John
Cale
HoboSapiens
(Emi)
Sembrava
proprio che la decisione di dedicarsi esclusivamente a musiche per il
teatro, il balletto e il cinema costituisse una scelta ormai irreversibile.
Invece John Cale ha deciso di farci una bella sorpresa ritornando a
incidere un album di canzoni. Quasi due, in verità, se consideriamo
che HoboSapiens era stato preceduto di qualche mese da uno svelto –
ma non per questo meno prezioso – EP trasparentemente intitolato 5 Tracks.
Uno sguardo alla copertina di Walking On Locusts – l’ultimo disco di
canzoni da lui inciso – conferma l’esattezza del nostro ricordo: sono
trascorsi ben sei anni. E poco importa qui determinare se l’attenzione
che i media hanno dedicato all’avvenimento sia ascrivibile a puro piacere
o alla percezione del caldo amore con cui mamma Emi – la sua nuova etichetta
– seguiva la vicenda.
Se ben ricordiamo, Walking On Locusts non aveva riscosso caldi consensi.
Eppure il disco non era affatto male, anche se è certamente lecito
sostenere che una minore indulgenza in sede di arrangiamento nei confronti
delle parti corali gli avrebbe senz’altro giovato. Ma era un disco di
musica rock? Diremmo dì sì, nell’accezione in cui può
esserlo un disco di Brian Wilson o uno di Randy Newman. O, a ben considerare,
nel senso in cui lo era Paris 1919: l’album che (almeno a parole) molti
ritengono uno dei capolavori di Cale.
Risale
giusto a dieci anni fa la tanto discussa riunione dei Velvet Underground,
con la postilla dell’album live intitolato MCMXCIII. Due anni più
tardi il cofanetto in stile opera omnia, Peel Slowly And See. Lo diremmo
assolutamente pacifico: se John Cale e Lou Reed non fossero stati così
tanta parte dei Velvet Underground la considerazione di cui gode la
loro produzione solista sarebbe stata incommensurabilmente minore. Ma
meriti e notorietà non sono stati distribuiti in un modo che
rispecchiasse il lavoro effettivamente svolto in seno al celeberrimo
gruppo. Non è certo necessario tirare fuori dal cappello i classici
nomi di La Monte Young e del più volte riscoperto Tony Conrad:
è sufficiente ascoltare quanto prodotto in sede di idee musicali
(sovente non riconosciute in termini di accrediti) sui primi due album
del gruppo. E crediamo di essere nel giusto nell’affermare che furono
proprio quelle idee a essere oggetto di massima considerazione da parte
di musicisti quali i membri dei Can o i Brian Eno e Phil Manzanera pre-Roxy
Music.
E’
certo sommamente banale affermare che fama e considerazione mediatica
si costruiscono tanto al di fuori del palco che sopra di esso. Sicuramente
più interessante soffermarsi su altre considerazioni. Innanzitutto
è curioso notare che mentre i Velvet Underground devono senz’altro
buona parte della loro fama al fatto di essere stati un gruppo "sperimentale"
il trascorrere del tempo sembra aver celato ai più l’enorme differenza
(di profondità, ambizioni, risultati) intercorrente fra i quattro
album di studio incisi dal gruppo; la qual cosa risulta coerente con
la lettura oggi più diffusa: quella dei Velvet Underground quale
gruppo essenzialmente "garage" (si ascoltino i supposti epigoni).
Il secondo fattore (forse non facilissimo da scorgere a occhio nudo)
è dato da una qualità che a rigor di logica dovrebbe porsi
come assolutamente antitetica: il successo commerciale ottenuto da Lou
Reed con lavori che con i Velvet "sperimentali" hanno davvero
ben poco a che spartire. Intendiamo il Transformer (1972) a vivaci tinte
glam prodotto da David Bowie (e da Mick Ronson!); l’assalto anfetaminico
con stiramento di corde di Rock’n’Roll Animal (1974); il r&b virato
metal propiziato da Steve Katz in Sally Can’t Dance (1974); il limpido
rock dalla secchezza nera di Coney Island Baby (1976) di Godfrey Diamond.
Si aggiunga adesso il colossale apporto di Bob Ezrin sul capolavoro
Berlin (1973) e si avrà chiaro il perché la musica di
Lou Reed è tanto regredita non appena il musicista ha deciso
di essere diventato troppo adulto per aver bisogno di altrui direzione.
Però
Walk On The Wild Side (e il conseguente commercial per la Honda) è
solo metà della storia. Se Lou Reed ha via via recuperato un
rapporto costruttivo con i suoni, lo studio e la tecnologia – tanto
che si potrebbe affermare che questi fattori costituiscono il solo motivo
di interesse della sua produzione più tarda – tutto l’opposto
sembra valere per Cale, musicista indubbiamente geniale ma che sembra
possedere un livello di attenzione di tale abbagliante intensità
da non potere essere sostenuto, sì da fargli fatalmente perdere
ogni interesse mentre il lavoro è ancora in fieri. Curiosamente
la cosa non sembra valere allo stesso modo per i lavori dei quali è
stato produttore (e a volte pluristrumentista); su tutti, quelli di
Nico: da The Marble Index (1968) a Camera Obscura (1985) passando per
Desertshore (1971) e The End (1974). Per cui sono Paris 1919 (del 1973)
– con il certosino lavoro di cesello di Chris Thomas – e Honi Soit (del
1981) – con l’assistenza di Mike Thorn (produzione) e Harvey Goldberg
(registrazione e missaggio) a dare spessore all’isteria – i lavori di
studio che meglio funzionano in quanto dischi. Album ai quali è
doveroso aggiungere il superbo e per molti versi irripetibile Music
For A New Society (1982).
Nutriamo
pochi dubbi sul fatto che la caratura del corpus di canzoni scritte
da John Cale sia di gran lunga superiore al repertorio di Lou Reed,
assolutamente nessuno se parliamo della produzione successiva al momento
in cui i due hanno iniziato a bere decaffeinato. E questo vale tanto
per le melodie che (sorpresa!) per i testi. Stante quanto già
detto a proposito degli album, è altamente consigliabile tentare
di acciuffare Cale dal vivo, possibilmente in solo. Una buona approssimazione
è sicuramente la summa di Fragments Of A Rainy Season (1992),
mentre diremmo senz’altro da evitare quel John Cale Comes Alive (1984)
con mediocre gruppo che avremmo volentieri scambiato con una registrazione
ufficiale del tour effettuato in solo l’anno precedente, quando regalò
profondità e raggelante pathos a quella Only Time Will Tell che
nella sua unica apparizione ufficiale (sul live Sabotage, del 1979)
era stata appannaggio di una voce femminile.
Voce
personalissima e di grandi doti interpretative, quella di Cale: un cantante
naturale cui lo studio della musica ha verosimilmente consentito un
ampliamento del raggio d’azione. Visto dal vivo giusto vent’anni fa,
il musicista aveva offerto un concerto dove la delicatezza e la ferocia
abituali erano state espresse senza alcuna traccia di maniera. Piace
poter dire che lo stesso è avvenuto in occasione del tour di
due anni or sono. In quell’occasione Cale aveva offerto anche due canzoni
nuove ("inclusione sul mio prossimo disco", aveva detto):
una spigliata ballad chitarristica che non sarebbe risultata fuori posto
su Slow Dazzle (1975), il cui refrain "things you do in Denver
when you’re dead" (come il film?) ci era sembrato un buon titolo;
e una solenne e intensa ballata pianistica, lenta e misteriosa com’è
giusto, il cui titolo decidemmo allora doveva senz’altro essere Over
Her Head.
5 Tracks ha confermato l’ottima forma del musicista, consentendoci di
rivisitarne il mondo senza alcun fastidioso senso di déjà
vu. Verses è una buona introduzione, Waiting For Blonde il classico
racconto criptico, Chums Of Dumpty (We All Are) – si ascolti la bella
parte di basso sul finale – un bozzetto narrativo di difficile leggibilità
pur se musicalmente molto comunicativo. Il disco si impenna decisamente
sul finale, laddove E Is Missing recupera gli archi e Wilderness Approaching
sfodera piano e voce per qualcosa che sfiora il gospel (tenere pronti
i fazzoletti, please). Ritmica asciutta/meccanizzata ma non invadente.
E’
quindi con grande fiducia e non poca aspettazione che ci siamo rivolti
a HoboSapiens. Il primo ascolto ci ha provocato non poco sconcerto (e
anche il secondo, e il terzo). Leviamo di torno i due tentativi di fare
qualcosa di commerciale – il rock’n’roll di Reading My Mind (massimamente
irritante per un italiano) e la musica da spot pubblicitario di Bicycle,
con l’apporto della famiglia Eno quasi al completo: Cale non ha mai
avuto la minima idea di come e perché una cosa sia commerciale,
e l’ha dimostrato più volte in passato; i suoi tentativi in tal
senso sono destinati a provocare stupore e ilarità più
che vera irritazione. E’ per l’intera durata del disco che la produzione
– lo stesso Cale insieme a Nick Franglen: e non ci vuole un genio per
capire chi ha fatto cosa – imprigiona e rimpicciolisce tutto in un’angusta
gabbia timbrica digitale, dove tutto – la voce, le ritmiche campionate,
la resa sonora dell’insieme – è privo d’aria.
"Voglio
ancora provare a deformare il pop. Ma l’unico modo in cui mi sento a
mio agio nel farlo è nel farlo da solo, e non sono in grado di
saltare i gusti di oggi. I loop sono quello che interessa alla gente
oggi. Il mio prossimo album ne avrà un sacco, stanno cominciando
a piacermi, ma quello che mi piace dei loop non è quello che
piace a tutti gli altri. Mi piacciono davvero le batterie rallentate,
è tutto quello che mi serve." Così John Cale a pag.
265 della sua autobiografia pubblicata nel 1999, What’s Welsh For Zen.
E’
andata davvero così? A parere di chi scrive, no. Pur dopo numerosi
ascolti continua a persistere una fastidiosissima (e irrisolta) tensione
tra le melodie, le parti vocali – insomma, le canzoni – e i mezzi timbrici
e tecnici adoperati per vestirle. Cosa che dispiace particolarmente,
dato che la maggior parte delle composizioni è di ottima levatura
e finisce per risultare non poco coinvolgente nonostante tutto. E’ il
classico "mondo moderno" di Cale, complesso e paranoico, dove
scarni sprazzi di chiarezza vengono ricavati dalla confusione con immensa
fatica. Si potrebbe provare a dare la colpa a Pro Tools – e certo registrare
"nella scatola" senza costosi plug-in non può mai garantire
risultati sonori degni di quello che chiamiamo un bel suono, non nel
senso dell’hi-fi ma di una graduale rivelazione nel tempo della dimensione
estetica progettata. Ma la mediocrità di questo aspetto del lavoro
ci rimanda dolorosamente a questioni come il livello di attenzione nell’ascolto,
la sovrabbondanza di stimoli, la superficialità della dimensione
estetica percepita, la crescente abitudine alla perdita della tridimensionalità
sonora e del complesso rapporto tra i piani e la narrazione. Insomma,
all’oggi.
Con
nostra grande sorpresa ci siamo ritrovati a riascoltare HoboSapiens
con frequenza crescente. Zen è una buona apertura, di Reading
My Mind si è già detto, Things è il pezzo scanzonato
già ascoltato dal vivo e che viene proposto anche in una versione
"disturbata", Things X. Qui il disco decolla, con la maestosa
Look Horizon (crediamo che solo Cale sia in grado di scrivere una chiusa
verbale come qui), la melodica Magritte, con gli archi e la nitida melodia,
il reggae di Archimedes e la vetta di Caravan: un quasi rock-blues rallentatissimo
che ci piacerebbe ascoltare con una chitarra à la Chris Spedding.
Basta saltare Bicycle ed ecco Twilight Zone e una Letter From Abroad
che non sarebbe stata fuori posto su The Naked Lunch di Howard Shore.
Segue Thing X, chiude splendidamente Over Her Head: pianistica come
in concerto.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2003
CloudsandClocks.net
| Nov. 10, 2003