Cosa Brava
Ragged Atlas
(Intakt Records)
La
notizia che Fred Frith si preparava a effettuare un discreto numero di
date (a ben considerare, un vero e proprio tour) alla testa di un’agguerrita
"formazione rock" ci sorprese non poco: fu in quell’occasione,
all’incirca due anni or sono, che ci accorgemmo di quanto consideravamo ormai
chiuso per sempre quel modo di rapportarsi alla musica che ricordavamo per
l’ultima volta su un palco ai tempi dell’esperienza con il sestetto di Keep
The Dog (erano davvero già passati vent’anni?). Notizie più precise dicevano
di un quintetto denominato Cosa Brava (il modo in cui un americano pronuncia
Costa Brava? la traduzione ispanica di una Brave Thing – una Cosa Coraggiosa
– come ci è stato autorevolmente suggerito? non sapremmo dirlo, e il sito
dell’etichetta non lo dice). Ovvio attendersi l’incisione di un album, a
repertorio ormai ben rodato. Le notizie successivamente giunte dal fronte
concertistico dicevano di gran belle esibizioni, ma erano pareri che – ferma
restando la nostra fiducia nelle fonti – accoglievamo con più di una punta
di salutare scetticismo: abbiamo capito da tempo che in un’era di
"diminishing expectations" quello che si vorrebbe davvero ascoltare
e quello che si è disposti ad accettare come "sufficientemente buono"
sono entità spesso molto distanti.
E’
a questo punto che esigenze di chiarezza (soprattutto, ma non esclusivamente,
a beneficio dei lettori più giovani) ci impongono di accennare lestamente
alla qualità "rock" di questo quintetto, dal punto di vista del
linguaggio. Questione antica, che in uno scenario dei primi anni settanta
vedeva la critica e il pubblico europei definire senza problemi
"rock" gruppi quali Henry Cow, Can e Faust per i quali la critica
statunitense adottava invece definizioni "col trattino": art-rock,
avant-rock e via dicendo. Una questione culturale, e non un mero problema
definitorio. Ed è curioso vedere come a distanza di decenni un gruppo come
gli Eagles sia oggi considerato negli USA più un "caso particolare" che
un sinonimo tout court di "rock": il segno di quanto si sia ampliato
in quel paese il numero degli stili "con diritto di cittadinanza".
Grande
sorpresa, quindi, ma aspettative temperate, le nostre. Il perché è presto
detto.
E’
ovvio che sbaglierebbe di grosso chi scegliesse di definire gli Henry Cow
l’unica cosa di qualità fatta da Fred Frith nel corso della sua lunga carriera.
Ma crediamo possa essere sostenuto senza tema di smentite che gli Henry
Cow sono stati una delle vette in assoluto della musica rock di tutti i
tempi – e quindi, per logica conseguenza, anche della carriera di Frith.
E gli Henry Cow erano un collettivo – e il classico esempio di un tutto
maggiore della somma delle sue parti – dove la sezione ritmica (ricordiamola:
erano Chris Cutler e John Greaves) era in grado di rendere plausibili momenti
e transizioni altrimenti di difficile credibilità.
Fu
dopo gli Henry Cow e gli Art Bears che Frith decise di "vivere nel
cuore della bestia": una mossa indovinata, che gli rese possibile
entrare in contatto con un numero enorme di musicisti dagli stili più disparati
e di interpretare talvolta il ruolo di fratello maggiore – pensiamo al
suo lavoro con gruppi quali Curlew e Orthotonics (e, nel vecchio continente,
agli Etron Fou Leloublan). Ma "vivere nel cuore della bestia" consente
anche di essere partecipi di quella che una volta prendeva il nome di "teoria
dell’altopiano": un luogo dalle pareti scoscese e quindi difficili
da scalare, ma che una volta che si è arrivati in vetta offre pieno diritto
di cittadinanza e grandi opportunità.
Seguimmo
il Frith degli anni ottanta con ovvio interesse: dopo Gravity, i Massacre,
gli Skeleton Crew, le cose con Zorn e Kaiser, i Curlew e molto altro, sempre
considerando i momenti a noi sgraditi solo una semplice questione di
"divergenza di gusti" (un buon esempio è costituito da The Technology
Of Tears, album per noi assolutamente indigesto). Tutto ciò fino alla pubblicazione
di The Top Of His Head, che ricordiamo con particolare raccapriccio anche
in ragione del costo: fu uno dei primi CD da noi acquistati in un tempo in
cui i CD erano davvero costosi. Fu allora che pensammo che se quell’uomo
aveva trovato plausibile venderci quella cosa allora per lui non ci sarebbe
stata più roba tanto scadente da non poter essere venduta. Che è un’affermazione
che ha da essere spiegata.
Teatro
e danza sono stati i luoghi in cui, con lenta ma sicura progressione, Frith
ha scelto di spendere la propria competenza in materia di musica. Si tratta
di cornici in cui la musica è (giustamente) solo una componente, e nemmeno
la più importante. La musica che ne risulta, e che eventualmente viene
quindi successivamente venduta su CD, è (tecnicamente parlando) un sottoprodotto,
dove il CD è fatto più per rendere accessibile la musica in vista di altri
lavori di natura similare che per renderne partecipe un pubblico di normali
acquirenti. Si consideri inoltre che teatro e danza sono ambiti per definizione
autoreferenziali, dove nessun introito di un pubblico pagante potrà mai
coprire se non una minima parte delle spese. Fin qui la realtà indubitabile.
La nostra personalissima opinione è che, paragonato alla parte migliore
del pubblico rock, gran parte del pubblico delle "belle arti" sia
sorprendentemente di bocca buona, mentre la cornice autoreferenziale di
cui s’è detto prevede che il ruolo del critico sia ancillare, se non complice
(coloro i quali reputano incompetente e servile la critica rivolta al "mercato
di consumo" dovrebbero provare a leggere le cose scritte a proposito
di rassegne e spettacoli finanziati da enti pubblici). Uno scenario che
crediamo in grado di spiegare strutturalmente i motivi per cui un gran
numero di musicisti di buona validità sia rapidamente caduto nella routine
e nella stanchezza una volta entrato nel grande buco nero della musica
sovvenzionata.
Con
discreta lungimiranza, Fred Frith ha affiancato a danza e teatro svariate
collaborazioni con i musicisti più diversi, momenti di improvvisazione
e
"progetti speciali" quale la resurrezione dell’Art Bears Songbook
(c’è anche un posto di Professore al prestigioso Mills College). Si tratta
però sempre di cose che vivono di sovvenzionamenti "a prescindere".
E qui ci troviamo a pensare che saranno almeno trent’anni che Frith non suona
musica la cui salute dipende dalla risposta concreta di un pubblico pagante,
il che è sicuramente un bel successo: "vivere nel cuore della bestia"
prescindendo completamente dall’esistenza del mercato non è certo un’impresa
da poco.
Da
parte nostra abbiamo continuato a seguire il lavoro di Frith (tutto? ovviamente
no) con momenti di altalenante gradimento. Frith ha gentilmente deciso
di facilitarci il compito fondando la Fred Records, etichetta dedicata
alla pubblicazione sistematica di suoi lavori solisti in alcuni casi da
molto tempo fuori catalogo.
Le forze
messe in campo per Ragged Atlas sono indubbiamente notevoli, pur se di
caratura diseguale. Autore di testi e musiche, Frith è ovviamente impegnato
a chitarra, basso e voce. Membro della formazione "scary rock" denominata
Sleepytime Gorilla Museum, la violinista e cantante Carla Kihlstedt è conosciuta
anche per la sua carriera solista in ambito accademico e colto e per numerosi
lavori discografici, alcuni dei quali la vedono a fianco dello stesso Frith.
Batteria e percussioni per Matthias Bossi, anch’egli Sleepytime Gorilla
Museum. Figura familiare dai tempi di News From Babel e Skeleton Crew,
la tastierista, fisarmonicista e cantante (e arpista con Björk) Zeena Parkins
ha oggi all’attivo numerosi album (solisti e no) e una lunga lista di lavori
per danza e teatro. Un tipo che si presenta con lo pseudonimo di The Norman
Conquest si occupa di "sound manipulation". Con l’eccezione di
Bossi, tutti i membri del quintetto sono coinvolti nella resurrezione dell’Art
Bears Songbook.
Inserito
il CD nel lettore, viene fuori qualcosa di così orripilante – e a volume
assurdamente alto – che ci pare di sentire il nostro impianto pronunciare
le famose parole dette da Greil Marcus a proposito di Self Portrait di
Bob Dylan: "What is this shit"? E in effetti Snake Eating Its
Tail non è roba per spiriti deboli: una specie di "danza di guerra
kirghisa" con botti, urla e colpi di cannone che pare fatta apposta
per animare qualche sequenza bellica in 3D. Per approssimazioni progressive
ci vengono in mente i Gentle Giant, gli Area, i King Crimson periodo "nuevo
metal" e gli Sleepytime Gorilla Museum. Insomma, "What is this
shit"? Un interrogativo per rispondere al quale abbiamo impiegato
una settimana.
L’album
è stato inciso su 24 piste in analogico. Il tipo con il buffo pseudonimo
di cui sopra si è poi occupato di "digital transfers, track rationalization,
and additional recording". Missaggio a Esslingen, masterizzazione
a Oakland per mano della vecchia conoscenza Myles Boisen. Il volume di
suono è annichilente. Per fornire un riferimento concreto abbiamo provato
il brano di Robert Fripp Breathless, da Exposure, usando il CD originale
di una ventina d’anni fa: a manopola del volume in posizione inalterata
sembrava quasi avessimo spento l’amplificatore. C’è ovviamente un prezzo:
il suono di Ragged Atlas è bidimensionale, statico, di plastica, con i
suoni degli strumenti banali e non coinvolgenti (e sì, il fatto che molti
dei suoni siano in sé banali non aiuta). Nulla di nuovo rispetto allo standard
di suono
"moderno", ma un suono che ha coscientemente deciso di privilegiare
l’attenzione ondivaga rispetto alla fruizione attenta.
Rispetto
ai tempi andati Frith è qui più professionale e sicuro. Ma la sua nuova
padronanza delle tecniche di arrangiamento non riesce a nascondere il fatto
che il linguaggio usato è qui sostanzialmente lo stesso dei tempi di Gravity
– e, per le canzoni, di Cheap At Half The Price e The Country Of Blinds.
Intendiamoci, dal vecchio Muddy Waters nessuno si aspettava niente di più
di Got My Mojo Workin’. Mentre il massimo della sorpresa che Mick Jagger
può dare è riprendere Ruby Tuesday. Il problema è che Ragged Atlas offre
timbriche di incredibile anonimato già a partire dalle tastiere, e il fatto
che la Kihlstedt abbia un tocco strumentale incommensurabilmente superiore
a quello del vecchio violino
"balcanico" di Frith mette paradossalmente in luce il carattere
sommamente convenzionale di melodie cui quel timbro incerto aggiungeva qualcosa.
Quel che
difetta è qui soprattutto quello che chiameremmo "il gusto".
La musica ricerca spesso l’effettaccio, il colpo di scena che chiama l’applauso,
trovate di grana grossa che sembrano dovute (non sapremmo dire in quale
proporzione) tanto a un’appannata lucidità quanto a una sfiducia nelle
capacità del pubblico di discernere il sottile. Detto dell’introduzione "kirghisa",
scegliamo qui il filtro modulato di A Song About Love (a 4′ 55" e
5′ 58"), che pare venire da Isao Tomita; la "pausa sapiente dalla
valenza drammatica" dopo "She Blew Herself Up" in Market
Day; una melodia chitarristica il cui referente più prossimo è Concerto
Grosso dei New Trolls (a 2′ 47" e 5′ 20") in Lucky Thirteen;
il crescendo vocale di
"I’d Like To See You Again" su Pour Albert; il corale "Your
Memory Is Fading Away – The Writing Is Fading Away – The Water Is Flowing
Away – The Music Is Fading Away" di Blimey, Einstein, che si vorrebbe
angosciante (incredibile vedere una fisarmonica rimanere "piccola e
sola" alla fine del pezzo).
Superato
lo scoglio di Snake Eating Its Tail, Round Dance ha un primo tema che ci
ha ricordato la Blast From The East di Jeff Beck e un secondo tema, garbato,
per violino, percussioni e fisarmonica. Pour Albert non riesce a comunicare
il previsto pathos a causa di uno svolgimento che risulta forzato. Citando
altro, R. D. Burman cerca nel Bollywoodiano una via d’uscita, ma risulta
di un professionismo troppo evidente per non intaccarne la supposta lievità;
banali le tastiere con pitch bend, da cartolina le tabla finali. Tema strappalacrime
per violino in Falling Up (For Amanda), con parti vocali alla Skeleton
Crew.
Forse la
cosa più simile al vecchio Gravity, Out On The Town With Rusty, 1967 presenta
i classici tempi dispari e il vecchio tema "balcanico" noto a
tutti; tastiere e fisarmonica, buon arrangiamento, uscita di chitarra che
in quest’album riesce a suonare fresca. Come canzone, Lucky Thirteen è
forse la cosa migliore: voce sui due canali dello stereo, tono pacato,
begli unisono voce-violino, il tutto rovinato da quell’assurda uscita di
chitarra. Di Blimey, Einstein si è già detto.
Dentro
quest’album ce n’era, forse, potenzialmente, un altro. The New World presenta
plastica ed effetti in minore quantità, e pare quasi di poter respirare;
chitarra acustica, e siamo di nuovo dalle parti di Gravity. Tall Story
continua la serie positiva, con violino, chitarra, tastiere, fisarmonica
e un tema sbarazzino che per un attimo ci riporta alla mente Lars Hollmer.
For Tom Zé è un brano indubbiamente simpatico, anche se la sua facilità
risulta irrimediabilmente forzata. A Song About Love ha un tema strappalacrime
per violino, come pure Market Day, dove la Kihlstedt sfodera il wha-wha
e gli altri effetti alonati sul violino che già così poco ci avevano convinto
in concerto con Sleepytime Gorilla Museum.
Ragged
Atlas non è un album rock, ma non in ragione del linguaggio usato. Come
il jazz, anche la musica rock prevede la "riconoscibilità" dello
strumentista, a prescindere dall’abilità tecnica. "Espressione di
sé", questa la prima regola del gioco. Il musicista di classica serve
la musica, che non richiede dal musicista di fila che il possesso di un’abilità
tecnica adeguata al compito, l’anonimato essendo qui un pregio. E questo
vale ancor di più per le musiche "di sostegno" a danza, cinema
e teatro. Quelle di Ragged Atlas sono musiche per uno spettacolo invisibile
che esse cercano di far vedere fin nei minimi particolari. In una parola,
kitsch.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2010
CloudsandClocks.net
| May 1, 2010
Fin