Jack Bruce
More Jack Than God
(Sanctuary)
Musicista
tra i più versatili e innovativi dell’intera storia del rock, Jack
Bruce non gode oggi di molta attenzione da parte della stampa. Il colossale
gruppo di cui fu importantissima parte – i Cream – non sembra destinato a
essere rivalutato tanto presto. E neppure il curatissimo programma di ristampe
che quest’anno ha con molta probabilità consentito ai più giovani
di vedere menzionati per la prima volta su carta capolavori quali Songs For
A Tailor (1969), Harmony Row (1971) e Out Of The Storm (1974), con l’appendice
di How’s Tricks (1977), sembra aver prodotto alcun ripensamento.
Fu a quel
punto che qualcosa si spezzò – e immaginiamo che controversie economico/manageriali
non debbano essere state estranee a un periodo turbolento e sostanzialmente
privo di soddisfazioni. Certo è che album quali I’ve Always Wanted
To Do This (1980 – e mai titolo suonò più beffardo) e Automatic
(1983 – ovvero Jack Bruce nell’era del Fairlight) mostravano un musicista
che sembrava aver irrimediabilmente smarrito il filo.
L’incontro
rigeneratore fu probabilmente quello newyorkese con Kip Hanrahan, dei cui
dischi di "erotismo cubano" Bruce divenne il bassista e la voce
– si vedano come ottimo esempio album quali Desire Develops An Edge e Vertical’s
Currency (1986). E di lì a poco A Question Of Time (1989) ci disse
che Bruce aveva ritrovato il senso, se non la freschezza o l’innovazione.
Stante
la sostanziale indifferenza con cui nomi come quello di Bruce vengono trattati
oggi dalla maggior parte della stampa (e la musica c’entra fino a un certo
punto), e con un "circuito della nostalgia" in grado di fornire
soddisfazioni finanziarie incomparabilmente minori di quelle toccate a un
Eric Clapton (l’ex collega meno dotato) ma decisamente più necessarie,
è quasi prodigioso che Bruce abbia saputo produrre un album quale MonkJack
(1995), laddove il suo piano e la sua voce – coaudivati soltanto (sicuramente
non la parola più adatta…) dall’organo Hammond B-3 di Bernie Worrell
– si producevano in brani originali e in qualche interessante rifacimento.
Ma ha
senso produrre dischi che vengono a stento recensiti? E’ solo nel 2001 che
compare il seguito della storia. Intitolato Shadows In The Air, l’album recupera
le coordinate cubane di Hanrahan, qui impegnato alla co-produzione, ma i risultati
non sono quelli di cui ci sarebbe piaciuto dire. I musicisti sono ovviamente
bravi, e non manca qualche interessante "partecipazione speciale"
(Eric Clapton, Gary Moore, Vernon Reid, Dr. John), ma non ci siamo: le percussioni
e i tempi cubani sembrano sommarsi ma mai integrarsi ai brani originali, e
il risultato è massimamente sbagliato nel caso di classici dei Cream
quali Sunshine Of Your Love e White Room (che immaginiamo essere qui per un
qualche motivo "logistico") e della vecchia produzione in solo (He
The Richmond, Boston Ball Game 1967, Out Into The Fields). A quel punto si
va in tour.
E ora che siamo largamente fuori il tempo massimo consentito, Bruce pubblica un
album che non si fa fatica a definire buono. I tour devono essere davvero
stati utili a integrare la formazione, che qui vede basilarmente le due batterie
e le percussioni (mai pesanti o invadenti), la chitarra di Vernon Reid e l’Hammond
di Bernie Worrell oltre al basso e al piano di Bruce. More Jack Than God apre
e chiude con due brani dalle curiose atmosfere "trance" (So They
Invented Race, Lost In The City); in mezzo quello che ci aspetteremmo, e che
in fondo già conosciamo: la ballata "larga" (Kelly’s Blues,
The Night That Once Was Mine), il blues sardonico (Uh, Oh!), il brano malinconico
e raccolto (Progress, Milonga Too), ma suonati con convinzione e cantati con
una forma vocale invidiabile. E anche le (immancabili?) cover dei Cream non
suonano male: Politician ha un bell’assolo di Hammond, We’re Going Wrong costruisce
sulla tensione dell’originale e I Feel Free è piacevolmente lieve.
Beppe
Colli
© Beppe Colli 2003
CloudsandClocks.net
| Oct. 7, 2003