American Diaries, pt.1
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di Beppe Colli
Oct. 12, 2020
Sposato uno statunitense che prestava servizio
nella vicina base Nato, a metà degli anni ottanta la nostra amica XY è andata a
vivere negli Stati Uniti. Le tappe che ricordiamo – Boston, Maui,
Washington, ce ne saranno state certamente delle altre – si intersecano con un
matrimonio che a un certo punto fa naufragio e una carriera che indoviniamo
soddisfacente, anche se americanamente "fluida", con corsi di "ingegnere di pompe idrauliche" e
"progetti" semestrali a destra e a manca.
Cittadina italiana, la nostra amica ha l’obbligo di tornare
a votare in quello che è ancora il suo Paese, da cui visite di lunga durata che
permettono di rivedere parenti e amici. Ne approfittiamo ogni volta per tenerci
aggiornati, e dall’espansione reaganiana in poi abbiamo sempre avuto una
testimone d’eccezione su usi e costumi di quella vasta e complessa nazione, con
interessanti anteprime ("Conosci Netflix?").
Certo, i segni di una progressiva "americanizzazione"
erano ogni volta più visibili, ma facendo la tara ("C’è ancora Bbròdy?"), il dialogo era ancora possibile.
Fino al giorno in cui spuntò con un tipo dall’aria infida e
subdola – avrebbe potuto impersonare senza sforzo l’assassino di Trotsky in qualunque produzione internazionale – e tirò
fuori questa frase:
"Ma lo sai che Obama è Africano?"
Come battuta non ci sembrava un granché, ma abbozzammo, aspettando il seguito.
Che non venne. Capimmo che diceva sul serio. Seguì una lunga
discussione sul fatto che Obama si rifiutava di mostrare il suo certificato di
nascita, "che avrebbe mostrato che era nato in Kenya". Tentammo di
spostare il discorso sulla politica di Obama, sperando che l’arrivo dei
"linguini marinara" ci togliesse dall’imbarazzo.
"Ma non lo sai che Obama è Repubblicano?". A noi
risultava essere il Presidente proposto dai Democratici. "Ma è questo il
trucco. Hanno candidato un Repubblicano tra i Democratici, travestito, per fare
una politica di destra, così il popolo se la beve mentre lui aiuta le banche e Wall Street." Tentammo debolmente di replicare che
candidare un Repubblicano sarebbe stato meno tortuoso, ma la spiegazione era a
prova di bomba: "Un Repubblicano stavolta non l’avrebbero eletto. Quindi
hanno fatto vincere un Repubblicano travestito."
Giunsero le linguine, arrivederci fra due anni.
Da una volta all’altra le cose diventavano sempre più
demenziali. Venne il 2016, e su Hillary Clinton ci toccò sentire cose
pazzesche, dalla complicità nell’assassinio di un avvocato a mille intrallazzi
con i banchieri, Wall Street e "quelli del
carbone". Ma a quel punto eravamo ferrati, e perfettamente in grado di
sapere che quelli erano i cavalli di battaglia della propaganda Repubblicana,
con in prima fila personalità della "talk radio" come Rush Limbaugh. (Ricordiamo che abitiamo vicino a una base Nato,
la cui stazione radio ci è perfettamente accessibile.) Che ci faceva la nostra
amica tra i Repubblicani?
"Scusa, ma tu alle primarie chi sostieni?"
"Bernie Sanders."
Nel corso degli anni abbiamo avuto una dimostrazione di prima mano di come funzioni il meccanismo di
propaganda ("messo in atto dalla Destra" non sappiamo, ma) "ai
danni della Sinistra e a vantaggio della Destra" (questo ci pare certo).
Se non ricordiamo male, i primi studi di una certa sostanza
sui "rumors" sono quelli effettuati dalla
nascente sociologia statunitense nel corso della Prima Guerra Mondiale,
all’incirca un secolo fa.
Ma l’esistenza della Rete, dei "Social Network", e
del cosiddetto "effetto camera d’eco" ("echo chamber", la condizione per cui si tende a
dialogare con individui che confermano e rafforzano le nostre credenze),
unitamente alla possibilità di analisi fine dei dati aggregati impossibile
prima dell’avvento della moderne capacità di calcolo mediante computer, hanno
completamente cambiato le regole del gioco rispetto al quadro tipico della
"propaganda di partito" come nota nelle democrazie occidentali.
L’azione di interferenza sfrutta con abilità pregiudizi
preesistenti (nei confronti di gruppi etnici o di diverso status
economico-sociale), l’ignoranza delle regole del gioco (con l’invito al voto
per telefono, in realtà inesistente) e la scarsa propensione al controllo della
notizia mediante il ricorso a una fonte indipendente, per bombardare
l’individuo con pseudo-informazioni del tutto assurde e ovviamente false ma che
vengono percepite quali vere in virtù della fiducia nutrita nei confronti della
fonte (che a vederlo dall’esterno è un bel paradosso: diffidare di tutti,
tranne di chi ti inganna).
Le complesse indagini effettuate a proposito delle
interferenze nel corso della campagna per l’elezione del Presidente degli Stati
Uniti del 2016 ci offrono un panorama degno di un libro di Philip K. Dick, con
un livello di "disturbo" potenzialmente in grado di farci perdere
ogni fiducia nelle procedure democratiche e di toglierci ogni voglia di andare
a votare (!!!). (Visto come funziona?)
E dato che tutti sono convinti che gli ignoranti siano solo
gli altri, offriamo al lettore due esempi "scomodi".
Dopo aver ottenuto la
nomination quale candidata del Partito Democratico alla Presidenza degli Stati
Uniti, Hillary Clinton ha un malore, una specie di svenimento di non meglio
precisata natura. Quale la causa? Potrebbe essere una polmonite, uno stato
temporaneo di disidratazione, un qualcosa di ischemico-vascolare-celebrale…
Chissà.
Apriamo la Repubblica e leggiamo un’intervista a (non ne
ricordiamo il nome), segretaria di un’organizzazione che fa riferimento a
Bernie Sanders, la quale afferma che "la Clinton
è ovviamente gravemente malata, forse un tumore, non sappiamo, ma una cosa è
certa: è una donna molto malata, e la sua salute non la rende in grado di
essere la nostra candidata alla Presidenza". L’intervistatore allora
chiede (non "come fa a conoscere con certezza tipo e gravità della
malattia", come avrebbe fatto il sottoscritto, che però non è un
giornalista e di queste cose non capisce niente, ma) se esistano precedenti per
questo tipo di decisione, e come si dovrebbe procedere in caso di rinuncia.
"Non lo so, e non mi interessa. Quel che è certo è che non può essere
candidata".
Ci siamo chiesti al tempo, e ci chiediamo ora, che bisogno
ci fosse di porgere il microfono a una demente di tal fatta. Ci rendiamo conto
che il lavoro di giornalista è spesso caotico, che quello che va in pagina a
volte è frutto di un semi-caso. Ma le conseguenze potenziali, non interessano a
nessuno?
Per chi non fosse rimasto granché impressionato, offriamo un
altro esempio.
Tra i candidati di
punta alle Primarie del Partito Democratico, Bernie Sanders
offre quale punto qualificante della sua piattaforma la proposta di introdurre
l’assistenza sanitaria universale. La sua proposta incontra, com’è logico,
anche delle voci contrarie, finché la candidatura decade, la proposta sulla
sanità essendo, si stima, uno dei punti maggiormente invisi a buona parte
dell’elettorato, anche del Partito Democratico. (Semplifichiamo molto una
materia complessa, senza però tradire il punto che stiamo trattando.)
Ci capita di leggere un commento che possiamo suntare così: "Se un Grande Paese come gli Stati Uniti
respinge una proposta di assistenza sanitaria universale come quella che per
noi europei è normalità, e rifiuta come perdente la candidatura di chi la
propugna, allora forse è meglio candidare il perdente e non rinunciare ai
valori fondanti, andare alla lotta a testa alta e con la schiena dritta e se è
il caso perdere con onore."
Ci tocca adesso dire che se ricordiamo perfettamente il
quotidiano dove abbiamo letto questo commento – è la Repubblica, e ne siamo
certi perché è l’unico quotidiano nazionale che acquistiamo in edicola – non
siamo certi di chi fosse la firma. (Diremmo quella di Michele Serra in una sua
Amaca, ma la nostra pur prodigiosa memoria non ci offre alcuna certezza al
riguardo.)
Il punto importante non è di chi fosse la firma, ma il fatto
che con tutta evidenza lo scrivente non si era mai occupato dell’assistenza
sanitaria negli Stati Uniti e non aveva idea dei termini della questione.
Chi ha seguito il tragitto e il varo del cosiddetto "Obamacare" – l’Affordable
Care Act – e il feroce tentativo dei Repubblicani di
affossarlo al Congresso e di sabotarlo nei singoli stati ne ricorda i punti
salienti: partecipazione volontaria allo schema proposto e possibilità di
differire l’adesione. Ciò per convincere chi aveva già una copertura
assicurativa che la nuova proposta poteva essere migliore, e che non era
necessario decidere subito qualora indecisi, ciò nella (giusta) convinzione che
il meccanismo avrebbe conquistato tante più adesioni quanto più avrebbe
dimostrato di funzionare bene.
Per contro, mentre circa 100 milioni di americani sono già
coperti da Medicare o Medicaid, il Medicare for All di Sanders chiedeva a circa
180 milioni di utenti di rinunciare alla copertura di cui essi già godono a
oggi e della quale sono variamente soddisfatti. Inoltre, il meccanismo andava
coperto da nuove tasse, il cui ammontare risultava superiore a quanto
ricavabile dalle proposte presentate da Sanders.
(C’era anche un problema riguardante l’aspetto "organizzativo", con
un cambiamento "epocale" che si supponeva avrebbe facilmente travolto
la burocrazia federale e che diremmo testimone dell’aspetto
"messianico" da "partire da zero" proprio a certi
schieramenti politici.)
E se l’obiettivo che
l’avversario si pone fosse proprio quello di farci candidare il perdente? Può
una persona che non è del tutto imbecille essere contento di avere perso con la
schiena dritta invece di aver vinto con la schiena semi-curva ora che il
vincitore riempie i ranghi della magistratura con nomine che dureranno decenni,
affossa quanto fatto in termini di ambiente e inquinamento, strappa il tessuto
democratico?
Sveglia, ragazzi!
© Beppe Colli 2020
CloudsandClocks.net | Oct. 12, 2020