Peter Hammill & The K Group
Live At Rockpalast – Hamburg 1981 (DVD-V + CD)
(Mig-Music)
A
quarant’anni di distanza dagli eventi, gli sputi e le urla scagliati in gran
quantità in direzione del Prog "tronfio e pomposo" sembrano aver
ceduto il posto a una visione serenamente "merceologica"
dell’oggetto. E qui potremmo mettere sul tavolo la questione concernente la sua
"identità", dato che un "Prog" in grado di tenere insieme i
Genesis dell’Apocalypse In 9/8 e quelli di Land Of Confusion minaccia di
crollare per eccesso di variabilità intracategoriale.
Ma lungi
dall’essere esclusivo, l’atteggiamento del Punk nei confronti del Prog –
impossibile da ignorare quanto meno per il rumore – può essere agevolmente
inserito in quella cornice di anti-intellettualismo presente sui due lati
dell’Atlantico che anticipa il Punk in alcuni punti nodali. "E’ bella
musica, ma è Rock?". Questo l’interrogativo a proposito dell’album di
esordio dei King Crimson (1969), interrogativo che non necessariamente
intendeva negarne i pregi. Possiamo presentare i due atteggiamenti come
incorporati in prodotti creati dalla stessa persona in due momenti diversi: il
John Lennon "sperimentale" di I Am The Walrus e quello "let’s
rock" di Come Together.
C’è un
momento in cui la valutazione di un artista ha da venire necessariamente allo
scoperto: è quello del necrologio. E qui, pur se Keith Emerson e Greg Lake
hanno ricevuto la loro parte di onori, a colpirci è stata l’assenza di un
omaggio, anche uno qualsiasi, da parte del quotidiano The Guardian in occasione
della scomparsa di John Wetton. Ciò, a fronte dei due o tre articoli
commemorativi a proposito del batterista dei Can, Jaki Liebezeit.
(Ci
rifiutiamo di credere che i necrologi procedano per quote, e che avendo
raggiunto il numero di unità massimo per il Prog con Emerson e Lake l’unica
eccezione possibile sarebbe stata in occasione dell’eventuale decesso di Carl
Palmer.)
Mettiamo
le mani avanti. Comprammo Tago Mago fresco di uscita che avevamo ancora i
calzoni corti. E per anni ci toccò litigare su quella ritmica
"ossessiva", sul volume "eccessivo" della batteria e sulla
(presunta) "assenza di melodia" della musica del gruppo tedesco. (Poi
ci toccò litigare anche su una – presunta – "assenza di melodia"
vista come aspetto positivo, ma questa è storia per un’altra volta.)
Negli
Stati Uniti la fama di John Wetton è legata soprattutto al "supergruppo
Prog" denominato Asia e, in misura minore, al periodo con i King Crimson;
e dato che nell’ex Regno Unito gli Asia vengono considerati un gruppo di cafoni
ci saremmo aspettati che un fortissimo riflettore venisse acceso sull’inciso di
Exiles (Larks’ Tongues In Aspic, 1973), composto ed eseguito al pianoforte da
Wetton ma in origine non accreditato; o che venisse ripercorso il cammino che
collega la sinfonia di bassi "sassofonistici" di caratura hopperiana
che appare su Fallen Angel (Red, 1974) alla melodia per due chitarre presente
su Between Blue And Me, brano di apertura di Fearless (1971) dei Family,
formazione di cui Wetton era un componente di spicco. Per chi gradisce un
diverso approccio alla materia c’è Diamond Head (1975), album di Phil Manzanera
che vede Wetton confrontarsi con materiali stilisticamente per lui poco
consueti, su tutti la Same Time Next Week firmata con Manzanera il cui metro costituisce
una personalissima visione "Prog" di un brano "Soul".
Si dà a
volte il paradosso di un grande successo raggiunto con i materiali più
difficili, da cui una doverosa riflessione sulla nozione di
"commerciale". Ricordiamo la sorpresa provata nel rivedere nel
libretto dell’edizione ampliata di Pawn Hearts (1972, 2005) dei Van Der Graaf
Generator ampi servizi corredati da ricche foto a colori originariamente
apparsi sul settimanale italiano Ciao 2001. E lo stesso vale per le tante foto
– anche quella in cui Peter Hammill "fa le corna" al fotografo –
apparse a corredo del cofanetto del gruppo che porta il titolo The Box. Manca
un servizio che ricordiamo benissimo pur a distanza di quarantaquattro anni,
intitolato "Il generatore non carica più".
Visto dall’esterno,
lo scioglimento del gruppo parve qualcosa di inspiegabile, e fu di poca
consolazione la produzione solista – ottima – di Peter Hammill. Sotto quella
particolarissima congiunzione astrale, brani come Lemmings, Man Erg (un grande
successo alla radio!) e la suite A Plague Of Lighthouse Keepers
"stemperavano" la tensione hammilliana mentre la vestivano di colori,
climi e atmosfere strumentali che sulla carta avrebbero dovuto renderla più
ostica.
Il 30
agosto del 1975 ci trovammo ad assistere a uno dei primi concerti inglesi dei
ricostituiti Van Der Graaf Generator, che per l’occasione suonavano materiale
da Godbluff, album la cui uscita era di là da venire. "Il gruppo ci dà
dentro a sfruttare pesantemente la sua leggenda", fu uno degli acidi
commenti provenienti dall’Italia. E’ un commento che non vale niente, ma che
restituisce intatta la foto di un momento (sono i tempi di "Patti Smitte").
Tre album
in circa un anno sembrarono un po’ troppi, soprattutto se consideriamo che
World Record pareva voler tentare un approccio "verité" che diremmo
tutt’altro che ottimale per quei musicisti e per quella strumentazione. Il
nostro giudizio garbatamente sfavorevole fu forse la precondizione che ci rese
più agevole accogliere con grande entusiasmo The Quiet Zone – The Pleasure Dome
(1977), album che vedeva il gruppo eliminare l’organo, sostituire il sassofono
con il violino, e reintrodurre il basso, ora anche con un bel fuzz.
Le
cronache del tempo dicono di concerti "al limite" – la comunanza di
etichetta propiziò tour in coppia con gli Hawkwind, accoppiata che solo pochi
anni prima sarebbe parsa del tutto incongrua. Il doppio dal vivo Vital (1978),
con l’aggiunta di un violoncellista, è lì a testimoniare lo stato brutale di
un’estetica "rock" come vissuta dai musicisti.
Passato
il favore della stampa, laddove questo c’era stato – il musicista non è più
"il Bob Dylan del 2000" – Hammill continua a produrre album solisti che da
Over (1976) fino a Patience (1983) costituiscono un corpus di bella freschezza
melodica accoppiata a una dimensione di studio sempre più sperimentale.
Dopo la
pubblicazione dell’ottimo Sitting Targets (1981), Hammill aveva assemblato una
formazione destinata a eseguire sul palco materiale proveniente in gran parte
da Sitting Targets e da A Black Box, apparso l’anno prima. Due ex Van Der Graaf
Generator – Nic Potter e Guy Evans – a basso e batteria, John Ellis alla
chitarra e occasionalmente alla seconda voce, il leader come sempre a piano,
chitarre e voce.
A
conclusione dell’avventura, il doppio The Margin (1985) illustrava nel silenzio
del pubblico quanto accaduto sul palco nei concerti effettuati nel 1983. La
riedizione in doppio CD apparsa con il titolo The Margin + (2002) aggiungeva
concerti del 1982 ma soprattutto conteneva particolareggiate note di copertina
scritte dallo stesso Hammill, a rivelare una condizione finanziaria
estremamente precaria che mai avremmo sospettato e che avrebbe finito per
rendere impossibile la prosecuzione del quartetto.
Il
mini-box di cui ci occupiamo – un DVD-V e due CD – offre una documentazione che
sarebbe stata interessante "a prescindere" ma che non offre alcun
motivo di lamentela. Filmati sul palco per un programma rock televisivo, i
musicisti mostrano un affiatamento invidiabile e una disinvoltura non comune
nell’affrontare materiali decisamente eterogenei. Un concerto, bis inclusi, di
un’ora e tre quarti di durata, ripartiti tra i due CD.
In un
quartetto rock che si rispetti la differenza la fa il batterista, e non è
azzardato affermare che in questa occasione Guy Evans è "l’arma
segreta" del gruppo. Se la musica è indubbiamente "rock" per
timbri e "tiro", gli incastri, i tempi, il susseguirsi di sezioni e
svolte inattese, tutto indica con chiarezza una dimensione che rimanda ai Van
Der Graaf Generator. Il batterista "spinge" e "commenta".
Se la
chitarra di Hammill è lo strumento cardine, il basso di Potter lavora
"attorno" all’accordo. A volte impegnato in brevi assolo privi di
"eroica" retorica, anche con l’ausilio di un e-bow, Ellis fa anche un
bel lavoro di contrappunto sugli accordi. Da notare come la sua chitarra – una
Stratocaster amplificata da un Roland Jazz Chorus – risulti
"svuotata" nei medi, sì da non confliggere con gli accordi e la voce
di Hammill. Per l’ascoltatore di più giovane età, un paio di curiosità: un
synth – usato poco, e spesso con funzione di "disturbo" – e un
synth-drum, un modello della Synare, ambedue manovrati da Evans.
Apertura
con The Future Now, pianistica, con e-bow e assolo di chitarra
"psichedelico". Segue Losing Faith In Words, con tempo scomodo. Prima
lirica, poi tesa, Stranger Still ha un intermezzo con chitarra luminosa. Sign è
quasi "funky" con due chitarre e un bell’assolo. Riff
"balcanico" per My Experience.
Brano
classico della produzione hammilliana, Modern gode di una bella esecuzione.
"Rock!" per The Second Hand, con bella coda batteristica. Riff a
incastro per Sitting Targets, con assolo di chitarra introdotto da un lancio di
batteria. Spinta clamorosa per The Sphinx In The Face.
Flight,
la suite che occupava la facciata due di A Black Box, viene qui riarrangiata,
ed è l’unico brano che – in ragione della sua lunghezza – potrebbe risultare
poco gradito a chi non fosse già cultore della materia.
Central
Hotel è il primo bis, cadenzata, trascinante, con bella figura ritmica sul
rullante. The Spirit e Door sono il secondo bis, un momento di grande impatto
con riff "arabi". Chiude Hammill in solitudine al pianoforte con My
Room, un momento davvero speciale da un gran bell’album quale Still Life (1976).
Beppe Colli
© Beppe Colli 2017
CloudsandClocks.net | Feb. 16, 2017