Cattive notizie
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di Beppe Colli
Feb. 14, 2012
Fatto ben noto ai lettori
di questa rivista, la prospettiva macro adottata da chi scrive assume non
di rado le tinte apocalittiche di una catastrofe incombente – ma non necessariamente
senza rimedio, da cui le ragioni pragmatiche del nostro illustrarne con dovizia
di particolari le caratteristiche più sgradevoli.
E’ stato quindi con più di una punta di ironia che abbiamo
deciso di intitolare i primi due interventi di quest’anno Doom e Gloom, coppia
classica per disastri di ogni tipo. E proprio per ancorare i fatti negativi
a qualcosa che percepivamo come sostanzialmente immutabile scrivevamo nel
primo di essi: "E qui, per associazione di idee, abbiamo deciso di andare
a vedere se J. Hoberman lavorava ancora al Village Voice." (..)
"Hoberman c’è ancora – o almeno, c’era ancora in data Wednesday, Dec
21, 2011", la qual cosa dicevamo con ironia. Ma dobbiamo confessare
che mentre scrivevamo quelle parole ci è capitato di pensare: "ma chissà
se ora non salta anche Hoberman".
"Ma le cose sono cambiate il 4 gennaio
2012, quando il mio datore di lavoro mi ha comunicato che il mio posto
non c’era più." (…) "Ieri pomeriggio ho saputo che il mio posto
al Village Voice era stato eliminato. Ho fatto parte dello staff dal 1983,
ho scritto regolarmente recensioni a partire dal 1978, e ho venduto il
mio primo pezzo come free-lance (…) nel 1972, quando ero ancora un fanciullo".
Così Hoberman sul suo sito.
Controllando in Rete, abbiamo trovato qualche
informazione al riguardo e alcuni interessati elaborati di (e su) Hoberman
(segnaliamo una conversazione del 2008 effettuata insieme al critico cinematografico
del New York Times A. O. Scott intesa a celebrare i trent’anni di collaborazione
con il Village Voice). Ci è poi pervenuto un messaggio di un nostro lettore
newyorchese che conosce Hoberman e che definiva il critico
"addolorato ma non del tutto sorpreso".
Proprio l’anzianità di servizio di Hoberman – che non è affatto
anagraficamente anziano, e che tiene regolarmente corsi universitari – parrebbe
la chiave del fatto, stante una cornice in cui i giornali di carta stringono
sui costi: a maggiore anzianità corrispondono infatti uno stipendio più alto
e maggiori benefits. Va da sé che non necessariamente i giovani lavoratori
che prenderanno il posto di Hoberman saranno di qualità scadente. Ma di Hoberman
ce n’è uno, e di qualità paragonabile pochi. Importerà ai lettori? E agli
inserzionisti? C’è ancora un futuro per la qualità?
Alcuni anni or sono,
per ragioni di famiglia, ci capitò di recarci in una città italiana del centro-sud
che ci è dato visitare molto di rado la cui geografia socio-economica ci
è scarsamente familiare. Avendone il tempo, e nutrendo non irragionevoli
aspettative che le nostre speranze al riguardo non sarebbero andate deluse
– la città in questione, dopotutto, potendo contare sulla bellezza di un
milione di abitanti o giù di lì – decidemmo di dedicarci a uno dei nostri
passatempi preferiti: cercare negozi che vendono musica registrata, e – se
capita – anche strumenti e spartiti.
Non trovammo niente. O per meglio dire, non trovammo niente
che risultasse di nostro interesse, con l’eccezione della filiale cittadina
di una ben nota catena di musica e libri dall’assortimento a dire il vero
più che degno (e, per quel che riguarda la musica, decisamente più dalle
parti di un Barnes & Noble che di un Wal-Mart). Quel che mancava, per
dirla in breve, era il tipo di negozio dove accanto al rock "import" di
qualità è normale trovare la ristampa degli Henry Cow e l’ultimo CD di John
Zorn – o di Wayne Horvitz. Adoperammo tutte le arti investigative di cui
disponiamo, fermammo la gente per strada, importunammo chiunque avesse con
sé una custodia contenente uno strumento, ma niente da fare. Solo un signore
sulla quarantina, dopo una lunga riflessione, si ricordò di un negozio che "mi
pare fosse dalle parti di (…), ma poi ha chiuso, tanto, tanto tempo fa".
E qui, tutto d’un colpo, ecco cosa ci venne in mente: "ma
non è questa la città che da quasi quarant’anni riceve soldi pubblici a sostegno
della "musica difficile"?". Interrogato sul come mai in una
città simile non si trovassero in vendita cose ardite di musicisti che pure
lì avevano suonato, e un luogo fisico che le vendesse, un amico la cui opinione
riteniamo affidabile ci replicò con molto buon senso: "si vede che i
CD li vendono ai concerti".
Resta il fatto che uno dei compiti dell’intervento pubblico
– supplire con un intervento non a scopo di lucro in modo da giungere a creare
una "massa critica" in grado di innescare un circolo virtuoso –
sembrava in questo caso aver fallito clamorosamente. E’ ovvio che assumere
quale metro l’acquisto di musica in un negozio potrà suonare bizzarro a quelle
orecchie abituate a considerare lo scaricafacile un’abitudine ormai connaturata
al consumatore odierno. Ma qualunque sia il nostro modo di accertare una
maturità dell’ascolto che cresce nel tempo – fischiare poliritmi, o accordi
di tredicesima – non pare troppo chiedere a un "consumatore di qualità" di
adottare nei confronti della musica registrata modalità di spesa non dissimili
da quelle serenamente messe in atto nei confronti di cibi, bevande, abbigliamento
e viaggi di piacere. Se poi dovessimo accertare la sostanziale uniformità
di comportamento tra città in cui esiste un massiccio intervento pubblico
e città nelle quali esso è assente – per farla breve, tre copie vendute –
avremmo la prova che esso è del tutto inutile. O no?
Come tante cose nella vita, anche il sostegno pubblico alle
arti è qualcosa di chiarissimo finché non lo si va a esaminare da vicino.
Quale lo scopo? (La domanda non è oziosa: se non so cos’è non so come fare
a misurarne l’efficacia.) In senso storico la funzione originale è quella
di abbattere le barriere economiche e mettere il
"volgo" a contatto con l’arte. Cioè a dire, si abbattono i costi
al pubblico, mantenendo intatti quelli reali.
La questione pone già problemi pratici, dato che i "generi" ammessi
allo statuto di
"arte" vengono fissati come da tabella (ricordiamo le polemiche
dirette a equiparare il jazz alla musica classica), con effetti non di rado
paradossali quali considerare il David Murray che suona una versione di un
quarto d’ora di The Kiss That Never Ends (un brano in grado di rivaleggiare
in sdolcinatezza e ruffianeria con il Gato Barbieri di Ultimo tango a Parigi)
"arte", e Fiona Apple "commerciale".
In epoca moderna allo scopo numero uno ("l’illuminazione
del buio") si affianca in vario modo lo scopo numero due, consistente
nel tenere in vita il musicista, frattanto che l’azione che ha come fine
lo scopo numero uno abbia modo di esercitare la sua piena efficacia. Accade
quindi che la vendita di tre copie per data da parte di una musicista che
effettua dieci date sul suolo nazionale non venga vista come un fallimento,
dato che il vero successo consiste nell’aver effettuato quelle dieci date.
Ma chi sceglie i musicisti, e ne determina il cachet? Qui è ovvio che per
lo spettatore i soldi sono "i nostri" – e quindi, anche
"i suoi", com’è ovvio per fondi pubblici; ma basta vedere gli occhi
brillare di gioia e gratitudine, con ringraziamenti espliciti "ad hominem"
effettuati dal palco, strumento in mano, per capire che i musicisti sanno
benissimo che quello che è importante non è di chi sono quei soldi ma chi
ha firmato quell’assegno che consentirà loro di svernare con una certa tranquillità.
Qualunque l’idea di ognuno in merito alla questione, due le
caratteristiche che non dovrebbero mai mancare quando parliamo di sostegno
pubblico alle arti: il momento didattico – nel senso della continuità e qualità
dell’illustrazione; e la cifra
"avanzata" della proposta (cosa che dovrebbe essere chiara, ma
che si offre volentieri a "fraintendimenti"). In realtà a ogni
passo successivo il progredire delle cose ha sommato le incrostazioni passate
alle nuove richieste, che oggi sono di natura più varia, a partire dalla
misura spesso
"locale" della spesa. Il ben noto fattore "circenses"
sceglie l’intervento pubblico quale mezzo per dare lustro a una città – e
qui è indifferente se si tratti di un nuovo "monumento", di una
rassegna di cinema o di una di musica. La valenza "locale" può
identificarsi in quanto è specifico al luogo – e quindi, "la sagra del
fungo nel paese che diede i natali a". O fungere da "attrattore
stagionale" per incrementare il turismo – con rassegne mastodontiche.
L’aspetto paradossale è che a questo punto della storia sono
proprio le rassegne più piccole e interessanti le prime a saltare, dato che
esse non rispondono adeguatamente allo spirito di
"attrattore" oggi richiesto (e pensiamo alle dispendiosissime prime
di lavori originali commissionati da un ente locale che vedono la partecipazione
di realtà del luogo, esecuzioni molto spesso destinate a rimanere esemplare
unico).
Della vecchia concezione resta intatta l’indifferenza per
i costi, aspetto che (comprensibilmente) nessuno ha motivo di sottolineare:
musicisti, proprietari di sale, teatri, amplificazioni, alberghi, mezzi di
trasporto, stamperie, giornali di carta, siti web, critici e pubblico.
Se ci fosse chiesto
di dare una risposta veloce, senza stare a pensarci troppo, alla domanda
su come sia cambiata negli ultimi tempi la stampa italiana – e qui ci corre
immediatamente l’obbligo di precisare che ci riferiamo a quella selezionata
fettina della stampa quotidiana da noi frequentata – diremmo senza alcun
dubbio che quanto stampato ha confermato i nostri peggiori sospetti (sospetti
che sapevamo essere ben fondati ma che in fondo forse speravamo si rivelassero
falsi): la gran parte di chi poteva ha passato gli ultimi lustri senza mai
studiare né aprire un libro (per contro, le vetrine delle librerie ci dicono
che il tempo di scriverli, i libri, non è loro mancato), lucrando una comoda
"rendita di opposizione" che data la disparità delle forze in campo
prometteva di essere eterna. Fatti i conti senza l’oste, crollato il tutto,
ancora una volta, per "motivi esterni", il balbettio perdurante
ha rivelato una cultura insufficiente anche a leggere i fatti. Qualcuno è
rimasto disoccupato, seppure con stipendio.
Più in piccolo, continua inesorabile la sparizione dello
specialista, inteso come "tecnico di una materia". Se guardiamo
al cinema (del teatro non vale la pena di parlare), le recensioni dei critici
di mestiere occupano da anni spazi simili a francobolli; per contro, lenzuolate
quotidiane a servizi e interviste che accompagnano come grancassa pubblicitaria
tutta la lavorazione di un film fino al suo arrivo sugli schemi. La novità
è che i film di maggior peso mediatico vengono ora recensiti da firme che
si distinguono più per l’essere già note che per il peso delle loro conoscenze
specifiche. Mentre aumenta la già ben nota "versatilità" di firme
che è dubbio saprebbero far bene un solo mestiere ma che si ostinano (e con
ragione!) a farne tre o quattro. Della musica è meglio tacere, che lì vale
la politica della "porta aperta" (anche Lana Del Rey!).
Se restringiamo lo sguardo sullo specifico musicale, allargandolo
nel contempo alla Rete, dobbiamo dire che il caso ci ha di recente fornito
l’occasione per aggiornare la nostra conoscenza dei fatti per quanto concerne
le cose di musica. In un momento d’ozio abbiamo effettuato una ricerca riguardo a
¿Which Side Are You On?, il recente album di Ani DiFranco. Le cinque o sei
recensioni in lingua italiana viste in Rete ci hanno fornito uno spaccato
avvilente delle stato della nostra nazione. Evasive e generiche in massimo
grado (un collega statunitense ci avvertiva di non giudicare male i critici
sulla sola base della mezza cartella disponibile per parlare di un album,
ma quando si mena il can per l’aia e si allunga il brodo pur nella scarsezza
di spazio…), contraddistinte da quella similarità di opinioni, fatti e
argomenti che rimanda a uno stesso foglio per la stampa, generiche oltre
ogni dire ma all’improvviso straordinariamente precise, e con l’aggravante
aggiunta di presentare quale "contributo alla rivoluzione" quello
che in realtà è un atto servile (una specialità della stampa musicale italiana
fin dai gloriosi tempi del punk).
Ma la possibilità che l’andazzo non sia necessariamente
migliore in ambiti dove si presuppone viga il normale controllo professionale
ci si è presentata a tinte fosche mentre davamo un’occhiata distratta al
numero 1246 del magazine Il venerdì di Repubblica datato 3 febbraio 2012.
Ci cadono gli occhi su un piccolo articolo intitolato In marcia con Ani,
la folksinger che sogna di cambiare il mondo, a firma Anna Lombardi. Virgolettate,
appaiono queste affermazioni riferite alla DiFranco: "Amendment affronta
le ineguaglianze di genere ed è costruita come un vero e proprio emendamento.
Mariachi parla di chi non ha casa. Hearse è una sorta di denuncia delle tante
iniquità del mondo" (…) "Ma quella che amo di più è Unworry:
dove mi accompagna il banjo del grande Pete Seeger." La cosa buffa è
che nessuna delle suddette trame di canzoni è riferibile al titolo citato
in riferimento nell’articolo, e che in quel pezzo Pete Seeger non c’è. (Nessuna
correzione sul numero della settimana successiva.)
Con un’Italia così non andremo lontano.
© Beppe Colli 2012
CloudsandClocks.net | Feb. 14, 2012