Brainville 3
Trial By Headline
(ReR)
Dobbiamo
confessare che al momento in cui ci capitò, del tutto casualmente, di venire
a sapere dell’esistenza dei Brainville 3 – un paio di anni fa, o giù di
lì – ci trovammo ad alzare un sopracciglio, e poi anche l’altro: davvero
un
"Supergruppo dell’Avanguardia Rock", a dir poco! Ma per quanto
ci potesse sembrare pazzesca (e per quanto ci sforzassimo non riuscivamo
a trovare una cifra in comune fra i tre eroi se non giocando al ribasso),
la cosa aveva una sua innegabile logica: "Ex membri dei Gong, Soft Machine
ed Henry Cow" è scritta in grado di far bella figura su pressoché qualunque
muro, e in tempi di magra come questi…
Il nostro
sconcerto derivava essenzialmente da due fatti: innanzitutto, chiamare
Daevid Allen "ex Gong" appariva, oltre che commercialmente appropriato,
sostanzialmente veritiero – ché quella era, a ben vedere, tutta la storia
che contava; ma Hugh Hopper e Chris Cutler erano strumentisti eccellenti
la cui storia non si esauriva certo in quella di due gruppi minimamente
famosi da portare in cartellone; e quale sarebbe stato qui il loro ruolo,
se non quello di "riempimento de luxe" in un’estetica che – immaginavamo
– avrebbe largamente coinciso con quella di un "Daevid Allen Trio",
pur con l’aggiunta di una "classe de luxe"?
Il nostro
secondo motivo di sconcerto era di diversa natura: lungi dal voler negare
ad alcuno la possibilità di invecchiare con grazia, abbiamo sempre nutrito
pensieri ambivalenti nei confronti dei tour effettuati dai vari Muddy Waters,
B.B. King e John Mayall; la cosa si complica ancor di più allorquando si
mettono in conto testi (per carità di patria non parliamo di emissioni
vocali) che possono avere un senso "al presente" solo in verde
età (proprio l’altro giorno si rifletteva a proposito di You Turn Me On,
I’m A Radio di Joni Mitchell). Ma qui la nostra perplessità non riguardava
tanto quanto succede sul palco, ma sotto: ché abbiamo spesso notato che
non pochi fan pronti a trovare ridicoli i Rolling Stones odierni, o un
Iggy Pop (cosa perfettamente logica e condivisibile), poi si fermano di
fronte ai nostri eroi, come se uno
"stato di necessità" potesse conferire una dignità altrimenti assente
a una proposta mediocre. A ben vedere è sempre il vecchio discorso secondo
il quale è più etico vendersi per meno; ma non sarebbe meglio se i Brainville
3 piazzassero un pezzo come jingle della Toyota? Oppure quello sarebbe
"vendersi"? (Ah, se solo ci fosse chi compra…)
Se qui
dicessimo che Daevid Allen "si merita" i Brainville 3 correremmo
il rischio di essere fraintesi. Diciamo che Allen – simpatico
"pazzariello", sperimentatore "naive", "uomo dei
loop" ante litteram (anche se grazie a Terry Riley), chitarrista
"spaziale in glissando" – ha fatto tante belle cose che nessuno
può contestargli in un periodo ormai lontano (sono i ben noti album in proprio
o a nome Gong che portano titoli quali Banana Moon, Camembert Electrique,
Flying Teapot, Angel’s Egg, You, cui basta aggiungere un live a piacere,
per esempio Live etc.). Ma a differenza di un Kevin Ayers, creatore di canzoni
dall’estetica "elementare" ma autosufficiente, Allen ha sempre
necessitato di strumentisti superbi in grado di portare "oltre" le
sue (spesso efficaci) intuizioni; la prova, a contrario, è che non appena
ha ritenuto di poterne fare a meno, già ai tempi degli Euterpe, la musica
è collassata (lasciamo da parte cose quali mancanza di rinnovamento e similia).
La tragedia
di questo album riguarda tutta Hopper e Cutler – o, per meglio dire, noi.
Se i due avessero cessato il loro sviluppo, la loro ricerca, contemporaneamente
ad Allen non staremmo neppure a parlarne. Il fatto triste è che Hopper
non riesce a far decollare (concertisticamente) neppure un gruppo tutt’altro
che d’avanguardia – e anzi, parecchio "user-friendly" – ma di
innegabile qualità come il quartetto che compare su Numero D’Vol. In quanto
a Cutler (e la facciamo breve), il giorno in cui un album di qualità eccelsa
quale il suo Solo è affondato senza lasciare traccia ci è tornato in mente
il Pete Townshend di "Ho sputato sull’acquirente di dischi britannico"
di quando la I Can See For Miles degli Who si fermò al N°10.
L’apporto
di Cutler a Trial By Headline è assolutamente gigantesco, da servizio di
copertina su Modern Drummer. Stranamente, qui è Hopper ad apparire sottotono;
ma con molta probabilità quella di suonare meno note e di suonarle con
meno fuzz e armonici dispari è scelta dettata dalla necessità di non confliggere
con la chitarra e la voce di Allen e di non sovraccaricare armonicamente
i suoi pezzi; il che non vuol dire che Hopper non sia quasi sempre riconoscibile,
anche se con il procedere degli ascolti abbiamo avvertito la necessità
di agire sul volume e sui toni del nostro amplificatore.
Si diceva
di Cutler. E dobbiamo dire che da tempo non lo sentivamo (su disco) così
grintoso e fantasioso. Spazio da riempire ce n’è tanto, e Cutler lo riempie
tutto e bene. E nonostante la batteria non sia, verosimilmente, la sua,
l’apporto ai piatti, il manovrare di charleston (hi-hat, se si vuole),
il rullante con quell’inimitabile cordiera, tutto è "allo stato dell’arte";
più scuri del solito sono invece i tom (ma qui le ben note suddivisioni
ritmiche ce lo rendono ugualmente riconoscibile) e la cassa, in special
modo sull’unico brano registrato in quel di Londra. Il CD è stato infatti
quasi totalmente registrato nel 2007 a Berlino, con l’eccezione londinese
di cui s’è detto (stesso anno) e un’aggiunta dell’anno precedente allo
Zappa Club di Tel Aviv.
La prima
parte del CD – i primi cinque brani, che immaginiamo quasi come la prima
facciata – presenta pezzi lunghi e dal bell’interscambio strumentale. Trial
By Headline vede Cutler rispondere accento per accento, rilanciare spesso
la palla e riprodurre frasi melodiche sui tom. Dedicated to PQ but she
couldn’t hear it vede un nuovo testo di Allen aggiungersi al famoso tema
melodico già su Volume II dei Soft Machine, con bella performance del trio.
Ocean Mother offre una poesia di Allen, echi e chitarra glissando. Who’s
Afraid? è una classica
"list song", terrificante o ridicola a seconda dei punti di vista
(e di quello che si è ingerito?). La lunga Basement Suite appare verosimilmente
frutto di improvvisazione, e non suona poi troppo distante da certe lodate
pagine del duo Cutler/Frith.
Accolta
da applausi, I bin Stoned Before è la nota pagina già Gong, qui eseguita
con fantasia. Ed è qui, a partire da Return To Basement, che si aprono
i quindici minuti più efficaci dell’album: all’improvviso sentiamo il basso,
e il tutto, passando per The Rubiyat Of Honorium Tonsilitisk, ricorda non
poco i King Crimson delle improvvisazioni live del 1973, così come quella
Hours Gone che vira melodicamente in direzione dei Pink Floyd o di certe
ballad degli Hawkwind cantate da Dave Brock (anche se poi spunta il famoso
ZAI ZAO MAI MAO di Master Builder a ricordarci dove siamo). Chiusura briosa
con quella Didditagin che riesce a ricordare allo stesso tempo (oltre,
ovviamente, al famoso pezzo dei Soft Machine) la You Really Got Me dei
Kinks e la bella ripresa poi fattane dagli 801 di Eno e Manzanera.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2008
CloudsandClocks.net | May 11, 2008