Paul Bley
Solo In Mondsee
(ECM)
Sono
i primissimi anni settanta, e stiamo guardando un programma televisivo
proverbialmente serio (era TV7? o forse Almanacco? – a quei tempi esistevano
solo due canali televisivi di Stato, e le trasmissioni erano tutte in bianco
e nero). Il tema del servizio in onda è la musica elettronica, un’entità
alquanto misteriosa della cui esistenza il grande pubblico dei non specialisti
è da non molto divenuto consapevole grazie all’enorme successo mondiale
– e conseguente notorietà "di costume" – di un album di Walter
Carlos intitolato Switched-On Bach, laddove il musicista ha riadattato
arie celebri del grande compositore eseguendole su un sintetizzatore Moog.
La telecamera inquadra un signore barbuto di una certa età; l’intervistatore
gli chiede qualcosa come
"Puoi farmi sentire come fai una bomba atomica?", e il barbuto
signore prontamente esegue. L’effetto non è un granché, e il barbuto signore
dice "Beh, devo ancora perfezionare la mia bomba atomica".
Perfettamente
consci dell’esistenza della categoria dei "ricordi fittizi",
dobbiamo però ammettere di essere fortemente convinti che il barbuto signore
in questione fosse davvero Paul Bley, all’epoca men che quarantenne; mentre
non riusciamo a ricordare se la sua partner in musica di quel tempo, Annette
Peacock, fosse in quell’occasione accanto a lui. E quella era una visione
davvero buffa per chi aveva quali punti di riferimento sintetici il Moog
Serie III modulare di Keith Emerson degli immensamente popolari Emerson
Lake &
Palmer e l’agile Minimoog suonato da Don Preston sul brano Lonesome Electric
Turkey, entusiasmante picco strumentale dell’album di Frank Zappa intitolato
Fillmore East, June 1971.
Una cosa
comunque è certa: abbandonata di lì a poco l’esplorazione sintetica, Paul
Bley trasferì quel suo interesse per la grana del suono sul pianoforte,
lo strumento del quale nel corso del precedente decennio era già stato
un esponente di primo piano. La versione comunemente accettata è che, in
procinto di registrare un nuovo album per solo piano, il musicista richiese
una diversa – e più
"intima" – ripresa microfonica; ed è proprio su quell’album – il
mai abbastanza lodato Open, To Love del 1973 – che si può dire nasca quello
che comunemente chiamiamo "il suono ECM" (e anche quello di Keith
Jarrett?). Da parte nostra segnaliamo le parti di mano sinistra su Not Zero:
In Three Parts e Now, ambedue presenti su Not Two, Not One, l’eccellente
album del 1999 che Bley ha condiviso con Gary Peacock e Paul Motian: diremmo
che mai note di pianoforte sono apparse a tal punto quali "frutto di
sintesi".
Discografia
decisamente vasta, Paul Bley è musicista il cui nome non può che essere
definito quale "certamente noto": le enciclopedie e i volumi
sul jazz non mancano di riservargli uno spazio, le riviste specializzate
ne recensiscono gli album, e se si abita in una città dove si tengono abitualmente
concerti di jazz prima o poi capiterà di vederlo. Tutti d’accordo nel citare
il suo interesse per il suono e il suo modo personale di coltivare il silenzio,
e ampie lodi per la sua sensibilità di interprete, in primis su Open, To
Love (album al quale accosteremmo volentieri Homage To Carla del 1993).
Ma non
di rado abbiamo avuto l’impressione che il lavoro di Bley sia stato per
certi versi snobbato, quasi esso fosse quello di un pianista mainstream
che in fondo non vale la pena di indagare con attenzione. E diremmo che
questa scarsa considerazione sia stata largamente diffusa fino alla pubblicazione
di Time Will Tell (1995), il bellissimo album che ha visto il pianista
affiancato dal sassofonista Evan Parker (allora cos’è, basta la parola?)
e dal contrabbassista Barre Phillips (il trio ha poi avuto un seguito nell’altrettanto
valido Sankt Gerold Variations, pubblicato nel 2000).
Volendo
lestamente stilare un elenco delle possibili ragioni di sottovalutazione,
ai primi posti andrebbe certamente il suo essere stato (sottile) interprete
di composizioni tanto personali quanto quelle di Carla Bley (nata Borg);
composizioni alle quali è possibile affiancare (per carattere, se non per
"tipo") quelle di Annette Peacock; ambedue personalità decisamente
colorite, tra l’altro.
Ma Bley
ha esordito accanto a Charles Mingus e Art Blakey; ha avuto accanto a sé,
su un suo album, l’intero quartetto di un Ornette Coleman non ancora in
trasferta newyorchese; ha suonato sia con Sonny Rollins che con Albert
Ayler e Milford Graves. Allora?
Come
lesta ipotesi metteremmo in evidenza la cornice "Free Jazz" degli
anni sessanta, una "rivoluzione in musica" fatta prevalentemente
da trombe, sassofoni, tromboni, batterie e contrabbassi, e non certo –
eccezion fatta per Cecil Taylor – da pianoforti (dove sarebbe finito McCoy
Tyner senza John Coltrane? e quanti conoscevano Muhal Richard Abrams?);
e da neri – eccezion fatta per Roswell Rudd – piuttosto che da bianchi.
Certo è che è stato un musicista d’avanguardia visto da non pochi come
un "traditore del suo popolo", Anthony Braxton, a rivalutare
per primo l’apporto di musicisti quali Warne Marsh e Lee Konitz. Ed è proprio
accanto a un musicista della
"rivoluzione tranquilla" quale Jimmy Giuffre (il cui nome leggemmo
per la prima volta, pronunciato da Carla Bley, solo a metà degli anni settanta),
su album quali Fusion, Thesis e Free Fall, che Paul Bley diede il suo contributo
innovativo e sottile.
Registrato
nell’aprile del 2001, Solo In Mondsee vede Paul Bley dialogare con un possente
ma delicato Bösendorfer Imperial (i cui bassi poderosi aprono l’album)
per una serie di dieci "variazioni".
Variazioni
su cosa? Beh, diremmo che Bley – che ovviamente improvvisa buona parte
di quello che ascoltiamo – è intento a seguire un suo filo musicale che
tiene ben presente standard e classici. Quali non sapremmo dire, anche
se di tanto in tanto (quella commistione tra qualcosa che sa di Chopin
e una canzone "pop"
degli anni quaranta che apre II; il tema iniziale, e la quasi chiusa, di
VI; l’"andante con moto" di VIII) ci è parso – forse ingannevolmente
– di avere qualche titolo sulla punta della lingua.
Cosa
che ci ha per certi versi ricordato quel Thelonious Monk che in solitudine,
su album della seconda metà degli anni cinquanta quali Thelonious Himself
e Thelonious Alone In San Francisco, rileggeva vecchi standard che l’ascoltatore
odierno conosce solo per l’esecuzione fattane da lui! Monk fa comunque
capolino qua e là, in un accordo blues, in una pausa sospesa, in un cenno
di Functional.
E’ bello
seguire il filo che percorre questo lavoro, vedere il pensiero scartare
una soluzione a portata di mano, evitare una cadenza banale, inserire un
dissonanza, ripetere una nota. Imprevedibili ma logiche le chiuse
"decise" di II e VIII. Bassi in evidenza, note alte
"stoppate" (ma l’uso dei pedali è da gustare su tutto l’album),
una
"tempesta" che poi vira verso il blues, VII è forse il brano più
bello.
Chiusa
spiazzante, X è un "funky & bossa" dal sapore latino (e un
bell’inciso "funereo") dove – potenza del tocco – la sinistra
sembra percuotere un Fender Rhodes d’annata: eccellente!
Tutto
a posto, capolavoro, cinque stelle eccetera? Diremmo che i microfoni che
tanto bene hanno ripreso il pianoforte non siano stati meno efficaci nel
consegnare ai posteri la voce di Paul Bley intento a percorrere in parallelo
il tragitto delle sue mani. E qui, ognuno dovrà necessariamente regolarsi
da sé.
Beppe
Colli
© Beppe
Colli 2007
CloudsandClocks.net | Dec.
27, 2007