forse,
pensavamo, i tanto applauditi tagli alla sanità che avevano indotto a chiudere
i piccoli ospedali di provincia per concentrare tutto in efficienti
conglomerati a parti interconnesse non si sarebbero rivelati ugualmente degni
di lode qualora una malattia tanto contagiosa e dalle conseguenze così
drammatiche avesse fatto la sua comparsa anche dalle nostre parti.
(Di tanto in tanto, ragionando sul Covid, ci siamo chiesti
quali sarebbero state le reazioni di popolo e classe dirigente se il virus
avesse avuto conseguenze graficamente tanto drammatiche quanto quelle del virus
della SARS e dell’Ebola – o, se preferiamo, di quello del bel film di Steven
Soderbergh, Contagion, con la gente che cade per terra in preda ad atroci
convulsioni. Una malattia più "spettacolare", diciamo, e meno a caratteristiche
discrete da reparto di rianimazione.)
Com’è finita l’abbiamo visto tutti, o per meglio dire lo
stiamo ancora vedendo.
Da lettori del New York Times abbiamo seguito con interesse
le corrispondenze dell’inviato Jason Horowitz, che andava su e giù per la
Penisola – c’è stata anche una sua quarantena a Roma – ben descrivendo le
complesse problematiche della cosa. E anche se questo non è il luogo
appropriato per simili considerazioni, abbiamo spesso riflettuto sulla reale
utilità per i quotidiani italiani di avere un corrispondente a New York la cui
fonte primaria è il terminale di un computer. Sarebbe poi tanto diverso se lo
piazzassero in un bel camper sul Raccordo Anulare?
Era il momento di tagliare
i capelli. E dato che il nostro parrucchiere non aveva mai sentito parlare del
misterioso virus di Wuhan, abbiamo provato a ragionare sulle possibilità che
arrivasse qui da noi. La SARS ci aveva risparmiato, ma da allora la
globalizzazione aveva fatto passi da gigante, sia nella sempre più stretta
integrazione dei sistemi produttivi che per quello che riguarda la sfera del
"leisure", con il turismo "economico di massa" a spostare
le folle per tutto il globo. "Me li faccia corti."
Passato un mese, le conseguenze
per il mondo della musica erano già visibili, con uscite discografiche
rimandate e conseguenti e drammatici dubbi su come sarebbe stato accolto
l’album X – pensato in un momento così vicino ma tanto diverso – al momento Y,
momento dal "mood" impossibile da prevedere per definizione. E qui
potremmo dire che la decisione di Dua Lipa di pubblicare e quella di Steven
Wilson di rimandare (e poi rimandare) potrebbero alla fine rivelarsi ambedue
errate.
(Su un piano personale, l’unico album che ci spiace non aver
potuto ascoltare – il gruppo stava per entrare in sala d’incisione proprio al
momento in cui tutto si è fermato – è il terzo dei Wolf Alice, "gruppo
rock con chitarre" del quale rimangono a ogni modo disponibili in Rete
tanti bei concerti, la dimensione asciutta del "live" essendo la
preferita di chi scrive per un quartetto che non suona necessariamente meglio
nella sommatoria a 124 piste e missaggio "in the box" con mouse.)
Di assembramenti "live" nemmeno a parlare, anche
se ci è parso che per alcuni la verità fosse sorprendentemente difficile da
capire. A partire da marzo vengono rimandati tanti tour, da Joe Satriani ai
King Crimson e altri che non ricordiamo più (rimandati di un anno, si dice, da
marzo a marzo e così via). Il primo di cui abbiamo notizia venire interrotto e
tutti a casa è quello di Devin Townsend, la cui proposta – un "operatic
metal concepito da un russo" – è una delle più sgradevoli da noi ascoltate
nel corso degli ultimi decenni. Ci spiace solo a metà per lo "Zappa Group"
che quest’estate doveva fare da spalla ai King Crimson, ma questa volta senza
il tanto odiato ologramma del defunto Maestro.
A maggio c’era chi, beata ingenuità, riteneva ancora
plausibili i grandi raduni estivi. Da un punto di vista legale-assicurativo annullare
un festival di tre giorni non è come annullare la prenotazione di un tavolo al
ristorante, e diremmo che la circostanza che vuole una dichiarazione pubblica
di "emergenza da epidemia" quale presupposto di una cancellazione che
non porti con sé pesi finanziari insostenibili non è necessariamente patrimonio
comune. Da qui il ritardo che alcuni hanno erroneamente scambiato per un
segnale di "scampato pericolo".
Com’è ovvio, abbiamo
aperto il nostro libriccino degli indirizzi e abbiamo cominciato a mandare
messaggi ai musicisti con i quali siamo in contatto. Chi aveva appena
interrotto un tour e chi ne aveva visto sfumare uno che partiva di lì a poco
non era certamente di buon umore. Con spirito tipicamente pragmatico, gli Americani
si davano da fare nei modi più diversi (ricordiamo di passata gli incendi che
ancora poco tempo fa minacciavano tante località della California, da "E’
a circa cinque chilometri da casa mia" a "Qui la situazione non è
tanto grave, ma stamattina dopo dieci minuti che ero fuori mi girava la testa
per il fumo").
Allora ci è venuta una bella idea. Perché non fare un bel
"diario dal Covid"? Abbiamo sondato il mood dei nostri conoscenti in
musica senza però rivelare completamente il nostro progetto. E poi abbiamo
rinunciato. Se chi era nei guai – economici – era indaffarato assai, chi vedeva
le cose da lontano non appariva terribilmente coinvolto. Leggere "su
carta" gli esiti tutt’altro che imperdibili di un processo simile, il mese
successivo, sul settimanale statunitense The New Yorker, ci ha detto che forse
la nostra non era stata un’idea così brillante. "Live and learn".
Le circostanze
drammatiche dell’epidemia in corso hanno fatto velo a quella che era in fondo
una conclusione banale: il convoglio era finalmente giunto a destinazione. O,
se così preferiamo, i nodi erano finalmente giunti al pettine. Una conclusione
alla quale siamo pervenuti dopo ore e ore trascorse a guardare la carta da
parati che abbiamo davanti quando siamo seduti al nostro tavolo da meditazione
(il lettore è caldamente invitato a non ripetere l’esperimento, tutt’altro che
esente da rischi).
Tre anni fa avevamo lasciato i nostri musicisti preferiti in
grande difficoltà. Il blog di Ethan Iverson, Do The Math, ad affidarsi al lavoro
volontario e gratuito. Con sempre in testa quello che il fidato tecnico dei
nostri computer ci aveva detto tanto tempo fa: "Un giorno finirà tutto là
dentro". E ora proprio lì ci trovavamo.
Ricordiamo tutti i giorni in cui – sono i giorni di Napster
– si era proclamata la doverosa gratuità della musica. Ai musicisti rimanevano
pur sempre i concerti e le magliette. Abbiamo dichiarato spesso, chiaro e
forte, la nostra contrarietà, e non in grande compagnia, ma vent’anni sono
passati e la situazione è quella che è.
"E che succede se un evento imprevisto toglie la
possibilità di fare concerti?" è una domanda che non era venuta in mente a
nessuno ma con la quale tutti debbono ora confrontarsi.
Purtroppo quella dei "musicisti che fanno musica
difficile" è una categoria stracolma di entità il cui pubblico è sempre
meno numeroso. Il tentativo è quello di sbarcare il lunario ricorrendo al
"contributo diretto dei fan". Ma i fan fanno il tifo per numerosi
preferiti, e devono forzatamente scegliere a chi regalare l’obolo. Il risultato?
Artisti che mai hanno degnato Facebook e Twitter si rendono ridicoli postando
messaggi a volte imbarazzanti, con atteggiamento ruffiano da venditore di
automobili usate. Non parliamo dei sorrisi: fare sorrisi fasulli è un’arte
difficile da apprendere, soprattutto per chi in età.
Va da sé che il "contributo pubblico" va diviso
fra troppi questuanti; e non dimentichiamo che nell’epoca moderna è il mercato
a fornire validazione al pubblico.
Frattanto il sistema "all you can eat" ha preso
finalmente piede, da cui case discografiche tornate al profitto e artisti dai
grandi numeri con non troppi problemi economici. Per gli altri, com’è noto,
restano concerti e magliette… qualora possibile.
Se togliamo dal campo
le "megastar" l’unico nome che ci viene in mente per quanto riguarda
la definizione di "prosperità in Rete" è quello dei Pomplamoose
(detto tra parentesi, il "lui" del duo, Jack Conte, è anche il
fondatore dell’ormai celebre sistema di finanziamento diffuso denominato
Patreon). Ma nel corso di un intero decennio i Pomplamoose hanno sempre
lavorato "dentro" YouTube, con una focalizzazione sulla sfera
"virtuale" che considerava poco più che residuale l’attività
"live". Va da sé che la tipologia che definiremmo
"popolare" – che non vuol dire affatto scadente e che non implica che
la musica risulti priva di una sua specifica bellezza – si nutre di numeri se
non grandi, almeno medi. E va da sé che cercare il consenso quotidiano implica
il sottoporsi a un continuo e snervante referendum dagli esiti oltremodo
incerti per il quale non tutti i musicisti risultano essere ugualmente portati.
Che ne è stato del
filtro? Se parliamo di carta, diremmo che a tutt’oggi il mensile Made in U.K.
Mojo è l’unico a tentare una (impossibile) quadratura del cerchio, Covid e
Brexit permettendo.
Ma diremmo la carta – intendiamo: il giornale dedicato alla
musica una volta detto "specializzato" – destinata a sparire, e per
motivi "strutturali". Facciamo un esempio.
E’ di recente uscita la ristampa di un vecchio album dei
Rolling Stones, Goats Head Soup. La peculiarità di questa edizione è il lavoro
di rimissaggio compiuto da Giles Martin, figlio dell’illustre George e
"rimissatore ufficiale" dei Beatles. (Giles Martin occupa oggi un
ruolo dirigenziale-operativo a tutto campo in seno alla Universal.) Alla
versione rimissata vanno aggiunte diverse versioni "surround", nonché
inediti dell’epoca più o meno rimaneggiati.
Data la natura "fragile" dei dati digitali, è
oltremodo improbabile che il recensore cartaceo riceva con uno o due mesi di
anticipo sull’andata in stampa il file che gli consentirebbe di fare un buon
lavoro. Mentre chi opera in Rete – così è successo per folklore,
l’album-sorpresa di Taylor Swift di cui si dirà tra breve – può ricevere il
file alcune ore prima della pubblicazione, lavorare tutta la notte e fare
ugualmente un figurone. (Leggere una decina di recensioni dell’album in
questione rende palese la molto diversa caratura dei critici coinvolti.)
Ci è capitato di recente di leggere una recensione cartacea
della nuova edizione di Goats Head Soup, firmata da un emerito buffone
qualcuno che non gode della nostra stima, e il risultato è quello che era
logico attendersi: "quant’è bello questo album", mentre del
rimissaggio e del resto non c’è alcuna traccia.
E se parliamo del nuovo album dei Flaming Lips, American
Head, il risultato non cambia: per gli stessi motivi, le recensioni
approfondite sono in Rete.
"A morte la carta, viva la Rete", allora?
Purtroppo le cose non sono così semplici. Se in un non troppo lontano passato
il lettore acquistava un giornale "tutto intero", oggi click,
pubblicità e possibilità di acquisto viaggiano anche nel caso di un oggetto
singolo. E quel benedetto file qualcuno lo deve inviare. Piangiamo quindi la
scomparsa della recensione negativa. E non solo la stroncatura, ma anche la
recensione "tiepida".
Cosa che segna un paradosso: che mentre negli ultimi anni la
competenza di chi scrive in Rete è senz’altro migliorata – con i "bei
nomi" a cercare di sbarcare il lunario, gli strafalcioni di ieri sono
storia vecchia – questa competenza è oggi finalizzata a uno scopo meramente
laudatorio.
C’è inoltre un fattore per così dire accessorio: da sempre
tutti i giornali "generalisti" parlano di musica, ma gli artisti di
cui si occupano oggi non devono necessariamente creare musica
"accattivante" o "stupida". E’ la possibilità di
"soddisfare l’occhio" ad aprire ulteriori orizzonti. E se nello staff
della testata non c’è nessuno all’altezza del compito – o se è preferibile che
anche l’intervistatore abbia un nome – basta mettere mano al portafoglio.
(Per dare uno sfondo alla cosa, di recente era Cardi B a
intervistare Joe Biden.)
Esistono gli
"album Covid"? Mettendo da parte l’ultimo lavoro di Fiona Apple, di
cui si dirà tra breve, c’è stato chi ha provato ad accostare le due cose
"per consonanza". Un esempio è Petals For Armor, album che segna
l’esordio solista della cantante dei Paramore, Hayley Williams, a tre anni di
distanza da After Laughter. Petals For Armor è stato pubblicato "a puntate"
– capitolo I a febbraio, capitolo II ad aprile, l’album tutto ai primi di
maggio. Ma le angosce del lavoro appaiono non molto più di una coincidenza,
così come il carattere "mesto & meditativo" dell’album dei
Flaming Lips sopra citato.
"Album-Covid" di tutto diritto è invece quell’How
I’m Feeling Now scritto e registrato in sei settimane da Charli XCX durante il
suo (del tutto inatteso) lockdown, completo di video, consultazione quotidiana
con i fan, discussione di musica, testi e quant’altro, e pubblicazione il 15
maggio.
Come noto, Taylor Swift ha annunciato la pubblicazione del
suo album-sorpresa, folklore, con un anticipo di sole ventiquattro ore sul 24
luglio. L’album è stato concepito e registrato in gran segreto mentre l’artista
statunitense era in isolamento. Lodi a parte, ricordiamo che folklore ha
venduto due milioni di copie durante la prima settimana, un milione e
trecentomila delle quali nel primo giorno. (Diamo uno sfondo alla cosa
ricordando che in tempi abbastanza recenti c’è chi è andato al #1 delle classifiche
USA con settemila copie vendute.) Per chi segue lo streaming, diciamo della
cifra record di ottanta milioni nel primo giorno su Spotify.
Diciamo adesso di
Fiona Apple, artista tra le nostre preferite dal giorno in cui, del tutto
casualmente, scoprimmo il suo album di esordio, fresco di uscita.
Fiona Apple è una grande artista, e come molti grandi
artisti non è necessariamente destinata a platee oceaniche. Potremmo dire che
Fiona Apple piacerebbe a molti se il mondo fosse molto diverso da com’è.
Come molti grandi artisti Fiona Apple possiede una logica
tutta sua, logica che non necessariamente coincide con quella di chi si suppone
dovrebbe spianarle la strada sì da farle raggiungere più agevolmente i
risultati sperati. Pensiamo a Pat Leonard: perfetto per Madonna, per Fiona
Apple sarebbe stato un disastro.
Cosa strana, lo scorso anno abbiamo cominciato a notare il
nome di Fiona Apple che spuntava qua e là, quale supposta influenza o
"grande artista non sufficientemente apprezzata". Ci accorgevamo con
orrore che qualcuno ai piani alti aveva pensato a un lancio in grande stile. La
Epic aveva pensato al mese di ottobre, con la speranza che l’epidemia fosse nel
frattempo scemata, ma l’artista ha spinto per un’uscita digitale fissata al 17
di aprile (da fan, crediamo che l’impossibilità di andare nei talk-show
televisivi a promuovere l’album abbia avuto il suo peso).
"Fiona Apple’s Art Of Radical Sensitivity" è il
titolo del pezzo (un mini-libro: trentatré cartelle) a firma Emily Nussbaum che
appare sul New Yorker in data 16 marzo. (Skin In The Game è invece il titolo
del saggio nell’edizione cartacea.) Sconosciuta a chi scrive, nel 2016 la
Nussbaum ha vinto il Premio Pulitzer per la critica, nella categoria
"critica televisiva".
Dopo attenta lettura ci sentiamo di dire che l’artista viene
fuori nel peggiore dei modi. Del tutto involontariamente, date le sue esplicite
ambizioni promozionali, il pezzo presenta l’artista come un Syd Barrett al cubo
il cui scopo principale sembra essere quello di fare felici le farmacie e gli
spacciatori del circondario. Una caricatura d’artista che neppure per un
momento lascia presagire la profondità e la bellezza della musica.
Non sapendo a quale appiglio aggrapparsi, la promozione
decide di sottolineare la natura di "reclusa" di Fiona Apple.
In un pezzo intitolato The Homemade Insight Of Fiona Apple’s
Fetch The Bolt Cutters apparso in data 18 aprile sul New Yorker, Carrie Battan
apre con un clamoroso "Fiona Apple is a longtime practitioner of social
distancing. For nearly two decades, she has seldom left her
home in Venice Beach, except to walk her dog, Mercy. She has no social media.
She tends to avoid the press, and she rarely listens to new music, owing to
some combination of disinterest and an aversion to be influenced. These
qualities lend her work a kind of feral authenticity, with no trend lines to be
traced between its emotional eruptions and the music of her peers". E
avanti così per settemila battute.
Il New York Times organizza una tavola rotonda dal titolo
Fiona Apple Is Back And Unbound: Let’s Discuss, non priva di spunti sensati.
Non ne offrono di certo gli interventi di Lindsay Zoladz, che una volta di più
tira fuori la tipica cornice autoreferenziale propria a chi da molto tempo non
esce dal suo quartiere:
"There’s been a lovely feeling of
communal excitement around this record’s release. Maybe I’m biased toward
knowing more Fiona Apple fans than the average person, but it certainly feels
much of the music world is attuned to her frequency right now – as I write
this, my downstairs neighbor is blasting the entire album. It’s a bit
counterintuitive, since there wasn’t a single or much traditional promo
surrounding this record, but it seems to me like the first big musical
monocultural event to unite us all in our self-isolation (…)".
Ma se scriviamo queste cose per un album che vende
all’incirca settantamila copie, cosa dovremmo dire in termini di "big
musical monocultural event" dell’album di Taylor Swift che ha venduto
alcuni milioni di copie? O c’è qualcosa che ci sfugge?
Il seguito della
storia ognuno lo vedrà da sé, innanzitutto nelle cifre – locali e globali – che
ormai da tempo ci fanno quotidiana compagnia.
Se parliamo di musica, il contesto è ovviamente
inflazionistico: musicisti quali Nick Cave e Laura Marling hanno iniziato a
fare livestream a pagamento, ma altri suonano online gratis.
Ci è tornato in mente un bell’articolo di Matt Zoller Seitz
intitolato What’s Next: Avengers, MCU, Game Of Thrones, And The Content Endgame
apparso il 29 aprile dello scorso anno sul sito RogerEbert.com.
In estrema sintesi – l’articolo è lungo e complesso, ma
interessante e liberamente accessibile (almeno al momento in cui scriviamo) –
potremmo dire che il critico si interroga sulla possibilità di sopravvivenza
dei film al di fuori della cornice di serializzazione di matrice televisiva che
ha imbevuto di sé il cinema di oggi. Una distinzione tra forme d’arte cara a
Steven Spielberg, esplicitamente citato, con il mantenimento dell’esperienza di
sala.
Matt Zoller Seitz fa riferimento a due saggi scritti
vent’anni fa da Godfrey Cheshire: The Death Of Film e The Decay of Cinema. Tra
le previsioni di Cheshire, l’idea che "dopo il ventesimo secolo i film non
avranno né la singolarità estetica né la centralità culturale di cui godono
oggi".
Suntando Zoller Seitz, la dimensione odierna privilegia
"un discorso continuo" nel circuito della Rete che ingloba il
prodotto seriale e la fruizione collettiva e a confronto del quale un diverso
tipo di blockbuster – e si noti che parliamo di blockbuster, non di cinema
d’essai – ha il difetto di costituire un’esperienza che dopo essere finita è
conclusa. "Tutto quello che ti attende dopo averlo visto sono i tuoi
pensieri, e forse discussioni con altra gente che lo ha visto. Intendo visto
per davvero, non visto con un occhio solo mentre guardava Instagram".
(…) "C’è ancora un posto nella cultura di massa per questo tipo di
entertainment?"
Le condizioni odierne
spingono con forza il tutto dentro la Rete, con una progressiva velocizzazione
che è ovviamente impossibile da controllare, dipendendo essa da fattori esterni
e indipendenti quali un virus ancora in buona parte sconosciuto.
Collezionisti a parte, sembra tenere ancora l’interesse per
i box-set dei "classici", da Joni Mitchell a Neil Young, da John
Lennon ai Rolling Stones, da Elton John a David Bowie, dai Doors ai Pink Floyd.
Ma i nomi "giganti" di oggi si qualificano tanto
per la loro "vita sociale" che per la loro musica, alimentando un
tipo di discorso – quello che avviene in Rete e che si intreccia strettamente
al prodotto – che la sola musica non sembra più in grado di sostenere.
© Beppe Colli 2020
CloudsandClocks.net | Sept. 27, 2020