Walter Becker
Circus Money
(5 Over 12)
E’ per
molti versi decisamente buffo assistere in tempo reale a un processo di
"riscrittura della storia" quale quello oggi in atto a proposito
di 11 Tracks Of Whack (1994), unico album solo di Walter Becker prima dell’uscita
di questo Circus Money che ogni recensore degno di questo nome deve necessariamente
contestualizzare. Ma all’epoca le recensioni erano state in gran parte terribili;
o, per meglio dire, scarse di numero e ben poco favorevoli (almeno fino a
qualche tempo fa il sito ufficiale degli Steely Dan aveva in archivio una
recensione "pro" e una "contro", e il confronto era decisamente
istruttivo). Giustamente, i critici avevano
"contestualizzato": e cosa poteva esserci di più indisponente di
un album che sembrava presentarsi come tirato via già a partire dal titolo,
con quelle strane batterie elettroniche e un cantante (lo stesso Becker)
che sembrava non avesse mai cantato in vita sua? E nonostante la copertina
recasse la dicitura "Produced by Walter Becker and Donald Fagen" nulla
sembrava accomunare quell’album ai tanto amati "Kings of Cool and Precision".
Da parte nostra, avendo acquistato l’album "usato come nuovo" pressoché
a ridosso dell’uscita, ci mettemmo in attesa di un seguito che chiarisse
le cose.
Ma quando
si tratta degli Steely Dan il tempo è un’entità in grado di regalare non
poche sorprese. C’era già stata quella pausa inaspettata (ma che ex post
suonava solo come perfettamente logica) dopo Gaucho (1980), l’album più "cool" (si
veda la percettiva analisi fattane da Ian MacDonald) seguito al (piccolo)
botto commerciale di Aja (1977) e all’apice chitarristico di The Royal
Scam (1976). Ma l’uscita del primo album solo di Donald Fagen, quel The
Nightfly (1982) che continua a godere di buona popolarità fino a oggi,
mentre sembrava rendere indolore la scomparsa dello storico marchio, obbligava
di per ciò stesso l’ascoltatore a porsi una domanda: se The Nightfly aveva
le tastiere degli Steely Dan, la voce degli Steely Dan, la musica degli
Steely Dan, le atmosfere degli Steely Dan, le armonie degli Steely Dan
e quasi i testi degli Steely Dan, qual era stata, allora, la parte di Walter
Becker negli Steely Dan?
Anche
se potrà sembrare strano, dobbiamo confessare di aver preferito 11 Tracks
Of Whack a Kamakiriad (1993), nuovo album solo (prodotto da Walter Becker)
di Donald Fagen dopo circa un decennio di assenza dalle scene: pur consapevoli
del maggior spessore del secondo, non potevamo però evitare, "a pelle",
di preferirgli il primo. Se è infatti vero che 11 Tracks Of Whack necessitava
di molti aggiustamenti, pure l’album aveva dalla sua una indefinibile grazia
fintamente naïve che lo rendeva infinitamente più fresco di Kamakiriad,
un buon lavoro il cui difetto principale stava nel suonare come una copia
stanca di The Nightfly.
Mentiremmo
se dicessimo di aver provato una grande gioia nell’apprendere della ricostituzione
degli Steely Dan, prima quale entità concertistica, già negli anni novanta,
e poi discografica: Two Against Nature (2000), vincitore di numerosi Grammy,
ed Everything Must Go (2003) non sono affatto brutti album, ma a parere
di chi scrive l’incontro con il digitale, la costruzione dei brani
"dalle fondamenta in su" e lo sforzo di far suonare degli ottimi
batteristi come se fossero macchine non ha giovato alla musica, già (logicamente)
non più fresca. Per contro, la scelta di Donald Fagen di realizzare Morph
The Cat (2006) in solitudine sembrava aver prodotto il miglior lavoro contraddistinto
dal classico marchio stlistico dai tempi di The Nightfly. Da cui la domanda:
e adesso? (Domanda riguardante solo il versante discografico, però, ché i
concerti – almeno per ora – continuano, con gli ottimi risultati che chi
scrive ha potuto verificare di persona lo scorso anno.)
Sappiamo
tutti quanto sia difficile (oltre che scomodo, e spesso per molti versi
ben poco produttivo), trattandosi di "creazione collettiva",
provare a distinguere l’apporto dell’uno da quello dell’altro – e anche
qui, i Beatles ci hanno insegnato qualcosa. Diremmo che nel caso degli
Steely Dan è possibile, in prima approssimazione, solo quale ipotesi di
ricerca, e senza necessariamente andare indietro fino a Do It Again, provare
a distinguere quei brani che è più probabile nascano stando seduti davanti
a una tastiera da quelli che è più probabile nascano tenendo in mano una
chitarra – diciamo Aja e Gaucho da una parte, e Josie e Haitian Divorce
dall’altra. Chiediamoci allora: come suonerebbe un album che raccogliesse
prevalentemente brani come gli ultimi qui citati? (Come suonerebbe l’altro
lo sappiamo già: come The Nightfly e Morph The Cat.)
Eccezion
fatta per la piccola sorpresa nell’apprendere di un’amicizia di lunga data,
la notizia che Walter Becker avesse scelto Larry Klein quale produttore
del suo secondo album solo a quattordici anni di distanza dal primo non
poteva stupire: già bassista dalla lunga esperienza, poi anche autore,
Klein è progressivamente divenuto negli anni un ottimo e affermato produttore,
in un tragitto che va dai primi lavori incisi con Joni Mitchell negli anni
ottanta al recente Grammy per l’album di Herbie Hancock intitolato River:
The Joni Letters passando per tutta una lunga serie di album di cantanti
femminili, l’ultima essendo la Luciana Souza di The New Bossa Nova.
Più sorprendente
l’annuncio che l’album sarebbe stato tutto caratterizzato da ritmi Reggae
e Ska con puntatine nel Dub. In un certo senso nulla di strano, visto che
brani contrassegnabili come "reggae" non erano mancati nella
produzione degli Steely Dan o di Becker e Fagen. Ma tutto un album?
Sorpresa
# 2, Klein compone (quasi) tutti i brani insieme a Becker, in che misura
e veste non è dato sapere.
Gli accreditamenti
sono cumulativi, ma abbiamo ragione di credere che le
"basi" dell’album siano state registrate (dal vivo in studio, in
dieci giorni) a New York da Jay Messina e Elliot Scheiner, con le sovraincisioni
fatte in California, a Santa Monica, dal fidato collaboratore di Klein Helik
Hadar, che ha anche curato il missaggio dell’album. La masterizzazione è
di Bernie Grundman. In ciò riflettendo i tempi che cambiano, l’album esce
per un’etichetta autogestita e – oltre ovviamente al CD – in due formati
scaricabili: il più leggero e meno fedele MP3 e il FLAC. Chi scrive ha ascoltato
il tutto in formato CD.
Ma è
davvero un album di reggae? Diremmo di sì… fino a un certo punto. Ovviamente
il reggae è qui una cifra stilistica unificante. Dando per scontati i ritmi
in levare e le chitarre "a strappo" non mancano stilemi noti
– l’ingresso ritardato delle voci femminili su Darkling Down è una mossa
che diremmo davvero "classica" – ma se il disegno ritmico di
God’s Eye View ricordi davvero i Black Uhuru è cosa che non sapremmo dire.
Walter
Becker (qui anche alla chitarra) è un buon bassista, e dev’essersi divertito
non poco a "indirizzare da dietro" il procedere dei brani. Ovviamente
cruciale il ruolo del batterista, ma qui la scelta era obiettivamente facile:
già ammirato nel corso degli ultimi tour degli Steely Dan, Keith Carlock
fa un prevedibile figurone; sono ovviamente disegni ritmici "stretti",
ma il musicista li interpreta con agilità e fantasia senza mai correre
il rischio di essere scambiato per una drum machine.
A formazioni
degli Steely Dan presenti e passate fa ricorso la lista dei musicisti:
alle chitarre, Jon Herington e Dean Parks fanno un lavoro poco appariscente
ma decisivo, ricco per timbri e accordi (un ascolto in cuffia aiuta), Chris
Potter è al sax tenore in qualche brano e Ted Baker si adopera a numerose
tastiere; meno familiari in questo contesto, Roger Rosenberg fa una bella
figura al clarinetto basso e al sax baritono e Jim Beard è al pianoforte
e a tastiere assortite; citiamo anche Larry Goldings all’organo Hammond.
Numerosissime le voci femminili, ora dialoganti, ora all’unisono, ora in
appoggio (qui il retroterra di Klein dev’essere stato utile), le più familiari
essendo quelle di Carolyn Leonhart-Escoffery e Cindy Mizelle.
Ma è
Becker cantante la vera sorpresa. La voce è sempre la stessa, né potente
né di buona estensione, con un’intonazione la cui agilità deriva molto
più da una testa sveglia di musicista che dalle corde vocali. Però la produzione
ha tenuto conto dell’emissione, e il tutto ne risulta arricchito. L’ascolto
attento dice di atmosfere narrative coinvolgenti, vera prova che l’emissione
vocale risulta credibile.
E a proposito
di ascolto attento, questo è per definizione un album da ascolti attenti.
Niente affatto di difficile comprensione, rivela nel tempo una cura certosina.
Missaggi dinamici che "non si notano", rullanti che vanno dal
classico "thud" del legno allo squillante "piccolo in ottone".
Eccetera.
Un drammatico "crash" a
decay lungo apre il primo brano, Door Number Two, insieme al pianoforte
e al piano elettrico (ma il secondo
"crash", a circa 9", è già più soft). Le voci femminili che
sembrano portarci dalle parti di Babylon Sisters, cassa secca, tempo lento,
chitarre "fantasma" a destra indietro, buon assolo di tenore, bella
interpretazione vocale di Becker. Preziosismo: gli arpeggi del pianoforte
in parallelo ai "desiderata" dei protagonisti.
Inizio
elegante per Downtown Canon: due sequenze di accordi arpeggiati a macchina
e una drum machine cedono il posto a una rullata di batteria e a Becker
che annuncia trionfante: "I cracked the code". Il ritmo è reggae
(rullante in rimshot, con pelle colpita nel ritornello), ma è una vera
ballata soul à la Marvin Gaye. Bel ritornello, con appropriato sfondo delle
voci femminili. Ottimo organo Hammond, con morbido piano elettrico.
Fummo
molto stupiti, lo scorso anno, nel notare come la reggae Haitian Divorce
in concerto sorprendentemente cantata da Becker assumesse un’aria country &
western, e la stessa cosa può essere detta di Bob Is Not Your Uncle Anymore.
Giro di basso impossibile da dimenticare, splendida batteria rimshot/cassa,
intermezzo dub con i tipici echi. Testo a un tempo chiarissimo ma
"incomprensibile".
Dopo
una spettacolare introduzione di batteria secca, quasi dei timbales, Upside
Looking Down sembra quasi una tipica ballad "early 60s", belle
chitarre, appropriato assolo di Dean Parks, e quando entra il ritornello
arioso con le voci femminili e Becker sussurrato in falsetto è davvero
roba da fazzoletti.
Non siamo
riusciti a entrare in sintonia con Paging Audrey. Troppo lunga in ogni
caso. Buon assolo di tenore.
Circus
Money è forse il pezzo più strano: firmata dal solo Becker, con Klein al
basso, somiglia moltissimo a una Walkin’ The Dog di Rufus Thomas arrangiata
da Ray Manzarek dei Doors. Bellissima parte di batteria molto à la Steve
Gadd, con rullante sonoro, voce di Becker in phasing e un buon assolo di
tenore.
Calliope
e un inizio a metà strada tra la commedia musicale e il cartoon per Selfish
Gene (qualcuno ricorda le teorie sul "gene egoista"?). Tempo
pigro, i primi due versi di ogni strofe ci hanno ricordato un pezzo di
Tom Petty (dovrebbe trattarsi di You Don’t Know How It Feels – sarà vero?
sarà voluto?). Luciana Souza (toh!) ha una parte solista, ben interpretata.
C’è un raro
"inciso" a 2′ 04", gli "incisi" essendo (stranamente)
assenti in quasi tutti i pezzi dell’album.
Rullante
"piccolo in ottone", e cassa grossa, per Do You Remember The Name,
arpeggi di chitarre a go-go, brano "pigro". Bella melodia, unisono
di Becker e Carolyn Leonhart-Escoffery. Ottimo assolo di Jon Herington alla
slide.
Somebody’s
Saturday Night è quasi zappiana, swingante, jazzata, con eccellente coro
femminile, reminiscenza ellingtoniane e un buon solo di Becker.
Darkling
Down (brano che comprende le parole "nihilism" e
"Muscatel", non facile!) ha un rullante secco e voci femminili
in evidenza. Organo Hammond e ottimo assolo di Becker.
God’s
Eye View ha il testo forse più complesso (diremmo ovviamente!), un bell’interscambio
tra voce maschile e voci femminili, basso incalzante, bella chitarra scandita,
piano elettrico e un ottimo clarinetto basso, sia in coloritura che in
assolo.
Un’introduzione
di pianoforte melodica ci dice che siamo giunti ormai ai titoli di coda.
Ritmo serrato, quasi una Dancing In The Streets in versione "Plastic
Soul", sax baritono, pianoforte, ritmica, tastiere che mimano un organo
à la Aretha Franklin, ritornello "soul", e bell’assolo di sax
baritono. E’ Three Picture Deal.
E’ l’appropriata
chiusura, ma non per la "International Edition". Qui c’è tempo
per una bizzarra Dark Horse Dub, con gli echi che ci aspetteremmo e un’orchestrazione
insolita: trombone (ed è il sempre bravo Jim Pugh) e una
"piccola banda" (sax baritono e soprano, clarinetto, flauto alto)
impersonata da Roger Rosenberg. Le ottime percussioni, come su tutto l’album,
sono suonate dal noto Gordon Gottlieb.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2008
CloudsandClocks.net | July 24, 2008