Diane Birch
Nous

(self-released)

Sperando di trovare qualche (buona) notizia, decidiamo di dare un’occhiata al sito di Diane Birch, musicista alla quale siamo molto affezionati ma della quale ormai da un bel po’ non ci giungono nuove. Certo, i tempi sono quelli che sono. All’epoca, le 72.000 copie statunitensi del suo album di esordio, Bible Belt (2009), ci erano sembrate poche, e in ogni caso di gran lunga inferiori a quello che un imponente apparato produttivo e promozionale – numerose apparizioni nei programmi televisivi che contano incluse – rendeva plausibile attendersi.

Una fase preparatoria lunga e complessa – che diremmo non esente da dubbi e indecisioni – aveva preceduto la pubblicazione di Speak A Little Louder (2013), che faceva del suo titolo un manifesto ma che alla fine sembrava soffrire un’eccessiva eterogeneità. E qui, pur in mancanza di cifre ufficiali, ci sembrava di poter dire che le vendite non erano state incoraggianti.

Con grande stupore, il solito indirizzo ci conduce stavolta a una strana immagine, che sulle prime non riusciamo neppure a collegare all’artista a noi nota. Nessuna traccia del sito ricco e vario che ben ricordiamo, capiamo solo che c’è un nuovo album che possiamo ascoltare e comprare… su Bandcamp, $5 offerta minima e scelta tra vari tipi di file. Scegliamo il formato FLAC, paghiamo, scarichiamo, masterizziamo un CD, e andiamo al nostro impianto hi-fi.

Nel frattempo abbiamo avuto modo di vedere il video ufficiale della versione acustica per piano e voce di quello che per certi versi potremmo definire il pezzo portante del lavoro (a proposito: durata complessiva 27′ 28", con versioni in CD e vinile a seguire): Stand Under My Love, qui registrata e filmata nella sua nuova casa a… Berlino. (Quante sorprese tutte in una volta!) Se l’aspetto è un po’ diverso da quello che ricordiamo, la qualità della voce e del pezzo sono le stesse di sempre, con la mano sinistra e la gamba destra a scandire a tratti il succedersi delle battute e a dare gli attacchi, come in risposta a un invisibile metronomo (ci viene in mente Regina Spektor, musicista la cui mimica presenta a volte tratti similari).

Il titolo dell’album è Nous, che sulle prime scambiamo per la prima persona plurale del pronome personale soggetto in lingua francese. Ma il titolo del primo brano, Hymn For Hypatia – la nostra impeccabile cultura classica ci consente di ricordare senza difficoltà che Ipazia era il nome della studiosa greca di filosofia, astronomia e matematica famosa per la sua eloquenza, personalità di spicco della scuola neoplatonica di Alessandria (però abbiamo mentito: in realtà ne abbiamo solo cercato il nome sul vocabolario) – ci ricorda che esiste una parola inglese, Nous, derivante dal greco, che sta per "mente" o "intelletto". (Ma anche, più colloquialmente, "senso comune". Come, ad esempio, "forse autoprodursi è la scelta più sensata?".)

Pur nella sua grande varietà, Nous è un lavoro estremamente unitario. Diane Birch ha curato in prima persona la produzione, oltre ad avere scritto i testi e le musiche. Il tutto gode comunque dell’apporto di una piccola squadra – i nomi tra un istante – che ha consentito all’album di suonare "moderno" ma non "anonimo". Da un punto di vista vocale la musicista è qui in forma strepitosa: se la versatilità rimane immutata – e come non ricordare quell’aspetto di "espressività controllata"? – si apprezza ora una ricca polifonia. Bel tocco al pianoforte, e poi tastiere, programmazione, "sound design", in qualche caso anche registrazione e missaggio.

Le parti vocali e di pianoforte sono state in gran parte registrate nei berlinesi Vox-Ton Studios da Antonio Pulli, con risultati di grande espressività e chiarezza. Suonata da Max Weissenfeldt, la batteria è stata registrata da Benjamin Spitzmeuller nello studio berlinese Joy Sound, con Spitzmeuller a registrare anche la piccola sezione fiati che compare in un brano, alcune percussioni, e a partecipare ai missaggi. Bella masterizzazione, non "schiacciata", a cura di Nene Baratto, effettuata nello studio berlinese Big Snuff, con Baratto anche ad alcuni missaggi.

Non mancano le "partecipazioni a distanza". Notevoli gli archi arrangiati e suonati in un brano da Yoed Nir, è il sax tenore di Stuart Matthewman – il cui suono risulterà familiare a più di un ascoltatore – l’elemento solista che gode di maggiore spazio e che crediamo abbia goduto di una maggiore autonomia esecutiva.

Se la varietà stilistica è quella abituale – soul, gospel, "canzone classica", perfino l’opera (un riferimento che non sorprenderà quanti ricordano la Superstars di Speak A Little Louder) – e la struttura dei brani facilmente individuabile, è spesso la "veste" sonora a fungere da "elemento cangiante" e a proiettare i brani nel presente escludendo un pericoloso effetto déjà vu. Anche se poi, con apparente paradosso, è proprio il "variare sonoro" a costituire un legame con la migliore musica "rock" degli anni sessanta e settanta.

Hymn For Hypatia apre con qualcosa che ricorda il canto gregoriano per poi virare in direzione del gospel e del soul. Un accordo vocale che non può non rimandare a Joni Mitchell, e un accordo di pianoforte che contestualizza e ancora l’insieme vocale. Poco più di un minuto che si rivela poi tematicamente collegato a…

How Long, con andamento soul, ritornello con voci all’unisono, sezione fiati con tromba, flauto, e tenore, un brano in levare a ben vedere non lontanissimo dagli Eurythmics di Touch.

King Of Queens, dall’andamento per certi versi glaciale, apre con suono di una puntina che riproduce un disco in vinile. Voce effettata, basso, percussioni, e degli archi – che diremmo processati – dalla natura timbrica "ambigua". Ottimo il trattamento timbrico sulle voci.

Interlude è un breve… interludio dalla sciolta esecuzione, con evidente rimando tematico al brano precedente.

Stand Under My Love è senz’altro il brano più accattivante, con un’atmosfera oscillante tra il sogno e l’incubo. Ottima voce solista, cori, tastiera (non accreditata), tanto riverbero, batteria in primo piano. Bello l’inciso vocale "nudo", con coro a sostenere, e transizione di grande finezza verso il ritornello.

Walk On Water è l’episodio di durata maggiore, se "ipnotico" o "tedioso" è cosa che ogni ascoltatore dovrà decidere da sé. Apre con spezzone parlato di voce maschile, poi voce solista e pianoforte, ritornello a voci multiple, il tutto con un respiro quasi sinfonico. Abbondante apporto del tenore, e di una piccola sezione fiati.

Woman chiude bene l’album. Introduzione pianistica asciutta, entra la voce, una bella canzone ricca di pause. Sul finale il sassofono si fa jazzistico/bluesato sui nuovi accordi porti dal pianoforte, per poi sdoppiarsi.

La recensione finisce qui, ed è qui che ci chiediamo quali saranno le nuove mosse di Diane Birch. (Forse in risposta a quanti procederanno all’acquisto di quest’album su Bandcamp a $5 o più?)

Beppe Colli


© Beppe Colli 2016

CloudsandClocks.net | Feb. 20, 2016