Ritorno a casa
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di Beppe Colli
Aug. 31, 2010
Buffo accorgersi, quasi
all’improvviso, di come (e quanto!) sia cambiato il nostro "ritorno
a casa" nel giro di pochi anni. La nostra cassetta della posta è sempre
lì, e ad attenderci ci sono immancabilmente i soliti giornali e riviste ai
quali siamo ancora abbonati in forma cartacea, i CD e gli LP che abbiamo
ordinato prima di andar via e qualche CD promo che ci chiede di essere ascoltato
(mettendoci così ancora una volta di fronte all’eterno e atroce dilemma:
sentirli, e rischiare di guardare con odio il lettore CD per almeno un paio
di settimane? o non piuttosto ignorarli, rischiando così di perdere quel
"capolavoro del secolo" in grado di cambiare per sempre le nostre
coordinate estetiche?).
Manca però quel senso di "ritorno al mondo" che
faceva seguito a un periodo di netta "separatezza". Ed è uno
"stacco" che per molti versi diremmo mancare (l’apprezzamento della
musica non è frutto anche del silenzio? saranno i nostri sensi in perenne
sovraccarico tanto ottusi da non riuscire a cogliere che le cose più rozze
e pacchiane? sapremmo oggi apprezzare Nick Drake? meglio ancora, avrebbe
oggi Nick Drake una qualche voglia di provare a farsi ascoltare in mezzo
al frastuono?).
Ma ovviamente lo stato di "connessione perenne" ha
i suoi vantaggi: dai primi Internet Point (con quelle sbirciate veloci alla
casella della posta e alle prime pagine dei quotidiani) siamo passati ai
laptop, alle utilissime "chiavette", ai potenti cellulari di ultima
generazione, e oggi il mondo è a portata di mano proprio come a casa. Quindi
film, musica, Twitter e Facebook.
Da un punto di vista personale, la possibilità di collegarci
con regolarità ci ha regalato quest’anno una sommamente gradita diluizione
delle cattive notizie, di recente in una quantità tale da risultare potenzialmente
letale qualora assunta in unica dose.
Le notizie che giungono
dal fronte "musicisti difficili" non sono ovviamente allegre: vendite
scarse quando non prossime allo zero, concerti nemmeno a parlarne, le bollette
che incombono. "E che c’è di nuovo?", direbbe qualcuno. "A
pelle", la sensazione (ovviamente indimostrabile) è che si sia sceso
un altro gradino. Non aiuta, certo, il fatto che il numero dei "musicisti
coraggiosi" non diminuisce, a fronte di un pubblico in perenne calo
(e qui – è inutile girarci intorno – la presenza di figli adolescenti da
cui farsi schiavizzare costituisce un impedimento non da poco). Ma quello
che appare mutato, e forse al di là di ogni possibilità di aggiustamento,
è il quadro complessivo.
Un evento del tutto casuale e che sarebbe troppo lungo da
illustrare in questa sede ha dato origine a un piccolo dibattito tra amici,
sviluppatosi (per quanto poteva) nel corso dell’estate. Siamo rimasti non
poco sorpresi dalla prospettiva "apocalittica" che abbiamo scorto
senza difficoltà in qualche intervento da noi letto, la "prospettiva
apocalittica" essendoci finora parsa un marchio di cui detenevamo senza
alcun dubbio l’esclusiva. Per riassumere lestamente: pensieri complessi,
recensioni senza voto, argomenti che non dichiarano il proprio intendimento
nelle prime cinque righe sono oggi roba con nessuna possibilità di smercio.
Ma è il quadro complessivo a far paura. Si vedano le complesse
strategie cui devono far ricorso nomi che, se non proprio famosissimi, definiremmo
di una qualche notorietà: "ganci elaborati" creati allo scopo di
conquistarsi una pagina su un giornale e spruzzi di colore su webzine senza
memoria. Nulla di tutto ciò può però rivaleggiare con le pagine ricche di
foto a colori che i quotidiani (i quotidiani!) dedicano alle "sexual
politics" di nomi quali Lady Gaga, Rihanna, Katy Perry, Ke$ha e via
dicendo. E i quotidiani a dire che tra le foto della "mucca a due teste" e
il grafico del disavanzo pubblico non c’è proprio competizione, e che loro
hanno già abbastanza problemi a non chiudere.
(In tanta confusione a qualcuno però bisogna pur credere,
specialmente se si tratta di politica. E qui per i soggetti meno acculturati
davvero non c’è scampo – si legga Building a Nation of Know-Nothings, l’interessante
pezzo di Timothy Egan apparso sul New York Times in data August 25, 2010.)
I "nomi celebri" non
sono certamente esentati dal partecipare alla folle corsa in ragione della
loro celebrità, come dimostra il sempre più accentuato gigantismo nel campo
delle ristampe. Se ogni album, per quanto mediocre, ha diritto alla sua brava
Deluxe Edition, cosa resta da fare ai grandi? Le recenti ristampe dei Beatles
– cofanetti "mono" e "stereo" con la "giusta masterizzazione" –
sembravano aver dato l’esempio, ma si erano fatti i conti senza i Rolling
Stones e il loro Exile On Main Street
"siliconato", di fronte al quale ogni ristampa "corretta"
di Jimi Hendrix impallidisce.
Da cui: Station to Station di Bowie in versione
"colossal", con CD, LP, bootleg, maglietta e biglietti; cofanetto
quadruplo di Hendrix "inedito"; ristampa di tutto Lennon (nel quarantennale
ecc.) (e potrà mancare McCartney?); un box di otto CD di Dylan per la prima
volta in versione mono. C’è davvero un mercato per queste cose? O si tratta
di cofanetti destinati in gran parte ai collezionisti di ogni paese (e ad
alimentare il fiorente mercato dei falsi in Rete)? Con rare eccezioni, non
sapremmo dire.
Certo è che il trattamento dei "nomi storici" (qui
le tante pagine assurde scritte a proposito di Exile On Main Street costituiscono
un esempio raccapricciante) non è necessariamente meno sciatto di quello
riservato alle tante cose nuove (ché le penne, dopotutto, sempre quelle sono).
Da un lato è ovvio che nessun articolo può giustificare una spesa superiore
al consueto, quindi a che pro intervistare Carlos Alomar sul
"levare" di Stay quando c’è il comunicato stampa da copiare con
tutti quei particolari già bell’e pronti sul "soggiorno losangelino",
il set di The Man Who Fell To Earth, il Duca Bianco e la successiva purificazione
a Berlino? Dall’altro, quasi nessuno ha sviluppato il know-how necessario
a esprimere un’opinione sensata su masterizzazioni e rimasterizzazioni (il
tutto mentre si parla di suoni!), da cui il silenzio assoluto sull’argomento
o qualche frase a effetto buttata lì senza troppa convinzione.
Il che ci riporta al Lou Reed di Dirt: "Mangerebbero
merda e direbbero che ha un buon sapore/ Se la cosa potesse far loro guadagnare
qualche soldo".
Negli ultimi tempi ci
siamo spesso ritrovati a leggere un blog statunitense dedicato alle arti
denominato ARTicles (sottotitolo: The blog of the National Arts Journalism
Program). Tra le firme che si occupano di musica segnaliamo qui quelle a
noi più note e la loro attuale (eh, sì) testata di riferimento: Larry Blumenfeld
(The Wall Street Journal), Francis Davis (The Village Voice), Robert Christgau
(Barnes & Noble Review), Sasha Frere-Jones (The New Yorker), Ann Powers
(Los Angeles Times, dove la Powers ha anche un suo blog denominato Pop &
Hiss). Vogliamo qui citare anche Laura Collins-Hughes e il suo blog Critical
Difference.
Leggere di queste cose espone ovviamente al rischio di venire
a sapere quanto ancor più precaria di quanto immaginato sia la situazione
nel mondo del giornalismo dedicato alle arti, con licenziamenti e ridimensionamenti
all’ordine del giorno. La critica si trova così esposta a un doppio dilemma:
da un lato, fare un giornale dedicato alle arti è impresa economicamente
insostenibile; dall’altro, la brevità da francobollo e il tono "di servizio" riservato
a questo tipo di scritti (che fine ha fatto il cinema?) rendono impossibile
fare discorsi dotati di un minimo di serietà – e va da sé che questo stato
di cose rende agevole la sostituzione del critico professionista con personale
non specializzato e a basso livello di remunerazione.
Ecco quindi che uno dei nomi di maggior spicco dell’organismo
cui fa capo ARTicles (se ben ricordiamo, il pionieristico critico di rock
John Rockwell) lancia la proposta: perché non fare noi un giornale dedicato
alle arti? Ritenete la cosa fattibile? Il dibattito (che ha già fornito più
di una sorpresa) è tuttora in corso mentre scriviamo.
E’ normale che ogniqualvolta
le cose vanno in un modo che viene giudicato poco desiderabile ci si interroghi
sul "perché". Da tempo immemore la colpa è quasi sempre
"dei giovani". Nel caso in questione, "i giovani" sarebbero
colpevoli di: a) scaricare tonnellate di musica gratis senza minimamente
interrogarsi sulle conseguenze del loro gesto; 2) immergersi in un flusso
incessante di informazioni, da cui superficialità e temporaneità dei loro
oggetti di interesse.
Una discussione interessante (ancora in corso mentre scriviamo)
ha animato un thread sul Forum di Steve Hoffman. Titolo: Will Music ever
be as important to young people as in the 60s and 70s? Le implicazioni del
modello sono chiare: in ragione dei mille modi oggi disponibili per passare
il tempo, la musica occupa oggi una parte infinitesimale dell’attenzione
dei giovani, da cui il prosperare delle "schifezze" che ascoltano
e la vita difficile per la "roba di qualità". Va da sé che una
impostazione di questo tipo fa acqua da tutte le parti, e non è certo come
esempio di rigore logico che ce ne occupiamo. Ci sono però begli spunti.
La cosa che ci ha fatto maggiormente sorridere è stato questo
intervento: "Gli audiofili hanno un modo molto rigido di definire
"ascoltare musica". A loro dire, chi non ascolta musica stando
seduto nel "posto giusto" ("sweet spot") in uno stato
catatonico non ascolta musica. E questo è il problema con gli audiofili (…).
Alla maggior parte delle persone non interessa ascoltare musica in conformità
alle loro definizioni. E questo è quanto".
Il problema è che la persona che ha espresso queste opinioni
sembra non comprendere che in un interscambio umano quella che viene misurata
non è la distanza ideale tra le casse e le orecchie, ma la sensatezza di
quello che viene detto, e detto nell’unico linguaggio – quello verbale –
di cui disponiamo per dire quelle cose. Se sono sensate e contengono informazioni
il modo dell’ascolto diventa secondario. Ma qui vengono i problemi, come
l’esperienza immancabilmente dimostra.
Va da sé che l’industria
si trova in pessime acque, e con poche possibilità di cambiare il corso delle
cose. Ci ha quindi incuriosito leggere il lungo articolo che Paul McGuinness,
da sempre manager degli U2, ha scritto per il numero datato August 2010 della
rivista inglese GQ, dove è apparso con lo speranzoso titolo di How to save
the music industry (un articolo che è possibile leggere – legalmente – in
Rete).
La proposta non è nuova (e, se vogliamo, è il corrispettivo
odierno della tassa sui supporti vergini): tassare i Provider di Servizi
Internet (I.S.P.). "Se la banda larga" è il ragionamento "è
sempre più cara e potente, e se il suo utilizzo primo è quello di scaricare
illegalmente musica e film, perché non tassare allora gli I.S.P.?" (E’
interessante notare che non è infrequente, quando a essere interrogato è
chi scarica illegalmente, sentire rispondere "ho già pagato tanto per
il computer e per l’abbonamento broadband" come se il (non)costo di
quanto scaricato fosse soggettivamente contabilizzato nei soldi effettivamente
spesi dall’utente.)
Ci ha (ovviamente) interessato leggere i commenti all’articolo
(apparsi in Rete), che diremmo di tenore facilmente immaginabile. Questo
ci ha però particolarmente incuriosito (per la sua falsità nel trattare un
fatto specifico facilmente appurabile): "La soluzione per i problemi
dell’industria della musica è vendere la musica a un prezzo inferiore. (…) Gli
album digitali a tre dollari sono il futuro. Lasciamo scomparire il CD e
vendiamo file WAV e MP3 in Rete a tre dollari. Gli Arcade Fire stanno facendo
proprio così e stanno vendendo un mucchio di copie del loro nuovo album Suburbs.
La musica è troppo cara. Assolutamente irraggiungibile a dieci dollari per
album. Se ti piace la musica e vuoi sentire tutti gli album nuovi che ti
incuriosiscono non puoi certo permetterteli a quel prezzo. L’economia va
male. Non dimentichiamo che la musica è un passatempo. Quanti soldi può una
persona permettersi di spendere per un passatempo? Alex 19 Aug 2010".
Gli Arcade Fire vendono il nuovo album a tre dollari???
La soluzione dell’enigma
è in realtà molto semplice: Amazon Digital Discount Helps Arcade Fire Hit
No. 1, titolava il pezzo di Ben Sisario apparso sul New York Times in data
August 11, 2010.
"The Suburbs, pubblicato la scorsa settimana, ha venduto negli
Stati Uniti 156.000 copie. (…) Amazon ha venduto l’album in formato file
da scaricare a $3.99, mentre iTunes e altri negozi digitali lo hanno venduto
a $9.99. (…) Né la Merge né SoundScan hanno reso noto quale percentuale
di vendite fosse ascrivibile ad Amazon, ma lo sconto è stato certamente d’aiuto:
il 62% delle vendite dell’album viene da file digitali (…)."
"Da quando Amazon ha aperto il suo negozio MP3 nel 2007
il suo comportamento nei confronti di iTunes della Apple, il numero uno per
vendite, è stato piuttosto aggressivo". (…)
"La spinta di Amazon è di solito accettata con gratitudine
da artisti ed etichette. Ma alcuni dirigenti di case discografiche esprimono
la preoccupazione che questi prezzi da svendita possano contribuire a svalutare
ulteriormente la musica registrata." (…) "Amazon sceglie un album
da promuovere e lo vende in perdita, pagando all’etichetta il prezzo standard
all’ingrosso – di solito circa 7 dollari – e offrendolo ai fan a un prezzo
di 3 o 4 dollari."
© Beppe Colli 2010
CloudsandClocks.net | Aug. 31,
2010