Fiona Apple
Extraordinary Machine
(Clean Slate/Epic)
Dobbiamo
ammettere di non riuscire a ricordare le circostanze che ci hanno permesso
di apprendere dell’esistenza di Fiona Apple; si trattava comunque sicuramente
di un articolo su carta, non certo di uno di quei video passati in "heavy
rotation" su MTV (Criminal è probabilmente il più
noto) che insieme al proverbialmente imponderabile "fattore caso"
resero in breve tempo multiplatino Tidal (1996), esordio discografico
di una Apple appena diciannovenne ma musicalmente già matura.
Le circostanze storiche non potevano non suggerire un atteggiamento
di sana diffidenza: si era allora, lo ricordiamo, in piena "era
Morissette", laddove il colossale successo di Jagged Little Pill
(quindici milioni di copie vendute? venti?) aveva reso Alanis Morissette
prototipo per tutta una serie di "confessional singers" estremamente
giovani (e, così si sperava, estremamente redditizie); e se una
certa avvenenza era ovviamente richiesta, al resto eventualmente mancante
avrebbero potuto facilmente porre rimedio gli "aggiustacanzoni"
(e, più avanti, anche i software di "aggiustamento intonazione").
Date
le circostanze, Tidal aveva quasi del miracoloso. Ma anche a fare astrazione
dal momento, il disco non demeritava. Produzione pulita (Andrew Slater),
voce tutta avanti, pianoforte (suonato dalla stessa Apple) fortemente
propulsivo, vocalità potente in grado di catturare, gli altri
strumenti a fare perlopiù da sfondo. Ma la batteria "secca"
(Matt Chamberlain) e i tocchi di tastiere e di altri strumenti di uso
poco comune quali vibrafono, dulcitone e marimba (Jon Brion, Patrick
Warren) dicevano di un album "contemporaneo", non di una operazione
revivalistica. I modelli della Apple risultavano discretamente evidenti
già a un primo ascolto, ma il suo spiccato senso melodico, la
sua notevole forza interpretativa e il suo non rinunciare a una certa
complessità strutturale (quanti begli incisi erano in grado di
offrire quelle canzoni!) dicevano di una volontà di giocare il
gioco in modi non troppo accondiscendenti al commercio.
Com’era
facile attendersi, il tono della maggior parte degli articoli sulla
Apple apparsi in quel periodo non prevedeva certo approfondimenti musicali.
Ma bastava una veloce conversazione con la rivista statunitense Keyboard,
che le dedicava la copertina del numero datato novembre 1997 a metà
con la "dea del patchouli" Sarah McLachlan, a dimostrare che
la prevalentemente autodidatta Apple era molto più di un bel
faccino. E se era fin troppo facile tacciare di "adolescenziale"
il senso del drammatico che caratterizzava buona parte delle sue canzoni
(ma Laura Nyro, allora?), pure quello scavare nei meandri dei sentimenti
costituiva una buona alternativa alla direzione "ginnica"
seguita da molto "amore cantato".
Tre
anni dopo, il nuovo album della Apple – titolo lunghissimo, è
convenzionalmente conosciuto come When The Pawn… – ci lasciò
non poco perplessi: era un disco senz’altro più vario e maturo
del precedente, con canzoni pochissimo commerciali che sembravano scappare
da tutte le parti e arrangiamenti in grado di suscitare non poche sorprese;
ma al fondo restava sempre un che di irrisolto, in primo luogo una mancanza
di unitarietà che impediva all’album di diventare qualcosa di
più della somma delle parti. All’epoca attribuimmo la maggiore
responsabilità a Jon Brion, qui produttore e fantasioso polistrumentista
(del disco d’esordio vengono mantenuti solo le versatili parti batteristiche
di Matt Chamberlain e gli apporti tastieristici di Patrick Warren),
ma con il senno di poi ci accorgemmo che l’impresa era in realtà
già persa in partenza: troppo vicino il grande successo di Tidal,
e troppe le esigenze contrastanti da tenere in considerazione. When
The Pawn… affascinava alla distanza, e riusciva comunque a evitare
brillantemente il pericolo maggiore: quello di suonare come uno stanco
"Tidal parte seconda"; la Apple offriva interpretazioni vocali
da brivido: a mo’ di esempio, citiamo qui solo la conclusiva I Know,
con Jim Keltner alla batteria e Greg Cohen al basso, e la piano-voce-e-orchestra
Love Ridden. A riprova della sua mancanza di commercialità, When
The Pawn… finì per vendere un milione di copie, solo un terzo
del predecessore. Per la Apple si apriva così un periodo di incertezza.
Trascorso
qualche anno, si seppe infine che la Apple era di nuovo in studio. Produttore?
Jon Brion. Il che, ragionammo, era una doppia bella notizia, dato che
Brion, ormai produttore e autore di colonne sonore cinematografiche
di un certo successo, sarebbe certamente stato in grado di unire una
notevole forza contrattuale atta a tenere l’artista al riparo da troppo
asfissianti pressioni commerciali a quell’acume musicale di "avanguardia
di massa" tanto simile a una delle sue influenze decisive: i Beatles.
Ma anche qui, il tempo passava senza che nessun disco apparisse. Filtrò
la notizia che voleva – pare, forse, si dice – la casa discografica
estremamente dubbiosa del "commercial potential" del nuovo
lavoro.
Ce
ne stavamo belli tranquilli a sfogliare il numero di gennaio 2005 della
rivista statunitense Bass Player, fresco di uscita, e decidemmo di leggere
l’intervista con Mike Elizondo. Elizondo è ovviamente conosciuto
soprattutto come prezioso collaboratore di Dr. Dre, e quindi attore
di primo piano nei progetti di Eminem e 50 Cent, ma sarebbe oltremodo
ingiusto classificarlo come "musicista a una sola dimensione",
com’è evidente dalla sua abbondante discografia. Tra i progetti
recenti di cui parlava c’erano Chavez Ravine di Ry Cooder, dove Elizondo
aveva suonato il contrabbasso, e… il nuovo album di Fiona Apple! ("I’m
producing Fiona Apple’s next album, which we just started.") Ma
allora, che fine aveva fatto il CD prodotto da Jon Brion?
Era
proprio la domanda che si ponevano tutti i fan della cantante, che arrivarono
a mettere su un sito – FreeFiona – e a mandare mele alla Sony allo scopo
di chiedere la pubblicazione dell’album "versione Brion".
Album che a quel punto – ta-da! – spuntò in Rete. Ovviamente
abbondano le ipotesi su "chi e perché". Una versione
oltremodo ovvia indicava quale autore del gesto il produttore, offeso
dal rifiuto del suo lavoro; Brion ha però negato, asserendo inoltre
che la versione apparsa in Rete non rispecchiava fedelmente quanto da
lui prodotto. Un’altra versione voleva la casa discografica, con astuzia
luciferina, intenta a sondare le reazioni del pubblico quale possibile
predittore di (in)successo commerciale. Certo è che, buffamente,
il disco venne recensito da più parti, con pareri contrastanti.
Extraordinary
Machine "versione Brion" è uno di quei dischi che solo
il pudore derivante da un diffusissimo uso mercantile del termine "capolavoro"
impedisce di definire tale. Brion ha davvero superato se stesso, con
arrangiamenti orchestrali – realizzati, pare, nei londinesi Abbey Road
– a vestire splendidamente la voce della Apple, che canta con quell’espressività
ricca di controllo che la rende pressoché unica nel panorama
– non solo "giovanile" – odierno. Cosa citare? L’accompagnamento
in punta di piedi, quasi da commedia musicale, di Extraordinary Machine,
con quell’aria ironica nell’inciso. Le atmosfere da thriller, da film
noir, della tesissima Red Red Red. L’asciuttezza scattante di Get Him
Back e di Better Version Of Me. La ballata bluesy Oh Well, con piano
ritmato e bella scansione batteristica (diremmo senz’altro Matt Chamberlain)
con cassa che dà aria e sottolineatura di archi e ottoni à
la Beatles. O’ Sailor, uno dei vertici del lavoro, con melodia articolata,
ottima batteria, archi avvolgenti e inciso "eroico" con intelligente
sbocco finale. Waltz (Better Than Fine), con i suoi echi di Kurt Weill.
L’operistica Not About Love, altro vertice del disco, con crescendi
(rossiniani?) di archi ricchi di pathos e inciso incalzante. E poi Please
Please Please, ironica, amara.
Ma
ovviamente non è questo il disco che è stato pubblicato.
La prima versione era troppo difficile per il consumo di massa? Se così
fosse, allora vorrebbe dire che stiamo vivendo tempi davvero tristi.
Troppo poco commerciale? Ma neppure la versione prodotta da Elizondo
è "commerciale", se con questo termine indichiamo un
successo da primi posti in classifica. Per il recensore che ha avuto
mesi per acclimatarsi con la versione Brion (ma diciamo la verità,
bastano un paio di giorni) il rischio è indubbiamente quello
di reagire con eccessiva severità a qualcosa che è ugualmente
valido, solo diverso. Abbiamo quindi programmato il CD in modo che riproducesse
l’ordine dei brani della versione a noi già familiare e ci siamo
messi in paziente ascolto.
Elizondo
non ha fatto veri sfracelli, né ha reso il disco – e la cantante
– una caricatura. Ha "solo" banalizzato tutto, nel tentativo
(certamente comprensibile: un produttore non lavora nel vuoto) di renderlo
meno arduo a un consumo distratto come quello oggi prevalente. Un tentativo
che definiremmo impossibile e destinato a fallire, dato che la Apple
scrive – e canta! – canzoni troppo distanti dalla pappetta imperante
per poter godere di ampio successo. La versione di Extraordinary Machine
in apertura è quella prodotta da Brion (così come la conclusiva
Waltz), ma diremmo che la parte vocale è stata ricantata. Ne
escono meglio i brani più ritmici – Get Him Back, Better Version
Of Me, Oh Well, Window e Waltz – mentre risultano pessime Red Red Red,
Not About Love e O’ Sailor. Imbarazzante vedere come Elizondo si sforzi
a tratti di riprodurre con altri mezzi alcune soluzioni orchestrali
di Brion. Sostanzialmente corrette le parti di batteria di Abe Laboriel,
Jr., presente nella maggior parte dei pezzi, pur se lontanissime dalla
creatività propria alle apparentemente semplici parti suonate
da Matt Chamberlain. Quasi dilettantesche, e particolarmente inappropriate,
le parti di batteria di Ahmir "?uestlove" Thompson dei Roots.
La sorpresa – in negativo – è proprio la Apple: le canzoni prodotte
da Brion l’avevano vista coinvolta, grintosa e comunicativa, qui la
musicista sembra quasi voler ricostruire le sensazioni appropriate partendo
dalla memoria.
A
questo punto affiora la domanda cruciale: come suonerà l’album
a chi non ha mai ascoltato la versione non pubblicata? Azzardiamo: più
che discreto con punte di molto buono, ma non il grande passo avanti
che i sei anni trascorsi da When The Pawn… rendevano pienamente lecito
attendersi.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net | Oct. 20, 2005