Trey Anastasio
Paper Wheels

(Rubber Jungle Records/ATO Records)

Trey Anastasio ha fatto centro. Avremmo potuto aggiungere "contro tutte le aspettative", ché  – per motivi del tutto diversi – le ultime uscite che lo hanno visto protagonista non facevano certo presagire un lavoro solido e ispirato come Paper Wheels. Un lavoro che pur nell’estrema accessibilità necessita di un buon numero di ascolti per crescere e rivelare compiutamente le innumerevoli sfumature vocali e orchestrali che lo arricchiscono. Un parallelo in tal senso potrebbe essere tracciato con la produzione tarda degli Steely Dan storici, con album quali Aja e Gaucho a tornare alla mente nel corso di numerosi passaggi strumentali. L’unico difetto che ci sentiamo di imputare all’album è l’assenza di testi, una fonte di spesa che avremmo senz’altro preferito alla bizzarra – e immaginiamo dispendiosa – collezione di immagini colorate che occupa interamente il libretto accluso al CD.

Potremmo dire che per molti versi Paper Wheels sembra riallacciarsi al debutto solista di Anastasio, quel Trey Anastasio pubblicato nel 2002 (i completisti diranno che quello non è davvero l’esordio solista di Anastasio, ma lo sticker sulla copia in nostro possesso dice "The debut solo album", e noi crediamo sempre agli sticker). Proviamo a esaminare insieme una foto di quel momento.

Farmhouse (2000) era stato l’ultimo album dei Phish e al contempo una sorta di "numero zero" per il Trey Anastasio solista, con la comparsa di ritmi, musiche e materiale umano che dicevano che il musicista aveva già un piede fuori dalla porta. L’esigenza di lavorare con una strumentazione più ampia e dalla tavolozza più varia di quella dello storico quartetto doveva avere avuto una parte preponderante, e i risultati erano sembrati dare ragione ad Anastasio, come testimoniato dal già citato album di debutto e da quel Plasma che l’anno successivo aveva reso possibile a chi non c’era toccare con mano la spettacolare resa della formazione sul palco. Troviamo qui per la prima volta musicisti che resteranno al fianco di Anastasio fino all’oggi di Paper Wheels: il batterista Russ Lawton, il bassista Tony Markellis, il tastierista Ray Paczkowski e la trombettista ed esuberante cantante dalle sfumature soul Jennifer Hartswick. La nuova ritmica suonava secca ed essenziale, il tastierista completava bene i fraseggi chitarristici del leader, la Hartswick era la classica sorpresa.

Qui i Phish si erano ricostituiti e sciolti, con l’eccellente Round Room (2002) e il per certi versi indecifrabile Undermind (2004) a segnare i confini di un mistero.

Dopo il breve intermezzo orchestrale di Seis De Mayo (2004), Anastasio era sembrato pronto per il grande balzo commerciale. Purtroppo Shine (2005) è uno di quegli album – una cinquantina – nei quali la Sony ha inserito un programma di Copy Protection in grado di fare sfracelli sul computer di chi lo ascolta, e qui – tra parole difficili quali rootkit, malware e similia – la musica si era persa. Immaginiamo con grande dispiacere di Anastasio, che aveva lasciato l’Elektra per firmare con la Columbia/Sony.

Misteri ancora più grandi sembravano essere celati negli oltre settanta minuti di Bar 17 (2006), album gigantesco e per certi versi illogico, con archi di ampiezza cinematografica a coesistere con rock chitarristico e performance vocali di ben strana fragilità. Ne consegue che l’arresto del musicista, pochi mesi dopo la pubblicazione, mentre non coglie veramente di sorpresa l’ascoltatore, induce a rileggere il lavoro inforcando un ben diverso paio di occhiali. A questo punto The Horseshoe Curve (2007) era solo un post-scriptum la cui principale funzione era quella di mostrare la caratura jazzistica della formazione che Anastasio portava in giro.

Siamo all’oggi. Ricostituitisi i Phish, Anastasio prova a rinfrescare il suo linguaggio solista con Traveler (2012), ma i climi musicali scelti allo scopo – i riferimenti sono The National, Gorillaz e Jónsi – non sembrano funzionare. Frattanto, Fuego (2014) mostra i Phish in grado di reggere bene come quartetto, anche per l’apporto tutt’altro che trascurabile di un nome come Bob Ezrin. Resta il dubbio se Anastasio abbia ancora molto da dire.

Come già detto in apertura, sappiamo oggi che la risposta è affermativa. Sappiamo anche che quanto letto prima di ricevere l’album – che i climi risentivano dell’esperienza di quest’estate, quando Anastasio era stato ospite alla chitarra di un discreto numero di concerti d’addio dei Grateful Dead; e che l’album risentiva dell’influenza della Stax, con molti brani incisi all’insegna di "buona la prima" o quasi – era falso. Le registrazioni risalgono allo scorso anno, e anche se le ritmiche hanno il profumo dell’esecuzione in diretta il certosino lavoro di arrangiamento e orchestrazione dice di ben altri tempi.

Vediamo i nomi. Accanto agli abituali e già citati Lawton, Markellis, Paczkowski e Hartswick troviamo qui Natalie Cressman al trombone e alla voce e James Casey a sassofono, flauto, percussioni e tastiere. Registrato come d’abitudine nello studio di Anastasio, The Barn, prodotto dallo stesso Anastasio con l’apporto dell’abituale collaboratore Bryce Goggin, parte tecnica a cura di Ben Collette. Missato da Elliot Scheiner – un bel legame con gli Steely Dan! Per gli arrangiamenti Anastasio è ricorso a collaboratori sperimentati: Don Hart per i fiati e Rob Moose per gli archi. Mentre non ci risulta familiare il nome di Carmel Dean, che ha curato le parti vocali insieme ad Anastasio.

Un’occhiata ai brani dovrebbe rendere le cose più chiare.

Sometime After Sunset apre l’album con un groove agile, secco, arioso "alla Steely Dan", con cori, piano Fender Rhodes e chitarra a strappi. Nella sezione B sembra davvero di ascoltare Donald Fagen. Bell’assolo finale di Anastasio: tipico, rilassato, avvolto dai fiati e dalle voci.

The Song è la classica "ballad" di Anastasio che cattura al primo ascolto. Bella sezione vocale nelle strofe, che sale al proscenio nel ritornello. E’ il classico brano che ascoltato per radio mette allegria.

Never apre con arpeggio di chitarra e pianoforte all’unisono, entra la ritmica, e una melodia malinconica dal sapore agrodolce. Begli inserti vocali. Con estrema naturalezza, sul piatto tenuto ride, un bel fraseggio di basso e gli accordi del pianoforte si inserisce la chitarra di Anastasio che acquista gradualmente grinta, poi un ottimo pianoforte, ed è un ottimo momento alla Phish che non sa di minestra riscaldata.

In Rounds ha un attacco grintoso, funky, con Clavinet. Anastasio si lancia in un ritornello funky con coro femminile. Bell’intervento di Hammond (che diremmo vero), con assolo, uscita della sezione fiati con riff trascinante. Intervento strepitoso della chitarra solista sostenuta dai cori.

Flying Machines è una ballad lieve con voce dall’andamento colloquiale, tempo rilassato, pianoforte in evidenza. Unisono vocali "alla Steely Dan". Archi missati bassi. Bel ritornello. Uscita di chitarra sottile e discorsiva.

Invisible Knife ha un groove agile, pianoforte, e piatto. Una bella melodia, i cori a inserirsi, si "alza" per il ritornello. Assolo di chitarra vivace ma malinconico. Ottima ritmica e organo a sostenere. Coro finale, ripresa della melodia e voci corali.

Lever Boy è un mid-tempo classico per Anastasio/Phish. Bella combinazione di rullante/charleston/cassa e armonici di chitarra. Melodia ben cantata, e una sezione B non poco Steely Dan. Aumenta di intensità, anche qui gli archi in sottofondo a fornire aria. A questo punto le voci dicono "So take a spin": raddoppia il tempo, entra una melodia che sa tanto di Frank Zappa e di Italia meridionale, con bellissima orchestrazione con tromba e flauto, e chitarra sottile.

Bounce ha un attacco ritmico con voce e pianoforte da soul ballad. Dialogo tra Anastasio e voci, contrappunto e coro. Uno STACCO di bacchette, raddoppio del tempo, soul veloce, poi un’entrata davvero entusiasmante di chitarra sorretta dagli accordi del piano e dalla ritmica. Entrano i fiati a dare stacchi grintosi. Le voci a fare "Bounce!" e coda con fiati e chitarra. "Too high!", e una finta fine. "Too high!". Certamente bello e trascinante in concerto.

Liquid Time parte con un attacco della sezione fiati, impianto generale un po’ in stile "bossa lenta", ottimi fiati, Anastasio che si doppia avvolto dai fiati. "Stacco" del charleston, entra la chitarra sottile, il tutto alla Steely Dan (e qui è solo la mancanza della voce di Donald Fagen che impedisce al brano di assumere una piega amara). Bella uscita della sezione fiati in solitudine, riprende la chitarra sottile, poi all’unisono con i fiati. Qui il brano sembra accelerare e rientrano le voci. Chiusura con melodia chitarristica alla Jerry Garcia, con coda lunga.

Paper Wheels: attacco, e stranamente il tutto ricorda l’album solista di Walter Becker intitolato Circus Money. Bella melodia, Anastasio più cori, la coppia charleston/basso in evidenza. "We’ll all speak French one day". Ritornello accattivante, sul ripetuto vocale si inserisce la chitarra solista, e poi una parte parlata… in francese.

Speak To Me parte con un brillante attacco "funky", il charleston suonato semi-aperto a due mani, unisono vocale di Anastasio e cori femminili, chitarra a strappi, basso incalzante, bella miscela di chitarra e piano elettrico. Si inseriscono i fiati con melodia ariosa. Un finale finto, e ritornano i fiati con una lunga parte scritta eseguita all’unisono con la chitarra solista. La sezione si fa poi incalzante, chiudono le voci "a secco".

Cartwheels chiude l’album in una chiave allegra e ottimistica, con la voce di Anastasio all’unisono con le voci femminili. Ritornello con coro che quasi va sul calypso, groove arioso. "Everything’s gonna be just fine/Got no time for a troubled mind". Gioiosa coda vocale, entra la chitarra, poi l’organo.

Anastasio ha messo molto lavoro e cura in quest’album, e tanta sostanza. Siamo quasi certi che il lettore si farà il regalo più bello prestandogli un’attenzione indivisa.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2015

CloudsandClocks.net | Dec. 12, 2015