Jack
Bruce
Out Of The Storm
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di Beppe Colli
Mar. 28, 2014
Pur contraddistinto da
qualità innegabili – un altissimo livello creativo, un aspetto estetico
"aspro" e certamente non immediato ma in ultimo accattivante (che a
ben considerare potrebbe essere una buona definizione di "rock") e
soluzioni musicali che lo rendono esemplare unico nella discografia
dell’artista – Out Of The Storm non è il primo titolo che viene in mente quando
si pensa a Jack Bruce. Diciamo che l’album va a occupare un onorevole terzo
posto, pur se a buona distanza, dietro "capolavori riconosciuti"
quali Songs For A Tailor e Harmony Row. E non è nostra intenzione ribaltare qui
la gerarchia.
Ma Out Of The Storm mostra un musicista immerso in un
profondo stato di crisi esistenziale mentre è intento ad affrontare le sfide
che gli si parano davanti – alcune delle quali, va da sé, riconducibili al
proprio agire. Ed è per certi versi curioso notare come l’album prenda il nome
di Out Of The Storm mentre il brano a esso tematicamente più vicino si intitola
invece Into The Storm, quasi a voler prefigurare un esito favorevole. Forse
casualmente, il succedersi delle immagini di copertina degli album di Bruce –
il primo piano di Songs For A Tailor, la figura intera di Things We Like, il
busto di Harmony Row – ci portano alla figura rimpicciolita che qui si situa
con un certo disagio al centro della scena, mentre il retro-copertina lo
"mostra" mimetizzarsi nella campagna circostante.
Esordio solista e unico album di Bruce ad entrare in
classifica, Songs For A Tailor (’69) è vario e spumeggiante, un caleidoscopio
di stili e orchestrazioni (i fiati! il violoncello! le tastiere! le batterie!
il basso!) e l’orgogliosa consapevolezza di presentare al pubblico materiale di
altissima qualità. E se le sciolte suddivisioni ritmiche di Boston Ball Game,
1967 mostrano quanto accattivante può essere la musica "difficile",
Rope Ladder To The Moon va dritto in un’ideale antologia, con quel basso
imperioso a stagliarsi sulla morbidezza delle chitarre acustiche e dei
violoncelli, mentre Theme For An Imaginary Western si candida immediatamente a
"standard rock" del tempo, con i Mountain e i Colosseum a riprenderlo
discograficamente sui due lati dell’Atlantico.
Ugualmente sfaccettato, Harmony Row (’71) presenta però una
cifra unitaria – con l’eccezione di un chitarrista e un batterista, Bruce è qui
l’unico musicista presente – in grado di fornire al lavoro una qualità di
"song cycle" che lo differenzia dal suo predecessore. Scelta musicale
importante, il basso è più "dentro" la dimensione sonora della
musica, che qui si mostra meno squillante, più meditativa. Impossibile non
segnalare il timbro "svuotato" dell’organo Hammond, in grado di
insinuarsi e colorare senza però invadere con un sovraccarico di medi.
Tre anni tutt’altro che pacifici, e la scelta di incidere
Out Of The Storm negli Stati Uniti impiegando musicisti statunitensi, per esiti
che si riveleranno quasi disastrosi e che solo un laborioso lavoro di missaggio
effettuato in quel di Londra consentirà di portare a un aspetto dotato di
logica impeccabile.
A questo punto resta solo una domanda alla quale è
necessario rispondere: Chi è Jack Bruce?
Dire che Jack Bruce è
il musicista al quale è maggiormente ascrivibile l’ingresso del basso elettrico
nella sua età adulta è per chi scrive qualcosa di immediatamente trasparente.
Ma è così per tutti? Ne dubitiamo fortemente. Uno spirito polemico ignorante e
insensato ha per anni bersagliato i musicisti che esploravano la dimensione
meno immediata in quanto a comprensione da parte di un ascoltatore qualunque e
distratto con definizioni di comodo quali "lunghi assolo
auto-indulgenti", definizioni che rivelavano solo l’inadeguatezza
dell’ascoltatore di fronte al materiale. Poco male, in fondo tutti siamo
passati da momenti formativi che a volte rivelavano in modo drammatico il
divario tra comprensione e oggetto. Il problema sorge quando l’ingenuo
fanciullo scrive sui giornali.
Chiediamoci chi oggi avrebbe il coraggio di chiamare il
proprio gruppo The Cream – come a dire, il meglio di quanto c’è sulla scena. Ma
se Cream non è certo un nome in grado di denotare gente modesta, pure va
compreso il riferimento all’orgoglio dell’artigiano giunto con sacrificio alla
perfetta padronanza del proprio strumento, e la contrapposizione deliberata
alla "musica facile" per ragazzine – siamo in piena epoca "beat"
– e all’easy listening che ripete vecchie formule.
Sulle prime gruppo di blues semi-ortodosso, dopo l’esordio
di Fresh Cream (’66) i Cream allargano i propri orizzonti con l’apertura alla
psichedelia e il crescente ricorso a materiale originale, molto spesso firmato
da Bruce, con l’album Disraeli Gears (’67) e con la serie di tour statunitensi
che portarono il trio a reinventare la forma in lunghe improvvisazioni che
introducevano per la prima volta nel rock lo spirito esplorativo del jazz.
La disponibilità di materiale inciso dal vivo pubblicato
successivamente allo scioglimento consentì di candidare la versione di Sweet
Wine contenuta su Cream Live (’70) a "momento perfetto" per lucidità
e miracoloso equilibrio delle fonti strumentali. Ma rimanendo all’interno della
sua vita "biologica", la versione di Spoonful contenuta su Wheels Of
Fire (’68) mostra il gruppo intento a regalare un affresco di tale abbagliante
intensità da costituire momento in grado di cambiare la vita. (Ricordiamo che
Wheels Of Fire fu l’album per il quale fu inventata la categoria "disco di
platino".)
Ovviamente non va dimenticato l’apporto del bassista della
Motown James Jamerson, e va da sé che mai nessuno nella storia della musica ha
avuto un palco grande quanto il mondo come il Paul McCartney di album quali
Revolver e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Ma è il basso di Jack Bruce a
fornire il segnale che altro è possibile – e l’esempio di due musicisti
statunitensi quali Tim Bogert con i Vanilla Fudge e Jack Casady con i Jefferson
Airplane ci dice che "essere ispirati da" non vuol dire
necessariamente adottare le stesse strategie. (Una citazione non solo
sentimentale per un musicista solitamente poco considerato quale Andy Fraser,
in grado di portare accenti di Bruce nel soul-blues dei Free – ricordiamo che
Fraser aveva ancora 19 anni quando i Free si sciolsero per la seconda volta.)
Citazione obbligata per Chris Squire degli Yes "classici", da The Yes
Album a Close To The Edge passando per Fragile: qui Squire opera una curiosa –
e alla fine, personale – miscela di Paul McCartney e Jack Bruce, ed è
principalmente per il suo tramite che il "Bruce senza il blues" entra
massicciamente a far parte del patrimonio bassistico del "prog".
Come poi perfettamente dimostrato sui suoi album solisti, la
lunga improvvisazione non è ovviamente la sola dimensione nella quale rifulge
l’estro di Bruce – si ascolti l’accordo di basso che chiude SWLABR, il
celeberrimo giro che apre Badge, e in generale tutta la parte di studio di
Wheels Of Fire, laddove l’attento e meticoloso lavoro di produzione di Felix
Pappalardi contribuisce ad arricchire la tavolozza strumentale con colori che
portano il trio tanto lontano dall’originaria formulazione di "blues".
Chi crede nel detto
"un’immagine vale quanto mille parole" è invitato alla visione del
documentario della serie Classic Albums dedicato a Disraeli Gears. C’è la
storia essenziale, una bella versione dal vivo di We’re Going Wrong e
un’esecuzione di Tales Of Brave Ulysses che è pura dinamite.
Pur se illustrata con un certo tatto e una mimica facciale
che – complice l’uso del montaggio – non dice tutto quello che vorrebbe, non può
non venir fuori la vecchia questione riguardante lo "psychedelic
hogwash".
Ricordiamo che al momento della formazione del gruppo Jack
Bruce e Ginger Baker erano strumentisti oggetto di enorme ammirazione. Eric
Clapton, però, era "God". E fu "il gruppo di Eric Clapton"
– "an angel" che suonava nello stile di B.B. King – che Ahmet Ertegun,
boss dell’Atlantic, mise sotto contratto. Già membro degli Yardbirds, Clapton
divenne una leggenda già con John Mayall, come testimoniato dal nome in ditta
sulla copertina del celeberrimo album di Mayall intitolato Bluesbreakers
(conosciuto anche come "The Beano album", dal nome del fumetto che
Clapton è intento a leggere nella foto di copertina). Per dare un’idea, diciamo
che la strumentazione usata dal chitarrista – una chitarra Gibson Les Paul e un
amplificatore combo della Marshall subito soprannominato
"Bluesbreaker" – divenne di uso pressoché obbligatorio.
Il problema? Clapton non era un autore prolifico. Ed era
anche un cantante reticente. Il rifiuto del materiale che Bruce componeva con
il paroliere Pete Brown, definito da Ertegun "immondizia psichedelica",
dovette forzatamente cedere il passo a un atteggiamento maggiormente realista.
E fu quindi con i Cream che Bruce divenne il grintoso frontman al quale sono
attribuibili quasi tutti i grandi successi del gruppo, da Sunshine Of Your Love
a Politician a White Room. Ed è sui dischi dei Cream che è agevole tracciare
l’evoluzione del Bruce autore, da Wrapping Paper a I Feel Free, da We’re Going
Wrong a Dance The Night Away, da Deserted Cities Of The Heart a As You Said.
Quanto popolari sono (stati) i Cream? Classifiche e notizie
sono a disposizione di tutti. Ammessi nella Rock’n’Roll Hall Of Fame nel 1993,
nel 2005 i Cream si ricostituirono per poche date alla Royal Albert Hall, la
sala dove avevano tenuto l’ultimo concerto immortalato in un film storico.
Baker non stava bene, Bruce era reduce da un drammatico rigetto successivo a un
trapianto di fegato. Fu in quell’occasione che ci sembrò di vedere tremare –
causa eccitazione incontenibile – la penna di colleghi statunitensi solitamente
compassati da noi colti nella disperata ricerca di un volo e di un biglietto.
Come già detto, Songs
For A Tailor fu l’unico album solista di Bruce ad andare in classifica, e ci
sentiamo di dire che la circostanza è quasi interamente attribuibile all’ancor
fresco ricordo del leggendario trio. Il grande successo seguì Clapton, prima
con i Blind Faith poi con un album solista di stampo più "americano",
cui seguirono il leggendario Layla, a nome Derek And The Dominoes, e quindi –
dopo una lunga e drammatica lotta con dipendenze di vario genere – l’abbraccio
di una dimensione "mainstream" che nel bene e nel male ha portato il
musicista fino all’oggi.
Spirito irrequieto, musicista dal retroterra incredibilmente
composito – classica, jazz, blues, tutto coltivato ai massimi livelli – Bruce
trovò naturale dopo Songs For A Taylor pubblicare un album di jazz ortodosso
come Things We Like, dove suonava il contrabbasso, unirsi alla formazione di
"fragorosa fusion super-elettrica" denominata Tony Williams Lifetime,
collaborare in qualità di cantante e bassista con Carla Bley – Bruce è una
delle punte di Escalator Over The Hill – prima di incidere Harmony Row. Va da sé
che a quel tempo la fetta di pubblico che si aspettava, e chiedeva a gran voce,
i Cream si era già dileguata.
Ovviamente vanno qui operati dei distinguo: l’Europa
continentale non si comportò come gli Stati Uniti, e neppure come la Perfida
Albione – cosa che spiega il ben diverso grado di attenzione attribuito qualche
anno più tardi al gruppo che vide Mick Taylor (in fuga dai Rolling Stones) e
Carla Bley affiancarsi a Bruce.
E’ buffo ricordare che, seppure non onnipresente, un triplo
album contenente musica tutt’altro che semplice quale il già citato Escalator
Over The Hill faceva bella mostra di sé in molte case di "rockisti
continentali". I critici jazz avevano detto che quello non era un album di
jazz – e perché contraddirli? Luci soffuse, quindi, per l’ascolto attento di
Rawalpindi Blues e per la voce di Bruce che ripeteva "It’s
Agaaaaaaaaaaaain".
Il che ci porta a un argomento cruciale: collocando lungo un
continuum semplice-complesso gli album di canzoni potremmo dire che se da un
lato abbiamo James Taylor e Cat Stevens (e Neil Young, e Bob Dylan, e Bruce
Sprinsteen) all’altra estremità avremo Kew. Rhone. di John Greaves e Peter
Blegvad e Desperate Straights di Slapp Happy e Henry Cow. Dove collocheremmo
gli album solisti di Jack Bruce?
E’ un giudizio di naturale culturale, i critici rock
statunitensi ricorrendo perlopiù a formulazioni quali "art-rock" e
similia quando il contatto con il blues e la "musica popolare" si fa
più labile e l’ingresso di musiche "non-rock" maggiormente
percepibile.
Ma se questo è un aspetto tutto sommato "storico",
ci sentiamo di dire che con il trascorrere del tempo il concetto di "album
di canzoni" è diventato sempre più limitato sia da dal punto di vista
melodico che armonico. E qui Bruce rischia grosso, ché armonia e melodia sono
sempre stati per lui ambiti di attenta esplorazione. Notiamo anche che le sue
"ballad" sono sempre animate da un senso di agitazione interiore,
qualità cui non è certo estranea una vocalità dove il blues prende a braccetto
l’opera.
Dopo un bel tour dove
una formazione simpatetica ne esegue con appropriatezza il materiale solista,
in primis quello tratto da Harmony Row, Bruce decide di giocare la carta
commerciale dando vita a un trio dalla forte impronta creamiana denominato West
Bruce & Laing. La formazione prendeva le mosse dai Mountain, gruppo
statunitense che aveva raccolto l’eredità commerciale dei Cream sia su disco
che in concerto, la cui testa pensante era l’ex produttore e collaboratore dei
Cream Felix Pappalardi e il cui solista di spicco Leslie West.
I risultati commerciali furono strepitosi, anche se com’è
noto i contratti firmati da musicisti annebbiati hanno la curiosa
caratteristica di far affluire i guadagni nelle tasche altrui. Pur con i limiti
della formula, gli LP pubblicati – Why Dontcha (’72) e Whatever Turns You On
(’73) – non sono brutti come li volevano la cornice del periodo e il ricordo
ancora fresco dei Cream.
Curioso notare come i due brani posti in chiusura di
facciata di Whatever Turns You On – brani che al di là dell’attribuzione di
copertina diremmo frutto interamente della penna di Bruce – sembrano guardare
in direzione opposta. La pianistica November Song è parente stretta delle
atmosfere serene e malinconiche di Harmony Row, con bella prestazione vocale
con eco e appropriato inserto centrale dove la chitarra di West sfoggia un
perfetto "woman tone" sorretto da un basso scoppiettante. Invece Like
A Plate prefigura la tensione di tante cose di Out Of The Storm, mettendo in
successione momenti talmente eterogenei – e tutta una serie di "finte
conclusioni" – da far sembrare il brano, in realtà breve, di durata quasi
interminabile (ma non perché noioso! diciamo perché "molto intenso").
Bruce va poi a suonare su Berlin di Lou Reed – e fummo molto
divertiti nel vedere che il "rock ignorante di marca newyorkese" di
quell’album doveva la sua caratura strumentale al bassista dei Cream, al
batterista di Zappa, al tastierista dei Traffic, al batterista dei Procol Harum
e così via, ma non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire. ("Men of
good fortune" – tutù-turutururù – "Often cause empires to fall"
– turuturùturùrurùm!.)
Dal punto di vista
commerciale Out Of The Storm andò ancora peggio di Harmony Row, con i
"violenti" già sazi di West Bruce & Laing – e in ogni caso non
molto interessati a un album di canzoni tortuose – e i "puri" poco
inclini a sporcarsi le orecchie con un musicista capace di scelte tanto
volgari.
I "primi missaggi" di cinque canzoni aggiunti come
bonus alla versione in CD del 2003 ci dicono di un’enorme quantità di piste e
premissaggi caratteristica di chi non ha le idee troppo chiare sul da farsi e
spera di trovare il bandolo della matassa al momento del missaggio. In realtà
le cose andarono male a partire dal primo tassello: i musicisti.
Ricordiamo distintamente il nostro stupore nel constatare
quanto limitato e dozzinale suonasse Jim Keltner – batterista dal lungo e
prestigioso pedigree – su un album di Bruce. E ci meravigliammo nel vedere
quanto più intelligente e musicale fosse l’apporto di Jim Gordon, strumentista
valido ma che non ritenevamo un fuoriclasse (ma quella per i batteristi
"rock" era un’epoca d’oro). Era evidente che Keltner non era riuscito
a trovare la logica di quelle (per lui tortuose) partiture, imponendo la
presenza di Gordon giunto a salvare la situazione. Diverso il caso di Steve
Hunter, perfettamente a proprio agio su Berlin (e su Rock’n’Roll Animal) ma qui
dall’immaginazione limitata e scolastica, pur se sufficiente.
Va ricordato che all’epoca i chitarristi erano quasi sempre:
a) autodidatti e b) legati a un approccio rock-blues, con una conoscenza di
scale e accordi alquanto rudimentale. Robert Fripp non era certo la regola!
Molto dipende ovviamente dall’elasticità del gruppo: nei Procol Harum Robin
Trower riusciva a essere un solista molto efficace ed emotivamente coinvolgente
anche in virtù del fatto che Gary Brooker, pianista e compositore principale
del gruppo, metteva a disposizione un tappeto dove la scala blues andava alla
perfezione (ed è ovvio che parte del merito va anche a Robin Trower, musicista
dal grande cuore come Paul Kossoff dei Free).
Su Harmony Row John Marshall aveva fatto buon uso del suo
patrimonio batteristico fatto di "rock elastico". Chitarrista giovane
e tecnicamente "normale", Chris Spedding era riuscito a far centro
facendo ricorso a un invidiabile senso dell’appropriatezza del contributo in
vista di un risultato: si ascoltino le parti di chitarra nel dialogo di
Victoria Sage, gli arpeggi che anticipano la coda maestosa di Smiles And Grins,
il quasi-mandolino "sussurrato" di Folk Song. (Ma si rifletta anche
sul contributo che Spedding è riuscito a dare ad album quasi contemporanei tra
loro ma tanto dissimili quali Helen Of Troy di John Cale e Silence di Michael
Mantler.)
E’ quindi merito di Jim Gordon se mini-sinfonie come Pieces
Of Mind e One navigano senza naufragare in quei mari tormentati. Keltner figura
bene su uno "stomper" come Keep It Down (dove è comunque il basso a
tenere su la tensione), sul R&B Keep On Wondering (con bell’assolo di
armonica di Bruce e l’impiego di quello che ci pare un talk-box da parte di
Hunter) e sulla ballad Golden Days, contraddistinta dai bellissimi dialoghi
vocali di Bruce. Piano e basso sorreggono brillantemente Into The Storm, mentre
la lunga linea melodica vocale di Running Through Our Hands poggia su un uso
originale del piano elettrico Fender Rhodes.
In chiusura, Timeslip è divisa in due parti, con la seconda
a dare un momento "alla Cream" che suona forzato. La prima parte – la
"canzone" in senso stretto – va invece dritto nell’antologia ideale
di Bruce. Un inizio dove il basso suonato con il plettro gioca con gli accenti
per poi accogliere la batteria di Jim Gordon e la voce, con un effetto
armonicamente ardito – già ardua di suo, la linea vocale acquista un senso
ancora più interessante quando accoppiata all’armonia del basso. Steve Hunter a
completare il quadro, il brano si distende poi nel ritornello. L’intera
sequenza viene ripetuta – si dedichi un’attenzione particolare ai diversi punti
in cui Gordon percuote il piatto ride – per poi sfociare in una coda che
rimanda fuggevolmente a certe cose dei Traffic.
Sarebbe stato diverso
il seguito della storia se il gruppo con Mick Taylor e Carla Bley non fosse
imploso prematuramente per i ben noti motivi?
© Beppe Colli 2014
CloudsandClocks.net | Mar. 28, 2014