E
nel 2006?
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di Beppe
Colli
Jan.
10, 2006
La
nostra intenzione originaria era stata quella di iniziare il nuovo anno,
qui a Clouds and Clocks, presentando alcuni CD di recente uscita che
avevano stimolato la nostra attenzione durante le vacanze. Ma poi alcuni
argomenti che ci passavano per la testa, notizie lette e conversazioni
fatte, e in più l’intenzione di chiudere un paio di questioni
lasciate in sospeso nell’ultimo editoriale dello scorso anno, ci hanno
fatto cambiare idea. Per non parlare del fatto che il nostro CD player
di fiducia è in attesa di riparazione – e potrebbe mai l’economico
sostituto che ci fa compagnia al momento essere altrettanto affidabile
nel compito di rendere giustizia a musica così bella e complicata
quanto quella che spesso costituisce la colonna sonora delle nostre
giornate? (Come altri recensori possano riuscire a estrarre un senso
da CD ascoltati su minuscole casse collegate al computer è cosa
che non capiremo mai – ma evidentemente a loro riesce.)
Agli
inizi del nuovo anno abbiamo deciso di fare visita al megastore che
faceva la megasvendita con il megasconto (50%) di cui si era detto nello
scorso editoriale, giusto per vedere cos’era successo. Lì abbiamo
avuto la sorte di imbatterci in un paio di acquirenti verbalmente più
articolati di quelli che siamo soliti incontrare in questa tipologia
di luoghi (e qui potremmo raccontare alcuni aneddoti – forse la prossima
volta); è ovvio che un breve scambio di idee su se sia vero o
no che Saxophone Colossus è meglio di Tenor Madness non cambierà
il mondo, ma viviamo in un’era di aspettazioni decrescenti, no? A ogni
modo, come ci attendevamo, la sezione "classic rock" presentava
molti spazi vuoti. "E che sarebbe questo ‘classic rock’?",
chiederebbe qui qualcuno. Beh, intendiamo i Beatles, gli Stones, i Kinks,
i Pink Floyd, i Doors, i Led Zeppelin, i Byrds, gli Steely Dan e così
via. Siamo rimasti discretamente sorpresi nel vedere che quasi tutti
gli album incisi negli anni sessanta da John Mayall – e tutti i nuovi
SA-CD dei Can! – erano esauriti. Diremmo interessante il fatto che la
maggior parte del rock "semi-classico" – roba come i Cure
e i Sonic Youth – fosse ancora disponibile. Cosa ciò possa voler
dire a proposito del "consumo moderno" – anche solo limitatamente
alla zona geografica dove abitiamo – ovviamente non sapremmo dire. Ma
qui ci è venuta in mente una cosa letta molto tempo fa.
Qualcuno
che lavorava nel music business – forse un produttore discografico di
Nashville? – parlava della realtà di quel mondo. "Molte
volte mi viene chiesto se una canzone o un disco avranno successo. La
mia risposta è che chi me lo chiede può benissimo rispondersi
da sé. Basta guardare la classifica e dire quale canzone il disco
in questione dovrebbe rimpiazzare." Forse così è
un po’ troppo semplice? Ma quello che in seguito abbiamo compreso è
che, nel tempo presente, la "concorrenza" è costituita
da tutta la musica disponibile in commercio (e anche, oggi, quella non
disponibile ma che può essere ottenuta da qualcuno che fa parte
di una comunità in Rete). Quindi un disco si trova potenzialmente
a competere con dischi di John Coltrane, i Beatles, i Faust o i Can
(o Joni Mitchell, Dylan, gli Stones, Laura Nyro, Jeff Beck, i Byrds
e via dicendo). E’ un punto che tende a essere dimenticato, dato che
di tanto in tanto a tutti capita di introiettare qualcosa che i giornali
ci ripetono praticamente ogni giorno: che gli unici oggetti che competono
per ottenere la nostra attenzione (e i nostri soldi!) sono quelli apparsi
nel corso del mese in questione. Il che può ben essere una logica
commercialmente valida – forse. Ma la realtà è ben diversa.
(E quando a un ascoltatore di giovane età capita di scoprire
qualche disco vecchio e misterioso…) E’ ovvio che la maggior parte
della "musica commerciale" fa pacchetto unico con stili di
vita, vestiti, un video e così via. Ma ci piacerebbe che coloro
i quali producono "musica non commerciale" ponderassero la
questione un po’ di più. C’è troppa musica in giro, e
la maggior parte, se non proprio orrida, è quanto meno assolutamente
non necessaria.
Eravamo
davvero curiosi di ascoltare il nuovo album di Trey Anastasio. Tanto
curiosi da averlo prenotato alcuni mesi prima che uscisse. Ma abbiamo
atteso invano, fino al giorno in cui siamo stati avvertiti del fatto
che il disco non era disponibile – e non lo sarebbe stato. Ma avevamo
visto che era (o forse era stato?) disponibile negli Stati Uniti! Pare
che la nuova etichetta di Anastasio (la BMG – o è la Sony?) abbia
inserito qualche strano marchingegno software dentro un bel po’ di titoli
nuovi – incluso quello del nostro uomo! (Che immaginiamo abbia ora dei
seri dubbi sul fatto di aver lasciato la Elektra…) Sarà mai
l’album ri-pubblicato? Stiamo a vedere.
Ma
almeno ci restava la possibilità di ascoltare il nuovo album
di Nellie McKay – che avevamo pre-ordinato. E invece no! Pare che l’album,
rinviato una prima volta dal 16 settembre al 27 dicembre (?), e poi
al 3 gennaio (??), non uscirà più – forse. Sembra che
la casa discografica della McKay (la Columbia – o è la Sony?)
non abbia gradito il fatto che il nuovo CD avesse 23 pezzi e fosse decisamente
lungo – o qualcosa di simile. Stiamo a vedere.
Il
che ci porta dritti a una questione che è per noi causa di bruciori
di stomaco: com’è possibile che quasi nessuno nella (ahi!) stampa
specializzata si sia scomodato a considerare l’album di esordio di Nelly
McKay? (Speriamo ardentemente che nessuno ci scriva per dire che ascoltare
un album come quello è esperienza di tutti i giorni.) La sua
biografia così colorata forniva inoltre quell’elemento "scrivi
facile/leggi semplice" oggi tanto gradito. Dunque? Nei nostri peggiori
incubi immaginiamo che dato che il disco non era stato una priorità
per la Columbia (o è la Sony?) non lo era stato neppure per la
stampa… ma no, non può essere. Certo, a volte ci capita di
avere la spiacevole sensazione che siano in gioco delle strane "forze
planetarie"…
Caso
bruciore di stomaco #2: Ben Folds e il suo Songs For Silverman. Ma non
è proprio risultato interessante per nessuno? (Il che la dice
lunga sulla sincerità di quei giornali che affermano di avere
quale loro priorità il "linguaggio dello scrivere canzoni".)
Adesso non vediamo l’ora che venga pubblicato il nuovo CD di Donald
Fagen (e anche quello di Walter Becker).
Ce
ne stavamo a leggere il nuovo numero di Down Beat (almeno è nuovo
qui dove abitiamo: è il numero di gennaio) quando abbiamo notato
un’intervista a Carla Bley e Charlie Haden fatta da Dan Ouellette. Appare
subito evidente che i due non hanno gradito le tiepide recensioni del
loro recente CD (Not In Our Name, pubblicato a nome Liberation Music
Orchestra – l’abbiamo visto in giro, giusto? E’ quello la cui copertina
riprende quella dello storico album della LBM del 1968) apparse su quel
giornale. Ovviamente "artista in disaccordo con critico" non
è certo un fatto nuovo. E ci era anche capitato di leggere una
recensione (di Francis Davis, sul Village Voice) decisamente elogiativa.
Ma – almeno per come l’abbiamo capita – Carla Bley ha svolto un diverso
ragionamento, secondo il quale i critici non avrebbero compreso i sottili
strati di allusioni da lei usate negli arrangiamenti. Cosa che a nostro
parere apre tutta un’altra serie di questioni.
E adesso è venuto il momento di discutere
una questione di non eccelsa importanza ma che tuttavia può fornire
qualche spunto di interesse: la (per chi scrive) strana ostinazione
con cui qualcuno continua a considerare Clouds and Clocks un sito "italiano".
Questione a prima vista paradossale: chi scrive è infatti di
nazionalità italiana, e risiede in Italia. Però a ben
vedere la nazionalità non produce di per sé un’identità
specifica, e la residenza neppure (diremmo che ai fini del discorso
che stiamo facendo la possibilità di vedere concerti sia l’unica
variabile legata al territorio). Proviamo a fare un passo indietro.
Quando
l’importazione dei giornali esteri era pari a zero (con le parziali
eccezioni di Roma, Milano e Bologna) e i viaggi in aereo appannaggio
di una minoranza in virtù del loro costo, avere tra le mani una
copia del Melody Maker o del New Musical Express era di per sé
un’esperienza emozionante; se poi parliamo di un giornale statunitense
come Rolling Stone si era quasi nel campo della fantascienza. Veniva
poi il problema della lingua, allora decisamente ignota ai più.
Oggi le cose sono molto mutate, dalla possibilità di conoscere
una o più lingue alla disponibilità in edicola di un numero
enorme di testate estere anche in posti geograficamente decentrati o
scarsamente importanti. E poi ci sono gli abbonamenti. E poi c’è
anche la Rete, dove tanto (dal Village Voice al Guardian) è consultabile
gratis e molto non ha più neppure una controparte cartacea (pensiamo
a siti quali Rocksbackpages.com o ai siti personali di gente come Robert
Christgau o Cameron Crowe – un bell’elenco di link è parte del
sito Rockcritics.com).
A questo
punto l’unico motivo (che riusciamo a vedere) per cui qualcuno debba
forzatamente essere legato all’italiano è di natura commerciale:
chi fa un giornale che deve vendere in edicola lo deve per forza fare
in italiano. Ed è quindi assolutamente logico e razionale che
il suo orizzonte sia costituito dagli altri giornali "in edicola
e in italiano" – cioè a dire, "la concorrenza".
Ma in che senso questo debba necessariamente essere vero dell’utenza
(il lettore) è una cosa che non riusciamo proprio a capire, fatta
esclusione per una certa (italica?) pigrizia. (Un caso a parte è
costituito dai quaranta-e-qualcosa – facciamo i cinquanta-e-qualcosa?
A lungo additati come "zavorra", una bella fetta di loro ha
continuato a voler mantenere un interesse per la musica pur in presenza
di "fattori avversi" quali lavoro e famiglia – e qui abbiamo
il presentimento che i più giovani dureranno molto meno, con
conseguenze che è facile fin d’ora definire nefaste.)
Recentemente
qualcuno diceva di un arrancare commerciale dei giornali musicali statunitensi,
le cui informazioni sarebbero giudicate già vecchie al momento
in cui essi arrivano fisicamente in edicola. E’ un problema complesso,
e che certamente potrebbe dare adito a moltissime considerazioni. Ma
che la comunità con cui dialogare debba oggi necessariamente
essere quella delimitata dalla condivisione della medesima lingua (italiana)
è un’asserzione già oggi assolutamente priva di senso.
©
Beppe Colli 2006
CloudsandClocks.net
| Jan. 10, 2006