Biota
Half A True Day
(ReR)
E’ stato
alla fine degli anni ottanta – nell’imminenza della pubblicazione di Tumble
– che ci siamo sorpresi per la prima volta a pensare a quella dei Biota
come la musica (l’estetica? il linguaggio? la grammatica?) di portata maggiormente
innovativa da noi ascoltata da tempo immemore. La nostra era stata una
scoperta in buona parte casuale, avvenuta mentre consultavamo un catalogo
della loro casa discografica inglese, la ReR, alla ricerca di qualcosa
di diverso che fosse in grado di ridestare il nostro interesse nei confronti
della musica; un interesse che a quell’epoca appariva decisamente smorzato
a causa della mediocrità che in misura crescente veniva pubblicata.
Partimmo
da lì, da una fresca ristampa di Horde:
un album opera del collettivo musical-visuale denominato Mnemonists
che ci mise di fronte all’inatteso. Seguimmo con curiosità crescente il
seguito della storia: da Rackabones (1985) dei Biota, inizialmente gruppo-satellite
dei Mnemonists, a Bellowing Room (1987), a Tinct (1988), al 10" Awry
(1988), a Tumble (1989, il loro primo CD). E fu proprio ascoltando Tumble,
che arricchiva ancor di più la già vasta tavolozza di colori adoperata
dal collettivo, che pronunciammo la fatidica parola: "capolavoro".
In parallelo, non ci era ovviamente sfuggito l’assoluto silenzio
che circondava l’opera dei Biota. Da un lato il fatto era solo logico:
la ReR non era mai stata in grado di acquistare quelle belle pagine di
pubblicità a colori che piazzano gli artisti al top nella scala di priorità
di un giornale. (Ci sorprese un po’ apprendere alcuni anni dopo che gli
album dei Biota, da noi immaginati quali perennemente venduti se non proprio
quale sicura fonte di auto-finanziamento per la ReR, vendevano in realtà
pochissimo. E questo in un periodo in cui "il suono" era fattore
decisamente al centro dell’attenzione.)
Dall’altro, il (nostro) problema era che eravamo abituati ad associare
il concetto di "innovazione" a quello di
"controversia". Non era stato forse così per gente come Monk, Taylor,
Coleman, Braxton e compagnia? E non si era forse ribellato il pubblico alla
prima di… (crediamo si trattasse di un lavoro di Stravinsky)? E che dire
di Zappa? L’unico parallelo che ci pareva possibile era con Tod Dockstader:
un (non)musicista che aveva creato musica di forma individuale e dai colori
unici e che era stato rifiutato dall’Accademia in quanto non accademico.
E come quella dei Mnemonists/Biota, anche quella di Dockstader era una musica
di studio.
L’indeterminatezza – ma sicuramente è meglio parlare di "non
univocità di significato" – è sempre stata una caratteristica del
lavoro dei Biota, con tutti i pericoli che logicamente derivano dall’operare
in questa moderna "terra di nessuno". Per dirla in modo succinto,
ci parve che nel cammino che andava da Horde a Tumble fosse possibile scorgere
la lenta nascita di un linguaggio. In contemporanea, però, la crescente
democratizzazione dei mezzi di produzione "elettronici" – in
primis studio e nastri, presto seguiti da ogni attrezzatura atta a produrre
e modificare suoni – scaraventò sul pubblico una quantità mai vista di
"indeterminatezza", e con essa l’intera responsabilità di
"trovare" un senso nei suoni. E quando apparve quel perfetto sinonimo
di modernità che è il laptop il discorso fu chiuso.
In realtà i suoni dei Biota – pur processati in modi ingegnosissimi
– hanno sempre avuto la loro origine in uno strumento, fosse esso comune,
insolito, o inventato. Il largo spazio dato alle chitarre acustiche e alla
fisarmonica, il pianoforte e una certa linearità melodica avevano reso
Tumble (relativamente) accessibile. Più che un passo in avanti, Almost
Never (1992) fu un passo di lato: il largo spazio dato al flicorno di James
Gardner, compositore solitario di alcune parti dell’album, non poteva non
richiamare alla memoria certe meditabonde pagine davisiane. E certo era
curiosa la valenza "vocale" a tratti assunta da questo strumento.
L’ascolto
di Object Holder (1995) ci lasciò assolutamente sconcertati: il gruppo
aveva prodotto un album di… canzoni!, con largo spazio per una voce femminile.
Quella di Susanne Lewis è per chi scrive una delle voci più brutte e sgraziate
esistenti, quindi l’album partiva in salita. Ma indipendentemente dalla
voce usata, era la ratio del progetto a rimanerci oscura: la voce è sempre
fatalmente destinata a occupare un posto privilegiato a spese del resto,
ed era stato proprio un insieme "misterioso" dove nessun colore
primeggiava a costituire la cifra distintiva del gruppo. Paradossale notare
come il pezzo per noi più bello fosse un momento per sola fisarmonica e "quasi
rumore bianco" posto – senza titolo – alla fine dell’album.
Invisible
Map (2001) ci sembrò meglio: la voce (quella di Genevieve Heistek) ci risultava
meno sgradevole , ed era adoperata di meno; ma il lavoro aveva un che di
poco soddisfacente: sin troppo "già sentito" nelle parti strumentali,
che ora incominciavano ad assumere un’aria di maniera; alla ricerca di
una strana semplicità "folk" i momenti che vedevano la voce in
primo piano. Dovemmo tristemente ammettere che a quel punto il cammino
dei Biota e quello di chi scrive sembravano irrimediabilmente destinati
a separarsi.
Da quanto
detto finora discende more geometrico che da un nuovo lavoro dei Biota
non ci aspettavamo nulla di buono. Quanto meno eravamo sfiduciati. Quindi
non abbiamo atteso la pubblicazione di Half A True Day con la temperatura
in salita. Tutto ciò dovrebbe spiegare a sufficienza il nostro stupore
per un lavoro notevolissimo che per certi versi si pone come il punto più
alto mai raggiunto dal gruppo. Consci del rischio degli entusiasmi frettolosi,
abbiamo ascoltato molto a lungo il lavoro, rimanendone sempre molto ben
impressionati.
Half
A True Day è un album difficile. Non ispido. Ma ricco di una pluralità
di sensi che ne rende la frequentazione prolungata (in un ambiente il più
possibile silenzioso e sereno – ma questo lo sapevamo già, no?) assolutamente
necessaria. Complesso, e forse (azzardiamo) più difficile per chi già ben
conosce i Biota (che dovrà procedere a resettare molte aspettative) che
per il neofita. Con la misteriosa morbidezza di Tumble, dal quale è però
distante mille miglia.
Cominciamo
con il dire che il suono dell’album è gradevole, molto meno aspro dei suoi
due immediati predecessori (merito di convertitori di qualità migliore?).
Object Holder e Invisible Map avevano un che di rude, mentre qui il suono
invita l’ascoltatore ad alzare la manopola del volume per esplorare compiutamente
il rapporto tra i piani. Ritornano anche i famosi "punti di indicizzazione" che
mostrano la "separazione interna" dei brani. Anche qui ci sono
le voci (diremmo principalmente quella di Kristianne Gale), ma diremmo
che stavolta il gruppo ha fatto centro: volume ridotto, posizionamento
piuttosto in sottofondo, trattamenti e loop consentono alla voce di farsi
strumento tra gli altri.
La prima
sensazione che abbiamo provato ascoltando il lavoro è stata quella di déjà
vu. Non nel senso di qualcosa di "già sentito", ovviamente. Ma
a tratti ci è parso di riconoscere cose che avevamo – letteralmente – già
ascoltato; un buon esempio è la "chitarra rock blues con slide" che
appare sul finale di Proven Within Half/Half A True Day, che diremmo essere
proprio la stessa che apre The Trunk su Object Holder: uno "splice"?
La sensazione
continua nell’ascoltare melodie che si ripresentano – ad esempio la fisarmonica
a circa 30" del brano iniziale, Figure Question, e poi l’attacco di
Pack-And-Penny Day; oppure la frase melodica suonata come arpeggio al pianoforte
in apertura di Just Now Maybe e in apertura e chiusura di Another Name,
poi ripresa da uno strumento a percussione (una marimba?) in apertura di
Cloud Chamber.
L’insieme
è quindi non poco spiazzante, con queste "motivic variations" a
farci continuamente mettere in discussione quello che stiamo ascoltando.
Va da sé che l’orecchio si protende di continuo per scorgere segnali e
indizi nei piani di sottofondo.
Forse
più che in altre occasioni ci è parso di scorgere riferimenti a cose a
noi già note (un "momento Hot Tuna" e un "momento Faust" su
tutte), ma se dovessimo segnalare le cose che ci hanno davvero colpito
faremmo notte. Diciamo solo delle voci rovesciate di Globemallow, Left
Untold e rovesciate e in loop di Where No One Knows e dell’organo (?) del "punto
indice" 3 di Passerine. O il violino qua e là.
Si formano
continuamente possibili parallelismi, con la fisarmonica solitaria seguita
da un "quasi rumore bianco" che conclude il CD a richiamare la
già citata chiusa di Object Holder. E più di una volta abbiamo avuto l’impressione
di un senso difficile da afferrare.
Misterioso
fin dal titolo, Half A True Day è un album che ha certamente richiesto
anni di lavoro (e si vedono tutti, in senso buono) e che sol per questo
possiede una stupefacente inattualità.
Come
già largamente noto, la ReR non possiede i mezzi necessari a restituire
la vista ai ciechi. Al lettore la responsabilità (e il piacere!).
Beppe Colli
© Beppe Colli 2007
CloudsandClocks.net | Nov. 12, 2007