Una confusione “epica”
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di Beppe Colli
Jan. 1, 2016
Quindici anni fa nelle
sale di tutto il mondo (occidentale) faceva la sua comparsa Almost Famous, film
nel quale il noto regista statunitense Cameron Crowe rivisitava gli eccitanti e
avventurosi inizi di quella che era stata la sua prima professione: "rock
journalist". Non era certo stato un esordio qualunque: con partenza a
scatto alla tenera età di quindici anni, Crowe era diventato in breve tempo una
stella di prima grandezza di quello che all’epoca dei fatti – il 1973 – era
l’incontrastato numero uno del panorama giornalistico rock internazionale: il
quindicinale statunitense Rolling Stone, giornale che felicemente combinava una
grande tiratura e una invidiabile credibilità.
O no? Era proprio questo aspetto – amico dei lettori o
complice del nemico? pronto a dire le cose come stanno o lingua in affitto in
cambio di ben pagate pubblicità? – che costituiva il campo di battaglia dei
recensori dei due lati dell’oceano, alle prese con un problema aggiuntivo: la
valenza da attribuire alla figura del noto "critico contro" Lester
Bangs, co-protagonista del film nel ruolo di "coscienza critica" e
figura che una morte anzitempo aveva reso ancora più eroica nel suo ruolo di
principale alleato nell’eterna lotta tra "noi" e "loro".
Se è ovvio che questo aspetto – non certo secondario! – del
film era sfuggito ai critici "generalisti", esso era invece stato il
primo oggetto di controversia in un anno che – prodigi del caso – aveva visto
la pubblicazione di una biografia di Lester Bangs e di due antologie di quelli
che accanto a Bangs erano stati i migliori rappresentanti della "critica
contro": Richard Meltzer e Nick Tosches. Figure che con Bangs avevano
costituito la triade poi passata alla storia come "the noise boys".
Robert Christgau – "The Dean of American Rock Critics"
– aveva aperto le ostilità con un intervento sul prestigioso settimanale
newyorkese The Village Voice – giornale di cui musicalmente era sinonimo – con
una recensione intitolata Impolite Discourse – The Noise Boys Ride Again. Sullo
stesso giornale, il famoso e stimato critico cinematografico J. Hoberman
aveva recensito il film di Crowe in un intervento intitolato Generational
Tastes. Dalle pagine dell’alternative paper di San Diego lo stesso Meltzer
aveva detto la sua in un intervento al vetriolo intitolato Third Spud From The
Sun: Cameron Crowe Then And Now. Mentre un’intervista condotta da Scott Woods
per l’indispensabile "contenitore in Rete" Rock Critics e intitolata
Kicks Just Keep Getting Harder To Find aveva tra l’altro consentito a Meltzer
di replicare al già citato articolo di Christgau.
Non era ovviamente mancata un’appendice Made In U.K.
all’insegna della "polemica garbata". Sotto il titolo di A Tale Of
Two Rock Critics, in data 20 ottobre, il quotidiano The Guardian aveva ospitato
due interventi: quello dello stesso Crowe, e quello dello stimato critico rock
Charles Shaar Murray, che nello stesso anno in cui il collega statunitense
iniziava la sua ascesa aveva cominciato a scrivere sulle pagine di quello che
era allora considerato il più battagliero e anticonformista settimanale
musicale inglese, il New Musical Express.
Guardandoci indietro,
è forte l’impressione che il tempo trascorso tra il 2000 e il 2015 sia molto
più lungo di quello trascorso tra il 1973 – e più in generale, tra quella che
un tempo veniva considerata quale "l’epoca d’oro del rock" – e il
2000.
Anche se è scontato che lo stato di salute delle diverse
testate cambi nel tempo, a volte in maniera drammatica, chi nel 2000 si era
voltato indietro in direzione del 1973 aveva visto qualcosa di comprensibile.
Mentre non è certo che lo stesso possa dirsi di chi oggi si volta indietro
verso il 2000.
Da tempo Christgau e Hoberman non scrivono più per il
Village Voice, e da tempo il Village Voice non è più quello di una volta. Ma
Christgau e Hoberman non hanno più trovato un lavoro come quello, e per un
motivo molto semplice: perché un lavoro come quello non esiste più.
L’utilissimo – e non poco entertainer – Rock Critics è in "suspended
animation", e con ragione: se nell’epoca della Rete siamo tutti "rock
critics" chi è oggi un "rock critic"?
Ma attenzione!, guardiamo bene l’oggetto della discussione:
cosa vuol dire oggi essere "complice" delle case discografiche? E
"fare da megafono" per conto di interessi altrui? Chi è oggi un
"amico dei lettori"? E i lettori, cosa ne pensano? C’è ancora della
gente che legge? E non è l’ascolto ormai divenuto esperienza
"immediata" che non passa più per il tramite della verbalizzazione?
E non è quel "motore turbo" del cambiamento che è
la tecnologia il primo responsabile – tramite la Rete, e il suo accesso
"veloce" alla portata di chiunque – del cambiamento di prospettiva?
Nel giugno del 2001
Rock Critics pubblicava un’interessante intervista curata da Steven Ward.
L’intervistato rispondeva al nome di Glenn McDonald, che all’epoca animava un
blog chiamato The War Against Silence. Soprattutto musica rock, e recensioni
scritte il mercoledì sera in una pausa dal lavoro – programmatore di software –
per un compito svolto gratuitamente in un luogo senza pubblicità né ingerenze
esterne.
Interrogato sul futuro della professione di recensore,
McDonald si era così espresso: "Ciò che minaccia di rendere tutto questo
campo obsoleto è che se tu sei in grado di andare su Internet allora non hai
veramente bisogno di qualcuno che ti descriva la musica." (…) "A
questo punto quelle dettagliate descrizioni della musica messe per iscritto
diventano superflue e anacronistiche."
McDonald era sembrato anticipare l’obiezione che ci era
venuta in mente durante la lettura, e aveva così argomentato:
"E’ ovvio che c’è anche l’altro ruolo tradizionale di
"critico" – diverso da quello di "recensore" – che implica
il tentativo di inserire un lavoro in un contesto più ampio, e/o analizzarlo in
un modo più profondo di quello che un ascoltatore casuale e non informato è
preparato o disposto a fare, e così pervenire a una qualche valutazione di merito
artistico." (…) "Questa è una cosa che per quanto riguarda la
musica può essere fatta, ma a) nel campo della popular music non c’è quasi
nessun critico che lo fa, e b) non credo nemmeno che sarebbe interessante se lo
facesse."
Poniamo – è il ragionamento di McDonald – che un certo
numero di critici raggiunga un consenso ben fondato su The Joshua Tree degli
U2, reputandolo un gran bel lavoro. In che senso questa opinione ben fondata
potrebbe essere esente da repliche? Chiunque potrebbe dire – suntiamo qui il
parere di McDonald – "ma a me non piace".
A questo punto cosa resta della critica? Secondo McDonald,
il critico può solo illustrare il rapporto tra sé e quello che ha ascoltato.
Era la fine del mese
di ottobre di quest’anno, e come ogni tanto facciamo nell’illusione di poter
rimpicciolire il divario tra quello che conosciamo e quanto viene pubblicato ci
siamo recati in uno di quei rari negozi che ancora vendono musica. Entriamo, e
ad accoglierci troviamo una cacofonia di voci, archi e fiati che non lascia
presagire nulla di buono. Qualcosa che troveremmo appropriato per una scena
come quella in cui il Faraone e tutto il suo esercito vengono inghiottiti dalle
acque del Mar Rosso che si richiudono – o almeno, questo è il modo in cui
ricordiamo la scena del film I dieci comandamenti, visto con tutto l’istituto
quando ancora frequentavamo la scuola elementare. Ogni lettore potrà trovare
nel proprio dialetto la parola che meglio si attaglia a descrivere questa
musica.
A precisa domanda, ci viene detto che si tratta di uno degli
album del momento – The Epic: doppio CD e triplo LP – a nome Kamasi Washington.
Qui parte un bel solo di piano, la grammatica ci pare quella di quaranta e
cinquanta anni fa, ma la pronuncia ci suona fresca. "Ma è bravo questo Kamasi",
è il nostro commento dopo qualche minuto di ascolto. Ci viene detto che Kamasi
suona il sassofono, e a questo punto parte un assolo di tromba. Insomma, come
un Freddie Hubbard cosciente di quanto è successo in seguito. Poi – ma ogni
tanto ci sono quegli orribili inserti orchestrali – spunta il tenore. Dopo
qualche minuto riconosciamo nel sassofonista la caratteristica che poco amiamo:
suonare per un tempo infinito con le idee che si esauriscono ben prima della
scorta di fiato. Diciamo che il senso della sintesi gli fa difetto. In totale
dovremmo aver ascoltato una buona mezz’ora, e imploriamo un cambiamento.
Chiediamo a chi dovrebbe piacere una simile porcheria.
"A quelli che non ascoltano jazz", è la risposta. Non priva di
logica: chi ascolta jazz riconoscerà che questa musica è vecchia come il cucco
– a botta calda, il primo nome che ci è venuto in mente è quello di Azar
Lawrence, tanto tempo fa. Ma dubitiamo che le condizioni di ascolto oggi
prevalenti, nell’era del multi-tasking, possano propiziare un ascolto attento.
Ci chiediamo chi mai ancora riascolterà questa mostruosità qualche mese dopo
averla acquistata.
Per essere chiari. La nostra condizione di ascoltatori al
momento dell’acquisto di Uncle Meat di Frank Zappa era di assoluta immaturità (avevamo
15 anni). Ma le modalità di ascolto prevalenti all’epoca favorirono un processo
di maturazione dell’ascolto (parliamo comunque di alcuni anni).
Dato che ci è stato
detto che l’album è uscito da qualche mese diamo un’occhiata in Rete.
Recensioni entusiastiche, e punti di riferimento del tutto "a
piacere" (ma troviamo strano che siano tanto numerosi per un lavoro
"così nuovo e innovativo"): Jazz Composers Orchestra, Liberation
Music Orchestra, Sun Ra, John Coltrane, Albert Ayler e altro che non ricordiamo.
Pochi citano Pharoah Sanders, nessuno la Impulse dei primi anni settanta. E
niente Azar Lawrence.
Mettiamo le mani avanti. Il nostro interesse per il jazz è
maturato nel periodo in cui la "nuova musica" era quella dell’Art
Ensemble of Chicago e di Anthony Braxton. La "sintesi coltraniana"
c’era già stata. Andando al passato, il nostro gusto ci ha portato a indagare
più Monk, Mingus e Coleman che John Coltrane, cosa che non ci ha impedito di
indagare – ecco un esempio concreto – Ascension né di seguirne le implicazioni
in album quali la rivisitazione fatta dal quartetto dei Rova in formazione
allargata in occasione del trentennale (Ascension, 1995) e nella versione
"elettrica" (Electric Ascension, 2003) apparsa a nome
Rova::Orchestrova. Da David Murray a David Ware, il "tenorista
torrenziale" non è mai stato il nostro ambito musicale preferito.
Qui però si tratta di tutt’altra cosa. Definire nuova e
innovativa una musica che è vecchia. Il che – ovviamente – non implica
destituire di fondamento il semplice godimento di chi dice "a me
piace".
La nostra situazione ci ricorda quella in cui si viene a
trovare il personaggio interpretato da Woody Allen in Annie Hall quando – in
coda alla biglietteria di un cinema – si trova ad ascoltare gente che dice
assurdità su Marshall McLuhan. Con clamoroso colpo di scena, Allen tira fuori
da dietro un cartellone proprio Marshall McLuhan, che gli dà ragione e dice a
quei signori (citiamo a memoria) "Questo giovanotto ha ragione, voi state
dicendo un mucchio di sciocchezze". A questo punto Allen si rivolge allo
spettatore dicendo "Ma perché la vita non è così?".
E non avevamo ancora
visto niente. A ridosso del Natale diamo un’occhiata alle preferenze dei
critici del New York Times e vediamo che il critico jazz Ben Ratliff mette al
primo posto proprio The Epic. Ora, dobbiamo confessare che quando pensiamo a un
critico jazz pensiamo a Francis Davis, non a Ben Ratliff. Epperò qui ci
troviamo a riflettere su quei motivi "trendisti" che fanno partire la
valanga – dal "collettivo" denominato M-Base alla mania per David
Ware ne abbiamo viste tante, e questa potrebbe anche avere tra le sue
giustificazioni quella di "accogliere" al meglio quel nuovo pubblico
che starà comprando questo disco.
Dopo qualche giorno – consuntivi di fine anno e così via –
diamo un’occhiata a Do The Math, il sito di Ethan Iverson (il pianista del trio
jazz The Bad Plus) da noi più volte citato nel corso degli ultimi anni.
Scorgiamo un intervento datato 12/12/2015 intitolato:
Yeah,
Well,
You Know,
That’s Just, Like, Your Opinion, Man.
E ci troviamo davanti questo:
"Ho riflettuto sull’opinione dei critici e la
valutazione di lungo periodo mentre l’album di Kamasi Washington The Epic
continua a riscuotere successo. Almeno tre critici dal buon retroterra e dal
diverso approccio – Ben Ratliff, Ted Gioia e Phil Freeman – lo hanno nominato
Top Album Of The Year (Ratliff e Gioia #1, Freeman #2)."
"Alla luce di questo consenso sono andato a rileggere
la mia opinione di The Epic di alcuni mesi fa. Ribadisco il mio giudizio."
"Mi chiedo cosa Azar Lawrence, Billy Harper e
Gary Bartz pensano di tutto questo clamore. Hanno suonato questo stile quando
era nuovo – insomma, hanno contribuito a inventare questo stile."
"Il motivo per celebrare Washington è con tutta probabilità
extramusicale". (…) "Forse Washington ‘sta rendendo di nuovo
rilevante il jazz’."
A questo punto siamo andati a leggere quello che Iverson
aveva scritto in data 05/20/2015:
(L’album di John Coltrane) "Africa Brass occhieggia
dallo sfondo di ogni tipo di jazz afrocentrico per gruppo ampio che vede
l’impiego di accordi e "vamp" di tipo modale. Il più recente esempio
sta ricevendo un sacco di attenzione: The Epic di Kamasi Washington."
"E in effetti, la prima cosa che sentiamo all’inizio
del primo pezzo, Change Of The Guard, è essenzialmente una citazione di McCoy
Tyner. Il pianista fa anche il primo assolo. E’ un bell’assolo, grintoso, nello
stile post-McCoy Tyner. Ben fatto."
(…) (lo stile di The Epic) "è retro (considera, per
esempio, gli album di Tyner, Pharoah Sanders, Billy Harper o Gary Bartz dei
primi anni settanta."
Poche sere fa, prima
di andare a dormire, ci siamo chiesti: ma cosa pensa Francis Davis di The Epic?
"Google is your friend!" Digitiamo "Francis Davis"
"Kamasi Washington", ed ecco fatto: i risultati del poll del 2015 dei
critici jazz curato da Francis Davis per la NPR (National Public Radio).
L’album The Epic è al quarto posto.
Sentiamo cosa dice Davis:
(The Epic) "viene descritto dai suoi più ferventi
ammiratori come se fosse jazz come non l’abbiamo mai ascoltato prima d’ora.
Però non è così. Archi, voci, veste grafica cosmica, il dashiki indossato da
Washington e tutto il resto, è solo jazz che non ascoltavamo da tempo – un
ritorno deliberato a quegli album "spirituali" dei primi anni
settanta della Impulse, Black Jazz e Strata-East il cui fascino maggiore può
essere per ascoltatori troppo giovani per ricordare il vicolo cieco dentro il
quale questo tipo di cosa condusse allora."
Il lettore eventualmente interessato potrà facilmente
accedere al testo di Davis, che procede anche a elencare le caratteristiche di
chi, tra i critici che hanno partecipato al poll, ha scelto The Epic quale
album dell’anno.
Da parte nostra non possiamo che lodare l’onestà
intellettuale di questo critico nel momento in cui – così ci è stato detto un
paio di anni fa – la percentuale delle vendite di jazz è scesa per la prima
volta al di sotto di quelle di musica classica (1.4%). Qualunque la verità,
sempre di briciole si tratta.
Ed eccoci giunti alla
fine di questo lungo discorso.
A passeggio per le strade della città in cui viviamo, ci
capita di incontrare molti turisti. A tutti consigliamo di provare la granita
di limone. Non è un suggerimento "giustificabile". A noi piace, e
crediamo possa piacere anche ad altri che non l’hanno mai provata. E’ comunque
un consiglio disinteressato: non possediamo un bar, né indirizziamo i turisti
verso bar posseduti da parenti o amici.
Non crediamo che suggerire l’ascolto di un album abbia la
stessa valenza di consigliare una granita, essendo il punto di arrivo di un
lungo processo.
Notiamo invece che oggi molti ascoltatori si dispongono
verso le fonti – soprattutto in Rete, ma non prendiamoci in giro: credere che
la carta sia oggi di per sé sinonimo di qualità, competenza e attenzione è al
meglio un peccato di ingenuità, al peggio la prova di un atteggiamento in
malafede – con lo stesso candore con cui i turisti accolgono il nostro invito a
provare la granita di limone. "From me to you."
Ma a dispetto di condizioni di lavoro da
"sweatshop", il miserabile reticolo che giunge alla fine a proporci
questo o quell’album non è distante da quelle condizioni di complicità e
collusione che Lester Bangs rimproverava a Rolling Stone. Con l’aggiunta di
quei patetici semilavorati che manodopera non qualificata si trova in mano da
copiare, ché chissà altrimenti cosa verrebbe fuori (a volte si sa: un
sassofonista che assomiglia sia a Coltrane che ad Ayler).
A questo punto qualcuno potrebbe rivolgerci la seguente
domanda: Ma se a me piace, che importa cosa dicono le recensioni? Giusto. Ma
siamo sicuri che leggere di un "consenso planetario" nei confronti di
un album "innovativo e rivoluzionario" che si ispira a – segue un
elenco di nomi abbastanza a casaccio, ma che varia con il variare delle mode –
non abbia proprio nessun effetto sulla predisposizione all’acquisto? Nessuno
nessuno?
© Beppe Colli 2016
CloudsandClocks.net | Jan. 1, 2016